In gergo sportivo e nei tempi del Giro d’Italia si potrebbe chiamare “volata lunga”. Mancano tra i sette e gli otto mesi alle prossime elezioni per il rinnovo di sindaci e Consigli comunali, ma le correnti sotterranee dei partiti sono in pieno movimento per studiare strategie, elaborare compromessi, valutare tendenze e, magari alla fine, anche indicare candidature capaci di attirare voti e spostare consensi.
Si voterà a Roma, Milano, Torino, Napoli, le quattro più grandi città italiane, e anche a Bologna, Rimini, Novara, Varese solo per citarne alcune tra quelle politicamente più significative.
Che vinca il migliore è tutt’altro che scontato. Anche perché il sistema elettorale dei Comuni ha un grande pregio e un piccolo difetto. Il pregio è il sistema maggioritario a doppio turno che alla fine vede eletto un sindaco che può contare su di una solida maggioranza in Consiglio. Il difetto sta più nelle prassi politiche che nell’architettura elettorale, cioè nelle strategie dei partiti alla ricerca di un risultato che rispecchi più gli equilibri di potere che le effettive esigenze delle città.
In questa fase infatti proprio lo scarso confronto con i territori e la mancanza di leader autorevoli dimostra l’insostenibile leggerezza dei partiti. L’esperienza del governo giallorosso pone in evidenza una sorta di patto faustiano: hanno venduto l’anima pur di rimanere al potere. E questo vale per i Cinquestelle, ben lontani (potremo dire per fortuna) dalla politica del “no-tutto”, ma anche e soprattutto per il Pd che non riesce a definire una strategia minimamente identitaria e appare di continuo sottomesso alle pur incerte volontà degli alleati ancora numericamente più forti in Parlamento.
E peraltro anche la Lega non sa più dove sia la sua anima. Quella federalista è stata abbandonata, quella antieuropeista è diventata impopolare perché è ormai chiaro che solo dall’Europa può venire la spinta per uscire dalla crisi, quella sovranista è più sicuro appannaggio dell’offerta originale, quella di Fratelli d’Italia.
Il caso di Roma è emblematico
La realtà di partenza vede i due partiti di Governo che sono reduci da esperienze locali che eufemisticamente potremmo giudicare non del tutto positive. Prima la burrascosa gestione di Ignazio Marino, appoggiato e poi sconfessato dal Partito democratico, poi i quattro anni della pentastellata Virginia Raggi, quattro anni che, al di là dei risultati che possono giudicare solo i romani, sono stati caratterizzati da un continuo e frenetico alternarsi di assessori, dirigenti, consulenti ed esperti.
Virginia Raggi ha annunciato la sua candidatura superando le vecchie regole del movimento che impedivano un doppio mandato. E i Cinquestelle, pur essendo una candidatura di fatto debole, non possono non sostenerla. Ma nello stesso tempo il Pd, alleato a Palazzo Chigi, non può inimicarsi i romani appoggiandola nella campagna elettorale. Ecco allora la macchiavellica ipotesi di presentare un candidato di scarso spessore per poi appoggiare Raggi al secondo turno. In attesa peraltro anche di un candidato del centro-destra. Ce n’è uno tra questi che, stando ad alcuni sondaggi, potrebbe “rischiare” di vincere al primo turno. Ma questo candidato capace di raccogliere più del 50% dei voti romani risponde al nome di Giorgia Meloni, che ha ben altre ambizioni che quella di sporcarsi le mani con la contrastata politica municipale romana.
La complessità bizantina di questa lunga corsa elettorale vede poi i travagli del Pd alle prese con il solito gioco dei veti incrociati, un gioco su cui ha fatto irruzione la forte, ma imbarazzante, candidatura di Carlo Calenda, che ha dopo aver abbandonato il partito contestando l’alleanza con i grillini ora è sceso in campo chiedendone apertamente i voti.
Torino, Napoli e Milano
Più semplice, almeno in teoria, potrebbe essere un accordo formale di tipo governativo a Torino dove il ritiro del sindaco uscente, Chiara Appendino, lascia aperta la strada ad una alleanza 5Stelle-Pd, sempre che si trovi un nome se non carismatico, almeno di buona esperienza politica.
Interessanti anche le prospettive di Napoli. Dove il sindaco Luigi De Magistris, eletto per due volte sulla base di un partito e di una coalizione molto personali, non può ricandidarsi e ha già messo in campo Alessandra Clemente, assessore ai Giovani, nel segno di una continuità attorno a cui il consenso è tutto da verificare.
Milano vive i travagli del Partito democratico. Beppe Sala ha più volte affermato che è troppo presto per parlare di candidature. In realtà Sala e i suoi, per ora sconosciuti, contendenti sono in surplace, quella tecnica paradossale delle gare di velocità su pista che permette di stare fermi per far passare davanti l’avversario, poi sfruttarne la scia e sorpassarlo in volata. Il re di questa disciplina era Antonio Maspes, un altro milanese, che ai campionati del mondo del 1955 si fermò per 32 minuti sulla pista del Vigorelli cercando di far passare l’olandese Jan Derkens. E poi conquistò la magia iridata.
Dalla volata lunga siamo arrivati al surplace. È forse la dimostrazione di come il sistema dei partiti sia una fase schumpeteriana, quella distruzione creativa indispensabile per far muovere l’economia e la società. Il problema è non fermarsi al primo stadio, quello della distruzione. Come è avvenuto nell’ultimo referendum. Dove i partiti hanno dimostrato di voler essere contro se stessi per ritrovare una legittimità perduta. Il migliore dei sofisti non avrebbe saputo fare meglio.
Riconquistare legittimità
Eppure proprio in questa fase sarebbero necessarie concretezza e rapidità: i partiti potrebbero riconquistare la loro anima con una strategia che abbia alla base la coerenza delle iniziative, un rapporto schietto con la società, un’assunzione in prima persona delle responsabilità. In pratica il contrario di quanto sta avvenendo, per esempio, con la disarmante vicenda del Mes.
Riconquistare legittimità è indispensabile per ricostruire la fiducia dei cittadini e della società. Anche perché l’alternativa al sistema dei partiti ci porterebbe a una post-democrazia con risvolti più inquietanti che costruttivi.
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