“Da McDonald’s si lavora sodo. Bisogna fare entrata merci, servire in cassa e friggere patatine. Ci sono turni anche di notte e nei weekend. Da McDonald’s pagano puntualmente tutti i mesi. Il 90% dei dipendenti è a tempo indeterminato. Si può diventare direttore di ristorante già a 27 anni. Noi di McDonald’s nell’Italia ci crediamo, per questo diamo lavoro a oltre 16.000 persone e ne assumeremo oltre 3.000 nei prossimi 3 anni”.
Così recita il nuovo spot pubblicitario di McDonald’s, nota multinazionale della ristorazione commerciale e veloce: appena 32 secondi di slogan, direttamente firmati dalla regia di Gabriele Salvatores. Uno spot televisivo da Oscar, si direbbe, ed è subito polemica. Se, da un lato, la nota catena fast food promette il tanto agognato posto di lavoro, dall’altro la Cgil, costernata dall’utopia offerta dall’azienda, contrattacca e accusa la multinazionale di vendere fumo, tacciando la nuova pubblicità come ingannevole, invitando l’azienda, piuttosto, a intrattenere relazioni sindacali stabili: McDonald’s sarebbe, secondo Cgil, una delle rare multinazionali a essersi sottratta, con sistematicità, al confronto per la condivisione di un contratto integrativo aziendale. Sempre secondo Cgil, in McDonald’s l’80% dei lavoratori avrebbe un contratto part-time di poche ore la settimana, con l’obbligo di lavorare in orari notturni, nei weekend e durante le festività, dunque senza garanzie sociali e con orari di lavoro impossibili. Replica alle accuse lo stesso Masi, amministratore delegato di McDonald’s Italia, sostenendo l’assurdità della polemica di un sindacato incapace, a suo avviso, di rappresentare concretamente lavoratori e giovani: il motivo per il quale il 70% dei dipendenti della multinazionale lavora part-time, sempre secondo Masi, è dato dal rifiuto della Cgil verso qualunque tipo di contratto spalmato su più ore, così che, per ottenere flessibilità organizzativa, l’azienda sarebbe costretta a ricorrere a forme contrattuali a tempo parziale.
Sulla questione è intervenuto anche il Ministro Fornero che vede di buon occhio l’iniziativa della multinazionale, dichiarando che, in una situazione critica come quella odierna, anche un lavoro a tempo determinato rappresenta comunque una soluzione migliore dell’assenza di lavoro. In effetti, il recente spot televisivo costituisce l’ultimo tassello di un piano di investimento da 500 milioni di euro da qui a tre anni, con l’apertura di 120 nuovi ristoranti e l’assunzione di oltre 3 mila persone, di cui circa la metà nel Centro-Sud. In media, ognuno dei 450 ristoranti che già operano in Italia fattura circa 2,2 milioni di euro e dà lavoro a 35 persone. Di queste, chi lavora al banco o in cucina guadagna 850 euro netti al mese; i manager guadagnano intorno ai 1.400 euro; mentre il direttore sfiora i 2.000 euro mensili. L’età media dei dipendenti è di 29 anni, nel 61 per cento dei casi donne e nel 30 per cento studenti. A chi sostiene che nella catena di fast food il lavoro è usa-e-getta, la società fa notare che il 94 per cento dei dipendenti ha contratti a tempo indeterminato.
Il termine McJob,, nel linguaggio odierno, viene utilizzato per descrivere un lavoro pagato poco e senza futuro e, in generale, per descrivere un tipo di occupazione comunemente associata all’industria dei servizi, sottopagata, per svolgere la quale non sono necessarie particolari competenze e in cui il turnover dei dipendenti è piuttosto elevato. McDonald’s stessa sa di rappresentare per molti il classico “primo lavoretto”, piccola porta di ingresso al mondo del lavoro: in media un dipendente resta nella McDonald’s non più di 4 anni. Ora, però, è possibile che con la crisi il profilo dei 3.000 assunti nei prossimi tre anni vada mutando: aumenta infatti il numero di ex lavoratori, alcuni con oltre 35 anni di età, che bussano alla porta della multinazionale per avere un posto (per ogni apertura di un nuovo ristorante arrivano 6-700 curriculum), così come il turnover tende a diminuire. Se è vero che il lavoro offerto da McDonald’s, seppur promosso in televisione come manna caduta dal cielo, tale in effetti non è, è altrettanto vero che le accuse rivolte dal sindacato, in assenza di una propria strategia di risanamento della situazione precaria che coinvolge giovani e non più giovani nel nostro paese, pare quantomeno una polemica priva di risvolto pragmatico. Insomma, una critica fine a se stessa che non si pone invece nell’ottica di prendere seriamente in considerazione il contrattacco rivolto dalla multinazionale, che vede una Cgil accusata di non occuparsi di quelle aziende che oggi non sono in grado di offrire contratti né a tempo indeterminato né a tempo determinato e, in generale, più che assumere tendono a licenziare. Come dare torto a un’azienda che, nella sola Milano, occupa circa 1500 dipendenti? Un primo punto sul quale riflettere allora è: quali sono i meccanismi che generano una tale elevata precarietà nel nostro paese? E secondo, che cosa si potrebbe fare, in concreto, per ridurla?
1. Se, da un lato, si tende a sostenere che le imprese usino smodatamente contratti di breve durata perché costano meno, incentivate a farlo anche dalle leggi e dai decreti sul mercato del lavoro emanati dal 1997 al 2003 e oltre, tuttavia questa è solo una faccia della medaglia: ricorrendo a queste tipologie di contratto, le imprese riescono ad adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano a operare. In generale le imprese, tutte le imprese, con maggiore o minore portata a seconda dei settori, hanno contribuito nel corso degli anni a costruire quella catena della quale sono divenute schiave. Così ogni impresa è diventata un anello che dipende da tutti gli altri in un modo di produrre che comporta che la regolare attività di ogni azienda dipenda da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, così come dalla disponibilità delle altre a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro.
In quest’ottica, assumere di meno e appaltare ad altri il più possibile è diventato l’imperativo dominante, il tutto in una situazione in cui è impossibile sottrarsi a valutazioni di ordine finanziario, con il risultato perverso di una compressione dei salari e intensificazione dei ritmi. Come mette in luce Gallino, la legislatura degli ultimi 15 anni ha poi acuito ulteriormente la drammatica situazione: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l’insicurezza che le assilla ai lavoratori, tanto che, se i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un’impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno (Luciano Gallino, Altreconomia, Ottobre 2012).
Le riforme del lavoro progettate dalla fine degli anni ’90 in poi hanno aumentato il lavoro precario. In particolare, se si guarda la curva del lavoro precario, dal 2003, anno della stesura del decreto attuativo della legge 30, c’è una fortissima impennata. La precarietà, peraltro, contribuisce alla crescita del coefficiente di disoccupazione, perché tra un contratto e l’altro passa sovente qualche mese. Negli anni ’90 era l’Ocse stessa a insistere molto sulla flessibilità, ma già dal 2004 ha cominciato a ricredersi. L’evidenza ci dice che dal 2000 in poi l’indice Ocse della rigidità del lavoro in Italia è diminuito moltissimo, passando dal 3,50 del 2003 a meno di 1,8 oggi, in una scala da 0 a 5, dove il massimo significa quasi impossibilità di licenziare. Quindi flessibilità non vuol dire più lavoro. Anzi: più flessibilità sembra significare piuttosto più precarietà e meno lavoro, e certamente meno certezze.
2. Creare lavoro si può? Lo scontro consumatosi con Cgil contribuisce ad acuire la polemica sorta intorno al facile slogan utilizzato dalla multinazionale, ma Cgil stessa polemizza senza offrire alternative. Eppure, forse, qualche strada praticabile ci potrebbe essere. La drammatica situazione del lavoro precario non riguarda solo l’Italia, ma logora, in misura maggiore o minore, tutti i paesi europei. Tuttavia altrove alcune strategie sono state messe anticipatamente in campo per contrastare il fenomeno. Una delle strategie praticate è quella dell’investimento in ricerca e sviluppo. Se andiamo a osservare il tasso di investimento in ricerca e sviluppo nei 27 paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil. Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. Anche l’Inghilterra, pur avendo un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe molto di più in ricerca. Inoltre sono particolarmente carenti gli investimenti in capitale fisso, tanto che gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni, laddove in Europa la media è la metà. Per generare lavoro, dunque, occorrerebbe, in prima battuta, pensare a produrre valore in settori differenti, soprattutto in un paese, come il nostro, con un territorio da riqualificare, il 50% delle scuole non a norma, l’annosa questione del risparmio energetico. E questa è solo una parte dell’ampia platea di settori che richiederebbero lavori altamente tecnici, l’impiego di tecnologie avanzate e al tempo stesso avrebbero utilità collettiva ampia e diffusa. Tutto questo potrebbe essere tradotto in grandi investimenti in ricerca e sviluppo e decine di migliaia di posti di lavoro, di alto, medio e basso profilo. Insomma, lavoro per tutti.
3. Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro, sostiene Gallino, dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale (Luciano Gallino, La Repubblica, 25 marzo 2012), ma per raggiungere questo obiettivo è necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti a scadenza fissa e breve.
Qui si è cercato non certo di esaurire le motivazioni principali, ma di metterne in luce alcune indubbiamente cruciali. Se è vero che la pubblicità pervade ogni momento della nostra vita, attinge e contribuisce a creare i riti e i miti del nostro tempo, pescando a piene mani dall’inesauribile serbatoio degli avvenimenti d’attualità, allora, al di là della facile demagogia che si può fare circa il suo contenuto reale, il controverso spot lanciato da McDonald’s rappresenta uno spaccato del mercato del lavoro odierno. In questo senso parrebbe proficuo trasformare la polemica sorta in dialogo pragmatico su quello stesso mondo del lavoro lacerato. Se nel documento programmatico redatto nel 2010 da Cgil leggiamo che questa “ritiene che una politica industriale per la piena, buona e sicura occupazione non può affidarsi alla pura logica del mercato, ma richiede interventi e indirizzi pubblici che assumano l’obiettivo occupazionale nelle scelte, insieme a quello della riqualificazione dell’apparato produttivo e tecnico, lo sviluppo dei settori strategici a più alto contenuto di conoscenza e tecnologia e delle reti materiali e immateriali” così che “il punto da cui si è obbligati a ripartire è sempre il recupero del valore del lavoro come fondamento della persona umana e dell’economia, creando le condizioni per liberare le potenzialità di sfruttamento delle nuove tecnologie, migliorando così la qualità del lavoro e della vita”, allora compito della Confederazione Generale Italiana del Lavoro potrebbe essere quello di spingere le istituzioni a lavorare, come da documento programmatico, verso tali obiettivi, che sono peraltro in linea con gli investimenti, attuati dagli altri paesi, in ricerca e sviluppo, nell’ottica di una riqualificazione del lavoro in generale. In tal senso la diatriba sorta sul contenuto dello spot McDonald’s potrebbe, più proficuamente, trasformarsi da sterile polemica in un’opportunità di dialogo: riflettere una volta di più sulle condizioni che generano meccanismi perversi di lavoro e su come tentare di arginare tali dinamiche.
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