Da appassionato sciatore non potevo rimanere indifferente leggendo l’argomentato articolo di Marco Bussone - presidente nazionale dell'Uncem - sul futuro della montagna. Il cambiamento climatico è ormai un fenomeno irreversibile nei suoi effetti anche se è lecito sperare che si possa continuare sulla strada di un controllo e di una riduzione delle emissioni climalteranti.

Ma sono ormai oltre trecento le località italiane che hanno chiuso, perché inutilizzati o inutilizzabili, gli impianti sciistici.

Solo in provincia di Torino si va dalla Valle Pellice (ricordate il Vandalino?) all’alta Valle di Susa (Beaulard e Pian Gelassa); dalla Val Sangone - con gli impianti dell’Aquila - al Colle del Lys (tra Valle Susa e Valle di Viù) a quelli dei Tornetti sempre nella Valle di Viù per finire a quelli della Cialma in Valle Orco e Cima Bossola in Val Chiusella.

In Lombardia si possono ricordare lo skilift sul Monte Poieto, nel Comune di Selvino (Bergamo), dismesso addirittura negli anni ’60 del secolo scorso, la seggiovia sul Monte Arera a Oltre Il Colle (Bg), lo skilift sul Monte San Primo sopra Bellagio (Como), la funivia sui Monti Greggio e Sighignola nel Comune di Alta Valle Intelvi (Co). E tanti altri, così come interi villaggi come quello di Alpiaz di Montecampione in stato di degrado da un decennio.

Tra fallimenti e abbandoni

Per riqualificare queste località si è fatto poco o nulla. Il fallimento delle società di gestione ha causato l’abbandono di edifici, piloni, cavi in acciaio. E le realtà locali (o regionali) sono state a guardare. La carenza di neve ha moltiplicato le difficoltà finanziarie esplose con la chiusura quasi totale degli impianti nel 2020 e 2021 per il lockdown pandemico (e paradossalmente in quegli la neve non mancava).  

Ora, ricorda Bussone, ci sono 200 milioni grazie alla legge finanziaria «per realizzare interventi di ammodernamento e manutenzione» degli impianti di trasporto e di innevamento.  Come dire: un po’ di ossigeno (e di neve artificiale) per tirare a campare.

I soldi e i problemi

Ha ragione Bussone, che conosce bene la realtà della montagna: quei soldi sono importanti, ma non risolveranno i veri problemi, quelli legati ad una montagna da vivere prima che da sfruttare. E non si può dimenticare come sia finito tra le macerie della legislatura (e ripreso solo in parte nella legge di bilancio) quel disegno di legge nazionale sulla montagna presentato con rullo di tamburi nel marzo dello scorso anno.

Così come non si può dimenticare che esistono esempi molto positivi nella valorizzazione a 360 gradi della montagna: basta guardare all’Alto Adige dove una sana politica di incentivi all’iniziativa privata (sia sul fronte alberghiero che su quello delle attività agricole) ha fatto la differenza.

La soluzione elvetica

Così come positiva è l’esperienza della Svizzera dove, in un paese di grande e indiscusso federalismo, è dagli anni 70 del secolo scorso in vigore una legge federale cioè nazionale, badate bene, sull’aiuto agli investimenti nelle regioni montane, una legge regolarmente rinnovata e rifinanziata.  Nessun finanziamento a pioggia (o a neve), ma supporto a interventi tecnicamente documentati. E alle misure di questa legge di base i singoli Cantoni possono ovviamente aggiungere, come hanno fatto, iniziative particolari, ma sempre nell’ottica di offrire incentivi alle iniziative e ai capitali privati. Con una sicura e garantita moltiplicazione degli effetti della spesa pubblica.

L'alleanza necessaria

Il patto che serve non è quindi quello del tavolo istituzionale al Ministero del Turismo per spartire tra Regioni, Comuni, Comunità montane e magari i sindacati, il magro bottino della legge di bilancio, ma è un patto tra pubblico e privato, tra visione (e incentivi pubblici) e i capitali che il mercato può mobilitare. E in Italia non mancano i capitali così come non manca l’imprenditorialità.