Caro Direttore,

Ho letto il Primo piano di Gianfranco Fabi del 10 novembre, «Meloni e il governo del parlar d’altro tra contanti, rave e naufraghi». Lo condivido pienamente e mi ha suggerito ulteriori riflessioni su un metodo di governo sempre più diffuso e decisamente pericoloso. «Qui ci vuole una legge!» è la parola d’ordine che, al passaggio tra un governo e l’altro, segna la discontinuità con il predecessore e invia un messaggio alle nuove maggioranze parlamentari e agli elettori: ora si volta pagina. Oggi più di ieri, ma non è una novità.

Ogni governo si sente più legislatore che amministratore

L’esercizio del potere esecutivo, che pure dovrebbe rappresentare l’obiettivo e la mission essenziale dei governi, diventa una specie di sottoprodotto, rimesso alla struttura burocratica, alla dirigenza, la quale a sua volta è sempre meno stabile nella continuità dell’azione, per via delle nomine fiduciarie negli “uffici di diretta collaborazione” e della rotazione degli incarichi di vertice.

Molto spoil system poca execution

L'espressione che ha la stessa radice di esecutivo e definisce un percorso rigoroso e impegnativo per adeguare gli strumenti agli obiettivi, per implementare le riforme e dotarle delle risorse necessarie per il successo. Risorse (umane e tecnologiche) non sempre necessariamente aggiuntive, ma da combinare nel modo più efficiente. Anche per evitare dimenticanze e scivoloni a causa della (mancata) disciplina della fase transitoria di qualsiasi riforma.

I ministri e i loro consiglieri s'illudono di poter pensare solo alle grandi strategie, confidando che la Pubblica amministrazione seguirà ed eseguirà. Niente affatto, e soprattutto per questo le riforme restano sulla carta, a cominciare da quelle della pubblica amministrazione. Ci sono due modi per intraprendere questi percorsi illusori: intervenire subito con leggi-manifesto; o mettere mano a grandi riforme che arrivano in prossimità del capolinea ma vengono bruciate sul traguardo dalla fine del governo o della legislatura.

La riforma Madia, anziché intervenire subito e chirurgicamente sulla riforma precedente - per esempio sui casi di licenziamento dei pubblici dipendenti, uno degli obiettivi perseguiti - impegnò gli oltre quattro anni dei governi Renzi e Gentiloni per ottenere un’ampia delega riformatrice, attuarla in parte (sulla carta) con i decreti delegati, salvo vederla largamente vanificata e inattuata nell’applicazione reale. E si potrebbe continuare con la riforma penitenziaria del guardasigilli Orlando, la “buona scuola” del governo Renzi e innumerevoli altri tentativi fino alle riforme Cartabia, oggi certamente a rischio.

Nessuno si prende responsabilità

«Qui ci vuole una legge!» è anche un’esclamazione scaccia-responsabilità, con la quale gli apparati si tutelano. Se per impedire un rave party - non tanto il raduno in sé, quanto le illegalità che spesso si commettono durante il suo svolgimento - occorre una specifica e urgente norma sanzionatoria, significa che forze di polizia e prefetture nulla avrebbero potuto fare fino a oggi e nessuna autorità potrà mai essere chiamata a rispondere di omissioni e mancati interventi.

Naturalmente non è affatto vero, ci sono decine di azioni che si potrebbero fare anche in chiave di prevenzione, nei punti di accesso al raduno e poi al suo termine, per impedire che persone in stato di alterazione possano provocare gravi incidenti stradali. Ma il personale è sempre scarso, i rischi di disordine suggeriscono cautela, in fondo i governi tecnici e politici in genere preferiscono evitare clamori per interventi di ordine pubblico e di ripristino della legalità.

Riforme e dintorni

Lo stesso vale per qualsiasi altra materia, nei ministeri e in ogni pubblica amministrazione: la modifica (ancorché inutile) di una norma serve soprattutto ad evitare di poter essere chiamati a rispondere, per esempio, dalla Corte dei conti per il danno erariale derivato dall’omessa attuazione. Infine, quando si modificano le norme ordinamentali e processuali, le valutazioni degli effetti dovrebbero essere sempre rigorose.

La riforma del processo penale e le misure per la sua accelerazione (cioè per ridurne la durata) anche attraverso l’informatizzazione, ora rinviata di due mesi per aver trascurato l’impatto iniziale sugli uffici e non aver disciplinato la fase transitoria, rischia di trasformarsi in un boomerang proprio sull’obiettivo della durata: sfoltire le pendenze dei procedimenti “minori” favorendo la giustizia riparativa e altri istituti, migliora la qualità complessiva della giustizia penale ma non certo le rilevazioni monitorate anche dall’Unione europea: la durata media aumenterà, perché nel paniere resteranno i processi più complessi, che già ora durano di più; oppure si risolverà in una presa in giro, se le migliaia di procedimenti per denuncia di furto, subito estinti in assenza di querela, fossero inclusi nelle statistiche sulla durata media.

Comprese le relazioni di accompagnamento, lo schema di decreto legislativo inviato in agosto al parere del Parlamento, poi adottato (decreto legislativo 150/2022) e ora rinviato di due mesi, è composto di 916 pagine (sic!), ben 140 delle quali contengono l’Air, l’Analisi di impatto della regolamentazione. Non una sola parola è dedicata all’impatto iniziale sugli uffici, che ha determinato l’allarme di tutti i procuratori generali, e non una sola riflessione riguarda un profilo non secondario di politica criminale.

Tra sicurezza e statistiche

I furti non sono quasi mai un fatto occasionale commesso da un singolo autore: rinunciare a perseguirli d’ufficio e trattarli in modo burocratico e bagatellare, al solo fine di consentire alla vittima di ottenere un risarcimento assicurativo, disperde una gigantesca mole di informazioni che, opportunamente elaborate, costituirebbero un big data in grado di intercettare attività criminose forse minori, ma molto più organizzate di quanto si creda. Allora sì, la sicurezza aumenterebbe e anche le statistiche sarebbero più affidabili.