L'Italia è molto più bella di quello che appare. Nonostante il suo carsico sentimento antindustriale, la gente sa poi riconoscere - nella carne dei territori - chi vale e chi no. Soprattutto tra gli imprenditori: piccoli, medi o grandi che siano. Io, ormai, ne ho incontrati molti.
È sempre una sorpresa raccogliere suggestioni, confidenze, fatiche, successi. Alcuni di loro, in questi ultimi anni, mi hanno ridato fiducia nella classe dirigente. Spesso, nelle associazioni datoriali, c'è odor di muffa, arroganza e molta mediocrità. Spesso. Ma non sempre, ovviamente. C'è chi non abbandona passione e senso civico da generazioni. Andrea Illy, per esempio, l'industriale del caffè, con cui ho trascorso ore a ragionare di economia, finanza, politica e felicità: dialoghi poi divenuti un libro, Italia felix, un volano per altri appuntamenti, dibattiti, tavole rotonde. Peccato che tra il 2019 e il 2020 non abbiano avuto il coraggio di portarlo alla guida di Confindustria. Adesso illycaffé è Benefit Corporation e Andrea, classe 1964, è impegnato nell'ambizioso progetto di Regeneration 2030, a dimostrare che - volendo - il "paradigma" si può cambiare.
Se Barilla si rivela un Leone
Con Luca Barilla, classe 1960, vicepresidente del colosso di famiglia che guida con i fratelli Paolo e Guido, mi sono ritrovato a discutere di economia a Bologna, poco prima dei nuovi lockdown, al "Festival della resilienza". Si è commosso nel ricordare il padre Pietro: «Ci diceva sempre che l'impresa non è nostra». Da tre anni si divide tra Parma e Torino. Ha comprato le Pastiglie Leone, storico marchio subalpini di caramelle e dolciumi, stabilimento in quel di Collegno. Un investimento tutto suo, di sua moglie e dei due figli. «Desideravo completare l’esperienza da imprenditore del made in Italy, cercando una piccola ma ben attrezzata azienda da far crescere», racconta. Punta su nuovi prodotti, ha idee. Quando parla di “manufatti”, gli brillano gli occhi. Come quelli di Willy Wonca, ho pensato e scritto, nella fabbrica uscita dalla penna dello scrittore inglese Roald Dahl e poi resi famosi da Gene Wilder e Johhny Depp.
Con quegli stessi occhi ha preso carta e pena nei giorni più bui del lockdown. Ha scritto a tutti i dipendenti: «Cari Leones, così mi piacerebbe che ci chiamassimo tutti noi, desideravo da tempo scrivervi, ma le drammatiche circostanze di questi giorni non me ne hanno dato la possibilità. Ora sono qui a pensarvi e a dirvi di essere sereni e guardare avanti con ottimismo». Insieme alla lettera c’era un pacco con 75 confezioni di pasta Barilla. «Noi di Leone – incalza Luca – siamo fortunati nel poter contare su una storia di 163 anni che ci può offrire un confronto, una spinta, un'ispirazione. Una volta ho letto che la storia è "luce di verità, vita della memoria, maestra dell'esistenza e annunciatrice di tempi". È bene che ci affidiamo ad essa: una società bloccata nel presente non può progettare il futuro». Poi, Luca conclude: «Mio padre, tanti anni fa, mi raccontò che nel 1945, dopo la guerra, la Barilla poté ripartire e avere successo grazie alla reputazione che si era conquistata nel tempo. Sarà così anche per noi. Quando tutto sarà finito, ci ritroveremo tra i muri della nostra fabbrica con quel sorriso che mi avete abituato a vedere sui vostri volti e torneremo a progettare il futuro».
Sulle orme di Adriano
Risalendo dall'Emilia, il Piemonte è subito lì. Via dall'autostrada, fino a Monveglio, comune di circa 330 anime immerse nelle colline astigiane. C'è il nuovo Mollificio Astigiano, snc guidata da Pia Giovine, classe 1968, di Canelli, e Marco Prainito, 1974, di Milano. Nella vita sono marito e moglie. Niente figli, ma 18 dipendenti («collaboratori», precisano) assunti con il contratto metalmeccanico dell’artigianato. Metà sono donne. Fatturano intono ai due milioni di euro, hanno circa 2.500 clienti, ora ben diversificati dopo la crisi del 2007 che aveva visto assottigliarsi la committenza dall’automotive. Molle di tutti i tipi, ovvio.
E una passione inattesa e contagiosa per Adriano Olivetti.
L'indimenticato industriale eporediese (nato nel 1901, scomparso nel 1960, le ricorrenze non mancano) è entrato nella loro vita quasi per caso, ma affascinandoli. Pia (che spesso si firma come “responsabile della Divisione benessere e felicità” nonché “Ambasciatrice della cultura e del divertimento”), era accompagnatrice di viaggi organizzati. Le vennero affidati gruppi di dipendenti della azienda di Alba, che le parlano del “signor Michele”: «Ferrero non l’ho mai conosciuto, ma mio nonno paterno mi disse che gli fece “testare” la Nutella». Il marito Marco, ingegnere e general manager della fabbrica, le siede accanto. Pia incalza: «Come imprenditori abbiamo una “responsabilità diretta” sul futuro di 25 ragazzi, quanti sono i figli dei nostri addetti. Riscoprire Adriano Olivetti, la sua storia, la sua capacità di sognare e guardare in avanti, è un modo per dire quanto siano importanti le relazioni tra le persone, a maggior ragione se si è impresa». A Olivetti hanno dedicato tre giorni di convegno in fabbrica: aperto al pubblico, tra un lockdown e l'altro, e macchinari spenti, una occasione di formazione permanente.
Marco e Pia, nel tempo, hanno avviato attività specifiche per i dipendenti: dalle “Mollimpiadi” (quando a Torino c’erano i Giochi del 2006), a vacanze organizzate. Con il fotografo cuneese Oliver Migliore hanno dedicato una giornata agli “Scatti a molle”, divenuti calendario del 2020 per i clienti e utilizzati nel progetto “Persone patrimonio d’impresa”. Il nuovo Mollificio Astigiano è sostenibile? «Certo – rispondono Pia e Marco – per essere così la società deve avere i conti in ordine. Ed ecologica. A breve saremo autonomi anche per la produzione di energia; le auto dell’azienda sono elettriche». Fanno utili, non sono matti. «C’è un modo per fare impresa in modo diverso – dicono i coniugi Prainito –, ispirato all’etica, così come nella visione di Adriano Olivetti. Abbiamo scelto, per esempio, di non lavorare con chi produce armi, anche se sarebbe vantaggioso». Belveglio è terra natia di Umberto Calosso, esiliato nel Ventennio, voce di Radio Londra, docente universitario, deputato alla Costituente e amico di Ceronetti che portò spesso qui. «Fare bene non è di destra o di sinistra, semplicemente è qualcosa di civico e a noi piace essere così», incalzano Pia e Marco.
Il signor Bellezza
Di nuovo al volante, verso Torino. Destinazione Beinasco. È l’automotive, Bellezza. Ovvero di Massimo Bellezza, 60 anni, presidente e amministratore delegato della CPM, azienda nata nel 1967 per produrre carpenteria metallica come paranchi e impianti di sollevamento. Adesso è leader mondiale nella progettazione e nella costruzione di linee di montaggio per veicoli di ultima generazione. Come per la 500 elettrica, gioiellino cool di casa Fca in produzione a Mirafiori. L’intera linea di montaggio è stata studiata e realizzata negli stabilimenti di Beinasco. La CPM è divenuta negli anni leader mondiale nella costruzione di impianti ad alta tecnologia per il “mariage”, l’assemblaggio finale di scocca, motore e componenti. Un processo ora completamente automatizzato grazie a un sistema di dodici AGV (Automated guided vehicle) chiamati “Profleet”, robot autonomi alimentati da un percorso a induzione nel pavimento in grado di trasportare su ruote con precisione millimetrica quanto necessario per la creazione della vettura.
L'azienda è stata fondata da Gianfranco Bellezza, il padre di Massimo. La prima officina trasudava grasso e rumore. Adesso è trasformata in hangar ovattato stile Silicon Valley. Sugli uffici – in cui si susseguono riunioni di team con mezzo mondo – domina una 500L sospesa su una linea come quella montata a Kraguejevac, in Serbia. Ha maturato una esperienza invidiabile con la Tesla di Elon Musk, la Byton cinese, la Maserati (è firmato CPM l’impianto della Mc20 nella Motor Valley modenese), e la Lamborghini Urus. È fornitore Fca e ora Stellantis. La svolta? Nel 1999, quando l’azienda è entrata nel Gruppo tedesco Dürr, specializzato nella fornitura di impianti e tecnologie per l’automotive e per l’aeronautica (15mila dipendenti, fatturato che sfiora i 4 miliardi di euro, presenza in 28 Paesi). Da poco la CPM è diventata il suo Competence center mondiale per il “final assembly”.
I prodotti di bellezza
Ancora nell'hinterland torinese, ma a Pianezza. Ecco Marco Piccolo, 47 anni, quattro figli, una laurea in economia. Gestisce con la famiglia la Reynaldi, specializzata nella produzione in conto terzi di un’ampia gamma di prodotti cosmetici (6 milioni di fatturato, di cui 75% all’estero). A lui, da poco, Confindustria Piemonte ha affidato la delega per la CSR (Corporate social responsibility). Dice: «Nel mondo delle aziende – ragiona – dobbiamo ingranare la marcia. La sostenibilità non è un capriccio, ma un fattore di competitività irrinunciabile. A maggior ragione adesso che siamo tutti alle prese con il rilancio dopo la crisi del Covid. La sostenibilità è un valore trasversale. Molti la applicano soltanto al marketing, come storytelling, per dire che si è attenti all’ambiente». Alla Reynaldi ne sono più che consapevoli: «Abbiamo investito per arrivare a zero spreco di acqua ed emissioni di CO2. Costi importanti, che si ammortizzano velocemente, fanno bene all’ambiente e alle vendite. Grazie al riciclo dei rifiuti abbiamo abbattuto molti costi. Essere sostenibili, inoltre, vuol dire impostare bene i rapporti con il personale, conciliando tempo e lavoro. Ho strappato qualche risorsa alla concorrenza: li pago un po’ meno, ma sanno che alle 17 si chiude e ci si dedica alla famiglia o ad altro. Insomma, hanno l’idea che l’uomo è al centro».
La Reynaldi è impegnata nella impact economy. Un noioso utopista? «No, sono preciso e pignolo nei conti – ribatte Marco Piccolo –. E sono anche molto esigente sul lavoro, che va svolto come si deve. Noi ci siamo strutturati come Benefit-corporation, ma non significa che non ci interessi il profitto. Anzi. Alla Reynaldi il fatturato del 2020 è cresciuto del 26%. Avevamo 28 addetti nel 2019, ora sono 59. Un terzo degli utili è stato diviso anche con i dipendenti». Marco aderisce anche all’Aipec, l’associazione di imprenditori e imprese per la “economia di comunione”. Riunisce anche quei professionisti nel mondo del business che intendono porre come «valore aggiunto del proprio modo di lavorare nel mercato nazionale e internazionale, la cultura del dare». Un modo civico e responsabile di intendere l’economia ispirato da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari.
Tra vestiti usati e orti urbani
Infine, Torino, senza passare per la old industry. Un po' per scelta, ecco. Non perché non ce ne sia bisogno, ma perché la città deve imparare a essere policentrica, attrattiva, nuova. Come le due giovani donne imprenditrici che hanno messo in piedi Atelier Riforma. L’idea è nata tra il 2018 e il 2019 durante il percorso “Talenti per l’Impresa” della Fondazione Crt. Le due co-founder sono Elena Ferrero e Sara Secondo, entrambe under 30. Al team collaborano adesso anche altre due persone: Davide Miceli e Irene Maddio. L’attività dell’azienda? Allungare la vita di utilizzo dei capi d’abbigliamento attraverso la creatività sartoriale e applicando i principi dell’economia circolare. La startup raccoglie abiti usati, anche a domicilio, dà loro nuovo valore e li rivende. Il lavoro di trasformazione avviene grazie alla rete costruita con sarti, modellisti, designer, studenti di moda, brand sostenibili, nonché sartorie sociali in cui lavorano persone in condizioni di svantaggio economico-sociale. Funziona, stanno crescendo. Folli? Geniali?
Infine, Orti Alti. Soltanto un cenno, merita. Due architette, Elena Carmagnani e Emanuela Saporito, si inventano un network di architetti, ricercatori, agronomi ed educatori. Rigenerazione urbana: progettano orti sui tetti delle abitazioni o delle fabbriche dismesse e mille altre iniziative. L'idea, faticosa, molto interessante (e molto diffusa nei Paesi nordici), è abituare la gente a prendersi cura degli spazi. Provate a immaginare di proporre una cosa del genere nel vostro condominio.
Insomma, storie d'Italia. Una sineddoche per dire che da Nord a Sud abbiamo nel Dna l'energia per farcela. E che potremo uscire da questo maledetto tunnel della pandemia. E non solo. Se tutti, qui e nei Palazzi della politica, ci mettiamo a ricucire con serietà quanto abbiamo trascurato per incuria, sciatteria e puro egoismo.
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