New York. Più persone che postano notizie su Internet non si traducono in un maggiore controllo delle fonti. E più canali per distribuire le loro opinioni non equivalgono a un maggiore pluralismo. Dall’Università della Southern California, dove dirige il Laboratorio di innovazione su comunicazione e giornalismo (Annenberg Innovation Lab, AnnLab), Jonathan Taplin non ha dubbi: gli Stati Uniti stanno attraversando un periodo monolitico per l’informazione e l’intrattenimento.

I toni grigi della sua istantanea si ritrovano in un'analisi del Reuters institute, che come ogni anno ha recentemente pubblicato le sue previsioni sulle "tendenze dei media, del giornalismo e della tecnologia”. Ma se la diagnosi del presente è scoraggiante, per quanto riguarda il futuro sia Taplin sia gli editors intervistati dalla Reuters condividono un moderato ottimismo. 

Da Bob Dylan alla Walt Disney

Andiamo però con ordine, perché il nome Jonathan Taplin può non suonare familiare a chi dall’Italia non ha seguito attentamente la cultura americana degli anni '60 e '70.  Taplin ha iniziato la sua carriera come tour manager per Bob Dylan, ha contribuito a organizzare il concerto per il Bangladesh per George Harrison e prodotto The Last Waltz con Martin Scorsese. Per poi diventare produttore presso la Walt Disney Pictures e fondare un giornale, prima di assumere la posizione attuale di direttore dell'Annenberg Innovation Lab alla USC (University of Southern California).

Il tarlo della disinformazione

È dopo aver osservato l’arco della creazione e della diffusione di contenuto sui media americani degli ultimi 50 anni, dalla tv a Internet fino all’esplosione di Facebook, YouTube e Twitter che Taplin è sicuro. La comunicazione negli Usa, dice, oggi è molto meno libera e creativa che all’inizio della sua vita professionale, perché è soffocata dal duopolio Facebook e Google, dominata da posizioni politiche estreme, non particolarmente democratica né aperta a nuove idee. E facilmente manipolabile.

Jonathan Taplin

«I colossi di Internet si presentano come paladini della libertà d’espressione. Ma il ragazzo che controlla il telefono 240 volte al giorno è libero? — comincia col chiedersi Taplin —. Ci sono prove che le grandi aziende di Internet abbiano intenzionalmente iniettato la dipendenza nel sistema dei social. È facile: introduci un contenuto controverso che stimola un'azione (l’utente lo condivide) che porta a una ricompensa (un “mi piace”) che induce a investire ancora più tempo sulla piattaforma per riprodurre le opinioni più estreme o le notizie più controverse».

Reuters Institute: l'AI non ci salverà dalle fake news

L’analisi del Reuters Institute contiene un concetto simile: «Le nozioni tradizionali di imparzialità e oggettività stanno subendo pressioni in un'era di maggiore polarizzazione politica e sociale e minore controllo delle fonti su Internet — vi si legge —. I video online sono in particolare al centro della disinformazione, con l'aumento di canali di parte e di podcast video distribuiti tramite piattaforme come YouTube e Spotify». Lo studio dell’agenzia Reuters aggiunge poi che non sarà la tecnologia a salvarci dalle fake news.

«L'intelligenza artificiale ha condotto e condurrà a una maggiore efficienza e automazione in molti settori, inclusa la pubblicazione — continua il paper —. Ma non necessariamente a maggiore libertà e verità».

Taplin è d’accordo e fornisce un esempio concreto. Fino al maggio 2016, spiega, Facebook aveva curatori umani che sceglievano quali erano i trend emergenti sul sito. Dopo, le persone sono state sostituite da algoritmi e da allora la Cina, la Russia, ma anche «decine di studenti in Macedonia che hanno capito che le menzogne fanno fare più soldi della verità» hanno scoperto quanto fosse facile manipolare Internet grazie ai “bots”. Basta infatti ripetere e condividere una notizia a ping pong fra alcuni siti perché schizzi in cima alle liste delle notizie più importanti. Anche se è falsa.

La conclusione ovvia è che un’autentica pluralità di voci non nasce da maggiore laissez-faire, ma da più controlli. «Non è vero che Facebook e Google non hanno alcuna influenza su quello che compare sulle loro piattaforme, da Instagram a YouTube — incalza Jonathan Taplin —. Riescono a depurarle dalla pornografia, perché spendono ogni anno decine di milioni di dollari per mantenere un sistema di intelligenza artificiale che ne impedisce la comparsa. Possono fare la stessa cosa per le fake news».

Ma se la tecnologia non è in sé una bacchetta magica per depurare le acque torbide dell’informazione online, è certo che contiene i semi del cambiamento che permettono il moderato ottimismo di cui si parlava. Il direttore dell'Annenberg Innovation Lab osserva infatti che «la tecnologia si muove su un percorso di crescente personalizzazione» e che i giovani sono diventati abili nell’installare blocchi per le pubblicità invadenti o i cookies non desiderati. 

Esistono anticorpi?

Ma perché le cose migliorino veramente, Taplin spera che il pubblico chieda maggiori regolamentazioni del contenuto che circola sui siti come sui social. «Il citizen journalism, dove chiunque può pubblicare una notizia, una foto o un’opinione è fondamentale, ma lo è anche avere degli editor che compiano delle verifiche — spiega —. Abbiamo bisogno di un sistema mediatico che non consenta a metà del Paese di vivere in un mondo di bugie e cospirazioni».

Il primo passo? Secondo Taplin sarebbe revocare la protezione legale negli Usa per le società di Internet, in modo che possano essere ritenute responsabili per contenuti dannosi e diffamatori pubblicati sui loro siti.

Un bisogno di limiti condiviso dagli editors interpellati da Reuters: «La pandemia ha costretto a ripensare a dove dovrebbero trovarsi i limiti della libertà di parola. Ci si può aspettare un approccio più interventista sui contenuti dannosi e inaffidabili, mentre i lettori daranno maggiore importanza alle "marche" conosciute di notizie affidabili, che riceveranno un maggiore sostegno finanziario. Già entro la fine dell'anno, il giornalismo potrebbe essere un po’ più separato dalla massa di informazioni pubblicate online».

Conseguenze? Rischi? Che il contenuto di qualità su Internet sia sempre più chiuso dietro i paywall, mentre la disinformazione continua a circolare gratis.