Esistono, per i greci antichi, nella vita umana, due piani ben separati: un piano privato, familiare, domestico, rappresentato dalla “casa” (oikos), e un piano pubblico, deliberativo, comune, che fa della comunità una polis in senso stretto, rappresentato dalla “piazza” (agorà). L’oikos forma un cerchio chiuso nello spazio della polis: è il regno dell’idion, di ciò che è separato, particolare, non condivisibile con gli altri.

Essere “idioti”, cioè vivere rinchiusi nel proprio oikos, era inconcepibile per i greci (si pensi alla pena dell’ostracismo, vissuta dall’intero mondo ellenico come una vera e propria maledizione): lo spazio dell’oikos è lo spazio della fissità, della permanenza, dell’isolamento: è lo spazio della necessità e dell’urgenza dei bisogni, della naturalità, della protezione garantita da uno sguardo familiare: è l’ambito di ciò che è “dato”.

Definisce che cosa noi siamo: al suo interno trova posto anche tutto ciò che ha a che fare con il processo biologico.

Lo spazio privato è quel luogo protetto, tutto per sé, in cui mettersi al riparo e coltivare quelle emozioni e quei sentimenti che, portati nel pubblico, si snaturerebbero. L’agorà, invece, è il luogo del koinon, di ciò che è comune, pubblico. Come scrive Christian Meier, «in mezzo ai cittadini si era in primo luogo cittadini, oppure non si era nulla». In quanto spazio delle deliberazioni comuni, è lo spazio della scelta e dell’azione, spazio in cui è possibile discutere ed argomentare liberamente. È un luogo comune, dove il greco (e tutto l’occidente, perlomeno) si reca per mostrarsi, per rendersi visibile, per scegliere, tra prospettive plurali, le modalità del suo agire e dell’agire della polis stessa. Centralità e assenza di dominio: l’agorà è questo, il luogo della comunanza, che preserva la separatezza degli esseri umani.

Il luogo del pubblico e l’eredità liberale

I liberali, eredi del messaggio greco, configurano lo spazio pubblico come quello spazio che permette agli individui di condividere qualcosa tra loro (nella fattispecie, la politica) senza, tuttavia, essere costretti a cancellare le proprie caratteristiche e la propria unicità: pubblicità ed individualità sono i due lati di una stessa medaglia, entrambi importanti ed essenziali. Proprio per questo noi abbiamo bisogno di avere uno spazio pubblico, e uno privato, proprio per questo è necessario mantenere questi spazi divisi.

Il confine, indispensabile, deve però essere protettivo per entrambe le parti: sia per lo spazio pubblico, sia per lo spazio privato.

La soglia tra casa e piazza

Nel mondo moderno e contemporaneo si sono tuttavia succeduti due fenomeni: da un lato è scomparsa quella distanza che gli antichi dovevano costantemente mantenere per trascendere la soglia di “casa” ed entrare in “piazza”: pubblico e privato costituiscono oggi un’unica dimensione, un tutto indistinto che non diventa meno oscuro quando gli si dà nome “società”, ed entro il quale risulta sempre più difficile orientarsi. Dall’altro, però, tale perdita di distinzione si è verificata a scapito soprattutto della sfera pubblica, cui è stato sottratto quasi tutto il territorio di pertinenza: il privato ha colonizzato il pubblico, rimuovendo ogni confine, con l’esito paradossale per cui, per un verso, tutto può essere reso pubblico (grazie al magico potere dei social media). Ma, per un altro verso, il nostro atteggiamento, le nostre attitudini, rimangono troppo spesso quelle tipiche dello spazio privato: la necessità, il bisogno di uniformità, l’auto-interesse e l’astensionismo nei confronti del mondo.

Questo idiotismo trova forse una delle sue migliori rappresentazioni in Bartleby.

Il racconto di Melville

Bartleby the Scrivener è un racconto – breve e claustrofobico – pubblicato da Herman Melville nel 1853, e uno dei racconti più famosi della letteratura nordamericana. È la storia, se storia si può chiamare, di uno scrivano che, a ogni occasione della sua vita, risponde sempre con la stessa, apparentemente inespressiva, frase: «Preferirei di no» (I would prefer not to).

Herman Melville (New York 1819-1891) è stato scrittore, poeta e critico letterario. Il romanzo «Moby Dick» viene considerato uno dei capolavori della letteratura americana. «Bartleby the scrivener» è del 1853.

Bartleby è un impiegato modello, assunto in uno studio legale come scrivano. Il suo compito è semplicemente quello di copiare e lui lo svolge quotidianamente in modo impeccabile, con dedizione assoluta, fino a quando, un giorno, l’avvocato per cui lavora gli assegna una mansione leggermente diversa. Alla richiesta, semplice e legittima, Bartleby oppone un fermo e inspiegabile rifiuto, fatto di ostinato mutismo. Il celebre «preferirei di no» è l’unica frase proferita, reiterata nel tempo e opposta a qualsiasi ragionevole richiesta di spiegazione, e farà (spoiler!) precipitare il protagonista in un enigma impenetrabile e tragico, che lo condurrà in breve tempo alla morte.

In una riflessione che dura ormai senza posa da giorni, sono giunta alla conclusione che gli astanti dell’episodio di Civitanova Marche – gli unici miei oggetti di interesse, qui e ora – si siano comportati come moderni Bartleby.

L’altro «Preferirei di no»

Conosco un altro esempio di “preferirei di no”, più recente, e italiano. Lo ha raccontato Giorgio Boatti, storico, in un libro intitolato, appunto «Preferirei di no» (Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino, Einaudi, 2017). L’8 ottobre 1931 Mussolini impose ai professori universitari italiani il giuramento di fedeltà non solo alla patria, ma anche al fascismo. Su 12.500 ordinari soltanto dodici rifiutarono di obbedire: persero la cattedra, senza diritto a forme di liquidazione né di pensionamento, e furono isolati, perseguitati, sorvegliati. Ma quei dodici individui, differenti per origine, carattere, modi di pensare, attitudini sociali, nell’autunno del 1931 mostrarono al mondo che dire di no era possibile e che, anzi, era una scelta dovuta, a se stessi, e a tutti gli altri. Si chiamavano così: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra (sul numero di professori che rifiutarono di giurare la discussione è ancora in corso, e non entro nel merito di una proporzione di per sé sufficientemente eloquente).

Ma che cosa hanno in comune i dodici professori, Bartleby lo scrivano, gli astanti di Civitanova Marche, con noi?

«Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?».

La banalità del bene

Inizia così il dialogo tra Giorgio Perlasca e Enrico Deaglio, divenuto poi un (ancora troppo poco noto libro (La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Milano, Feltrinelli, 1997): «Il vecchio signore che me la poneva, non cercava comprensioni o scusanti. Al contrario, stava cercando di dirmi che tutti, nella maniera più naturale, avrebbero dovuto comportarsi come si era comportato lui». Era l’autunno del 1989; a fine settembre, su diversi quotidiani italiani, nello spazio accordato alle notizie brevi, era stato segnalato che a Gerusalemme era stato insignito di prestigiose onorificenze statali un cittadino italiano, il signor Giorgio Perlasca, di ottant’anni, che nel 1944 a Budapest era riuscito a salvare migliaia di ebrei ungheresi destinati alla deportazione nei campi di concentramento.

Poche righe aggiungevano che la sua vicenda era rimasta sconosciuta per quasi mezzo secolo ed era venuta alla luce in seguito alla tenace ricerca condotta da alcuni sopravvissuti; altrettante poche e vaghe righe venivano spese per accennare al contesto dei fatti: il signor Perlasca si era fatto passare per un diplomatico spagnolo e in questa veste era riuscito a portare avanti la sua opera di salvataggio.  

Giorgio Perlasca è scomparso a Padova nel 1992 all’età di 82 anni. Commerciante, comasco, nell’inverno del 1944, fingendosi console generale di Spagna, salvò la vita di oltre cinquemila ebrei ungheresi.

«Dunque, signor Perlasca: perché lo fece?», chiede Deaglio.
«Perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di essere stato un eroe. Alla fin dei conti, io ho avuto un’occasione e l’ho usata. Da noi c’è un proverbio, che dice: l’occasione fa l’uomo ladro. Ebbene, di me ha fatto un’altra cosa».

E noi? Che cosa avremmo fatto noi? E a Civitanova Marche, che cosa avrei fatto io?

Perlasca non era un eroe. Perlasca aveva alle spalle un passato di convinta militanza fascista.

Ma, se ciò che distingue dalla bestialità risiede nella competenza a stabilire la giusta distanza tra bene e male, giusto e ingiusto, nella differenza tra agire e reagire all’ingiustizia, tra scelta e automatismo, «dire di no» è il minimo che si possa fare.

Non è necessario essere eroi, né avere grossi muscoli. Si può anche solo urlare, invece di fare una foto: c’è caso che si salvi una vita.