Coincidenze. Cento anni fa si concludeva a Roma la complessa e affascinante vicenda dell’amministrazione Nathan, sindaco dal 1907 al 1913 a capo di una coalizione tra liberali, radicali, repubblicani e socialisti. Nel 2013 Roma vota per eleggere il nuovo sindaco, o per riconfermare la giunta uscente di Gianni Alemanno. Ma le urgenze fondamentali della capitale – trasporti, pianificazione urbana, speculazione, ordine e pulizia – non sono cambiate. E la distanza di un secolo si nota ma non troppo, a tutto detrimento del tempo in cui stiamo vivendo.
1. Roma, come ricorda Vittorio Vidotto nel suo monumentale Roma Capitale (2001), è una città da decenni male amministrata, quando addirittura non amministrata. Il problema prima che politico è antropologico: arrivandoci si ha la sensazione che sia una città peninsulare, meridionale, prima che europea e continentale. Questo diventa particolarmente evidente se si considera la sua inadeguatezza in quanto capitale di una nazione di sessanta milioni di abitanti. La guida politica, lungi dal rappresentare appunto una guida, si è morbidamente accomodata sul proprio elettorato, attenta a non scontentare nessuno, tesa al mantenimento del consenso – si trattasse dell’Atac o delle feste del cinema – a scapito del governo e del cambiamento. Gli standard dei servizi pubblici romani – in primis la mobilità, dalla metro agli autobus sovraffollati, ma anche la pulizia delle strade, il verde pubblico, i taxi – non sarebbero accettati non dico a Dusseldorf o a Edimburgo, ma nemmeno a Torino, Bologna, Milano. Sotto l’allegra e ipocrita etichetta di “multietnico”, un quartiere come l’Esquilino vive tutto il caos e la trasandatezza che vengono dalla mancanza di pianificazione e gestione dei nuovi arrivati. Ce ne si rende conto non appena, scesi a Termini, si percorre all’indietro via Giolitti o via Turati, dove dai balconi dei caseggiati in cui abitarono le prime efficienti burocrazie del Regno si affacciano centinaia di persone, in maggioranza extracomunitari, che letteralmente aspettano che il giorno finisca, senza un lavoro. Ma anche in quartieri di diversa composizione residenziale i problemi – dalle scritte sui muri, ai servizi carenti, al selciato distrutto (lo stesso che faceva impazzire Giacomo Leopardi) – negli anni si sono aggravati.
Proprio queste sommarie considerazioni inducono a ripensare con singolare interesse all’esperienza di Ernesto Nathan. Uno dei sindaci meno ricordati e celebrati d’Italia, probabilmente. Tutti o quasi sappiamo qualcosa di La Pira a Firenze, Aniasi a Milano, Lauro a Napoli, ma prima che la città di Roma si ricordasse di re-intitolare una scuola al sindaco che la amministrò per sei anni si è dovuto attendere il 1995 (lo fece Francesco Rutelli).
Nathan fu un sindaco di rottura. Rottura politica: l’alleanza che lo elesse, il blocco popolare, metteva insieme in maniera inedita le forze del liberalismo risorgimentale con i nuovi fermenti socialisti, rappresentati in giunta dall’economista lombardo Giovanni Montemartini, assessore ai servizi tecnologici. Rottura sociale: fu, la sua, un’”isola” di estrazione borghese, mazziniana, in mezzo a un mare (dal 1870 al 1946) di sindaci nobili, dell’aristocrazia papalina, cioè dei vari Pallavicini, Colonna, Torlonia, Caetani, Doria Pamphili, eccetera. Tutti, vale la pena sottolinearlo, grandi proprietari terrieri. Rottura amministrativa: un governo degli inquilini, non dei latifondisti o degli imprenditori dell’immobile, fino ad allora raccolti sotto le insegne dell’Unione romana. Rottura, infine, antropologica: un ebreo massone, cosmopolita, inglese “di nascita di modi e di accento”, che governava la capitale mentre a Palazzo Chigi sedeva un anglicano anch’egli di origini ebraiche, Sidney Sonnino.
2. Fu proprio l’intesa con il governo nazionale a consentire l’esperienza di Nathan, posto che l’amministrazione capitolina è da sempre condizionata a tale complesso equilibrio. Sull’asse che corre tra Palazzo Chigi e il Campidoglio si sono retti tutti i maggiori esperimenti amministrativi romani di questi decenni, dai sindaci democristiani degli anni Cinquanta Rebecchini, Tupini, Cioccetti, al centrosinistra con Petrucci, alle giunte “rosse” di Argan, Petroselli e Vetere, a Franco Carraro amico di Craxi, ad Alemanno con Berlusconi. Idem per Nathan, figlio di un singolare segmento storico nel quale i liberali, consapevoli della concorrenza proveniente dal movimento socialista in forte crescita, si volsero a sinistra. Così nel 1907 il sostegno governativo all’amministrazione “guelfa”, espressione della grande proprietà cattolica che aveva governato senza interruzioni Roma fin dall’annessione, venne meno.
Quello che preme sottolineare in questa sede è come per Nathan liberalismo e beni pubblici – chiamiamoli pure beni comuni se vogliamo inseguire una definizione di moda – non fossero in antitesi, bensì ingredienti della stessa ricetta. La chiave si chiamò municipalizzazioni: per spezzare il monopolio privato, nella mobilità come nell’energia, che condizionava al rialzo le tariffe e costringeva l’utenza a un servizio scadente, bisognava affiancare alle società allora operanti (Società romana tramways e omnibus, Srto, e Società anglo romana, Sar) la mano dell’Ente pubblico. Era il nucleo originario di quella che sarebbe diventata l’Acea, l’azienda comunale tuttora operante, fondata nel 1909. Utili indicazioni per chi volesse, oggi, avvicinarsi al tema dei taxi, dove ancora – come nota Aldo Cazzullo – il servizio resta in mano ai (troppo pochi) detentori di licenze, pur di non scontentarli in vista delle elezioni.
L’altro capitolo sul quale si esplicava la spinta più o meno riformatrice di un’amministrazione era, ora come allora, l’edilizia. Affarismi e speculazione avevano messo in crisi l’Unione romana e avevano promosso l’ascesa del nuovo sindaco. Fu infatti Giovanni Antonio Vanni, presidente dell’Istituto romano per le case popolari – un valdese! – a farsi promotore del blocco di Nathan. Il risultato fu un piano regolatore, quello di Edmondo Sanjust di Teulada, che tentava (senza riuscirvi, peraltro) di frenare l’”aggiotaggio edilizio”, come lo chiamava Nathan, pensando per la prima volta a una pianificazione urbana dettagliata, che mettesse insieme verde pubblico, villini a bassa intensità abitativa, città-giardino, mentre concepiva con formidabile anticipazione un viale di circonvallazione che correva come una striscia sinuosa di asfalto intorno alla città, antesignano del Raccordo anulare.
Non è un caso che di piani regolatori nel dopoguerra ne siano stati annunciati a decine, in momenti ricorrenti, ma che l’unico realizzato prima del 2008, quello del 1962, abbia mancato molti obiettivi, mentre le cronache ci ricordano dei quartieri sorti a fungo intorno alla città, da Ponte di Nona alla Bufalotta, mal collegati e mal serviti, tutti su terreni di proprietà di grandi costruttori. I temi sono sempre quelli, che si tratti del 1913 o del 2013. L’imprenditore edile che ha riso al telefono della tragedia dell’Aquila, appaltatore dei lavori per gli impianti per i mondiali di nuoto, è stato recentemente riconosciuto e aggredito a Roma. Giustizia sommaria.
3. Si è ricordato come furono cause esogene, i venti che soffiavano dal governo nazionale, a portare Nathan al governo della città. Allo stesso modo, la sua parentesi amministrativa – una parentesi, ma di quale importanza – si chiuse per ragioni che valicavano i confini di Roma. All’orizzonte c’era il Patto Gentiloni, il tentativo riuscito di raccordare cattolicesimo e liberalismo per impedire l’ascesa socialista. E così anche a Roma tornarono i moderati. Ugualmente precaria appare, oggi, la giunta guidata da Alemanno, i cui garanti politici si trovano più che mai in crisi, o in altre faccende affaccendati: Berlusconi non è più Presidente del consiglio, il centrodestra che conoscevamo ha smesso di esistere e attende un’improbabile palingenesi, il Vaticano ha la testa – almeno apparentemente – altrove. La nouvelle vague di Ignazio Marino è tutta da vedere, e da giudicare sulla base di quello che eventualmente produrrà. Ma l’impressione è che a salvare l’attuale amministrazione potrebbe non bastare l’intervento di qualche pur bravo spin-doctor.
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