A seguito dell’approvazione del regolamento ministeriale relativo ai dottorati di ricerca (D.M. 8 febbraio 2013 n. 94 pubblicato in G.U. il 6 maggio 2013 n. 104), la Segreteria Nazionale dell’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca italiani (ADI) ha pubblicato un documento alquanto critico sull’impianto della normativa, adottata, com’è noto, in attuazione della legge di riforma del sistema universitario n. 240/2010.
Secondo l’ADI, il decreto ha il difetto di non chiarire il nodo fondamentale circa lo status del dottorando, a metà tra il ricercatore (e quindi lavoratore) e lo studente. La scarsa chiarezza sul suo status si rifletterebbe nella scarsezza di borse di studio, il cui importo sarebbe tra i più bassi in Europa, o nella prassi diffusa (ed ora amplificata dalla riforma) del dottorato senza borsa. Per l’ADI, tutto ciò sarebbe superabile soltanto riconoscendo al dottorando lo status di ricercatore in formazione. Ai dottorandi con borsa sarebbe quindi corrisposta una borsa più generosa rispetto ai vigenti mille euro, mentre i dottorandi senza borsa diventerebbero l’eccezione e non la regola.
Ora, capisco che i sindacati debbano svolgere una difesa tetragona degli interessi dei propri iscritti, ma, come dottorando NON iscritto all’ADI, non posso che rilevare la superficialità dell’intera analisi. Le rivendicazioni sindacali sono giuste, se si parte da premesse corrette. Non sembra essere questo il caso.
Nel mio campo, quello della ricerca giuridica, il fatto che il dottorando sia una figura a metà tra il professionista e lo studente ha delle ragioni profonde che, per quanto mi è dato di osservare, sono anche piuttosto convincenti, ancorché scoraggianti. A differenza di altri paesi europei (Germania in primis), il laureato medio in giurisprudenza non possiede neanche lontanamente le capacità di base per poter essere definito professionista. Nel corso dei cinque anni della formazione universitaria, non ha infatti né imparato a scrivere un articolo scientifico in forma argomentata, né gli è stato insegnato a presentare un paper in pubblico. Nel migliore dei casi, avrà qualche minima competenza settoriale e saprà orientarsi in un testo legislativo. Nel peggiore dei casi, vomiterà a memoria paragrafi del codice civile. Senza contare che, una volta diventato dottorando, non sarà comunque soggetto ad alcun obbligo reale di produzione scientifica. Ammesso e non concesso che non sia incoraggiato in tal senso dal proprio tutor. Come gli amici dell’ADI ben sanno, l’esclusività dell’impegno e il tempo pieno sono formule retoriche vuote, che nessuno in università fa davvero rispettare. L’impegno medio del dottorando italiano è di recarsi una volta ogni due settimane circa ad una lezione di dottorato. Se va bene, anche di interrogare agli esami per qualche appello. Se proprio è fortunato, a preparare un articolo scientifico per ogni anno accademico. A ciò si aggiunge la prassi, non proprio commendevole, di reclutare come dottorandi funzionari della P.A. che, pur non avendo intenzione di proseguire nell’attività di ricerca, in questo modo possono mettersi in aspettativa e continuare a percepire il proprio stipendio. Alla luce di ciò, permettetimi di dire che l’importo della borsa di studio per i dottorandi è persino fin troppo generoso.
Per quanto riguarda i dottorati senza borsa, la prassi vigente è conseguenza della stortura dell’intero sistema. I corsi e le scuole di dottorato sono esplosi negli anni senza tener conto della reale utilità economica di formare nuovi giuristi per l’accademia. Siamo sicuri che un numero così elevato di corsi e scuole di dottorato rispondesse ad un’esigenza reale ed economicamente sostenibile? O ciascuno ha preferito costruirsi la sua scuola di dottorato facendo proliferare i posti in tutta Italia, senza tener conto dell’impatto che ciò avrebbe avuto sulle nuove generazioni? A questo punto, sarebbe più logico che si procedesse sulla via dell’accorpamento, come indicato dal D.M., riducendo i posti disponibili e lasciando i rimanenti con borsa. Pur rappresentando un passo avanti, sarebbe ancora una volta una scelta miope e dirigista. Ciascuna università dovrebbe, in realtà, essere libera di imporre le tasse universitarie che vuole, aprirsi del tutto a finanziamenti privati e basarsi, se non per una minima parte, su trasferimenti ministeriali che incentivano l’azzardo morale. Ogni università dovrebbe essere insomma autonoma economicamente. A tale autonomia economica, andrebbe associato anche un diritto di licenziare il personale (professori, ricercatori ecc.), qualora questi non abbiano raggiunto gli obiettivi didattici o di ricerca fissati in partenza. I dottorandi potrebbero allora essere assunti presso ciascuna cattedra direttamente da un ordinario, che, dovendo finalmente rispondere delle sue scelte, sarà orientato a scegliere i più meritevoli, pena una decurtazione di stipendio, il licenziamento o l’insolvenza dell’ateneo. A quel punto, non esisterebbe più alcun boom artificioso di dottorati senza borsa.
Molto curiose sono poi anche le considerazioni dell’ADI secondo le quali sarebbe eccessivo il limite, peraltro massimo (sic), di quaranta ore per le attività di assistenza alla didattica. Idem come sopra. Sfido chiunque a dimostrarmi che i dottorandi italiani lavorino in media con questa intensità. Quanto alla necessità che vi siano contratti autonomi, vale quanto detto qui sopra: non ha senso creare un ulteriore contratto se serve il medesimo obiettivo, ossia la formazione.
A metà tra il serio e il faceto sono, poi, le proposte per chiedere una sorta di “aiuto del pubblico”, nel caso in cui la tesi di dottorato sia stata respinta dalla commissione. Ora, posto che anche in questo caso, mi debbono essere portati all’attenzione i singoli casi in cui ciò è davvero capitato, trovo a dir poco stucchevole che, ai dottorandi che hanno fallito, sia concessa un’ulteriore chance. A maggior ragione dopo tre anni in cui si suppone che il dottorando abbia avuto un regolare scambio di opinioni con il proprio tutor. Se non si condividono le motivazioni della commissione, non resta che impugnarla.
Retaggio dei tempi della “scala mobile” è, infine, la richiesta di indicizzare all’inflazione l’importo della borsa. Qui, come altrove, dovrebbe valere il criterio della produttività. Ma tutti sappiamo che la qualità e la frequenza delle pubblicazioni non verrebbero mai prese a parametro per concedere un aumento ad un dottorando. Ci sarebbe il grave rischio di creare invidia nel povero collega che non ha pubblicato nulla. Meglio dunque crogiolarsi in un sano egualitarismo di facciata.
L’unica questione che l’ADI non è affronta, e che pure sembra avere una certa rilevanza, soprattutto sulla base delle argomentazioni addotte, è il divieto di lavoro imposto dal regolamento a tutti i dottorandi. Posto che, come si è detto, non esistono obblighi davvero vincolanti a che i dottorandi si dedichino esclusivamente alla ricerca e non ad altro, e posto che, senza una riforma universitaria complessiva come quella delineata, questo obbligo non è nemmeno sensato, perché di per sé non aumenterebbe di un picco il livello della formazione, forse sarebbe più saggio eliminare del tutto i vincoli al lavoro, anche quelli monetari attualmente esistenti in alcuni atenei. A maggior ragione se si ritiene che i dottorandi italiani dispongano di borse dall’importo troppo esiguo.
*Dottorando di ricerca in diritto pubblico presso l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
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