1. In un paese come il nostro, giudicato «ad alto livello di corruzione» nelle valutazioni internazionali, la tentazione di attribuire ai giudici e alla polizia giudiziaria il ruolo del giustiziere è forte. È facile intuire come l’anelito di giustizia sia cosa nobile e desiderabile; nondimeno il sistema di garanzie di una democrazia liberale, per quanto possa apparire costruito da una serie di aride edificazioni procedurali, tende proprio a proteggerci dai possibili eccessi che risulterebbero da un sentimento di presunta giustizia, qualora scavalcasse quanto previsto dal diritto.

 

Tuttavia, assai spesso, accade che sia proprio la terzietà del sistema giudiziario ad essere messa a dura prova da chi intende farne un uso antipolitico, o meglio, iperpolitico, per citare una più esatta definizione del fenomeno, data dal filosofo Umberto Curi.  Secondo il professore padovano, chi anela a sbarazzarsi della stessa categoria del politico, aspirerebbe ad un’etica pubblica che agisse da «supereroe» e rendesse la nostra realtà, storica e istituzionale, un mondo perfetto: appunto una iperpolitica. Tutto questo non avrebbe di sicuro stupito un giurista atipico come Carl Schmitt, secondo il quale, il concetto di «politico» manifesta se stesso qualora si sia in presenza di una contrapposizione: l’antipolitica è dunque soltanto un’altra politica, alla quale è stata appioppata una definizione impropria.

Sfortunatamente però, i media ce lo dimostrano ogni giorno, l’iperpolitica è oggi quella dei giustizieri e dei «tutti quanti noi», dei giullari e degli incompetenti. Il giornalista, l’intellettuale, il blogger, colui che posta un video arrabbiato su YouTube o un insulto su Twitter e, disgraziatamente, ogni tanto anche il giudice, scordano che la politica, come affermava Platone, è un phármakon, il quale risana ma ha effetti collaterali: ogni azione politica ne ha. Di conseguenza, essi ambiscono, utopicamente, ad una situazione dove il nefasto fatto quotidiano sia immediatamente esposto nella sua nuda oggettività e possa trovare «naturalmente» la sua sanzione. Ciò che non percepiscono (o fanno finta di non percepire) è l’occorrenza che rende la sanzione un elemento niente affatto naturale e deterministico: essa è infatti un’elaborazione dei calcoli del diritto, il frutto di una tecnica, la quale deve ricostruire i fatti a modo suo, al di là della loro storicità. È quindi ben difficile che il diritto possa divenire uno strumento per togliere di mezzo certe prassi interne alla politica come professione, a meno che non rinunci alla sua propria tecnica per adottarne altre, meno in linea con le costruzioni delle democrazie contemporanee. Ma in questo modo si darebbe ragione a quanti, oggi, lamentano una magistratura parziale e ideologizzata.

2. Quanto fin qui esposto è il risultato di una gestione a dir poco imbarazzante della materia giudiziaria da parte dei media (vecchi e nuovi), ossia di quel meccanismo che il giurista e avvocato francese Daniel Soulez-Larivière ha battezzato circo mediatico-giudiziario: locuzione che in Italia è diventata, malauguratamente, appannaggio di coloro che hanno fatto dei giudici il loro bersaglio, spesso per «problemi personali». Nel nostro paese (ma diciamo cosa nota), in particolare a seguito degli anni di Tangentopoli e, in modo particolare, a causa della conduzione mediatica di quelle vicende, si è creata una deleteria scissione tra sostenitori e detrattori della magistratura, intesa sia come organi, sia come persone fisiche (arrivando, alcuni dei secondi, a sostenere che i giudici sarebbero persone antropologicamente sbagliate). Questo altresì perché, molti cronisti giudiziari (e forse, volendo malignare, anche alcuni pubblici ministeri), ancora abituati alla procedura istruttoria abrogata del vecchio codice di rito Rocco, non avevano a quei tempi ancora ben chiaro il significato di atti della nuova procedura accusatoria, in vigore solo dal 24 ottobre dell’89. Si ricordi la strumentalizzazione mediale dell’informazione di garanzia, che è appunto di garanzia e non certo una ingiunzione di tipo inquisitorio. Va inoltre sottolineato che rispetto ai paesi di common law, dove i giudici provengono dalla professione forense, o sono a volte a carica elettiva, nel nostro sistema, la figura di un giudice weberianamente «burocrate», che espleta la sua carriera solo all’interno delle istituzioni, ha da sempre riscosso minore fiducia popolare. La conseguenza di questo «circo» è stato il costituirsi di fazioni pro e contro

La cronaca recente ci ha posto per l’ennesima volta, di fronte alle conseguenze surreali di una concezione del sistema giudiziario che risente di «logiche» da tifoseria. Durante il procedimento penale concernete la cosiddetta trattativa tra Stato e Mafia, che dovrebbe essere occorsa nei primi anni Novanta, in occasione della svolta stragista della potente organizzazione criminale ed in un momento difficile della storia contemporanea italiana, la Procura della Repubblica di Palermo ha effettuato una serie di intercettazioni telefoniche sulle utenze dell’ex senatore Nicola Mancino, captando casualmente quattro comunicazioni con il Presidente Napolitano. La vicenda del conflitto di attribuzioni e della conseguente sentenza della Corte Costituzionale (1/2013), depositata lo scorso 15 gennaio, col suo strascico di dibattiti politici, intellettuali, tecnico-giuridici e meramente polemici è nota e non è nostra intenzione di entrarvi, per l’ennesima volta, a gamba tesa. Ciò che desideriamo sottolineare è il fatto che, come rimarcano la stessa sentenza della Consulta e il parere dell’Avvocatura dello Stato, il ricorso del Presidente è avvenuto solo a seguito di dichiarazioni che il sostituto procuratore Antonino Di Matteo ha rilasciato al quotidiano La Repubblica. Se infatti si fosse proceduto senz’altro alla distruzione delle intercettazioni, giudicate dagli stessi inquirenti «irrilevanti» ai fini delle indagini, la quaestio non si sarebbe nemmeno creata.

La materia tecnica affrontata dalla sentenza, riguarda le modalità di distruzione di intercettazioni irrilevanti e, per di più, effettuate (anche se casualmente e indirettamente) rispetto ad un soggetto che, qualora sia nell’esercizio delle sue funzioni, è portatore di determinate prerogative di irresponsabilità, contenute all’art. 90 della Costituzione. Tuttavia il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato trae la sua origine dalla dichiarazione ad un giornale, quindi ad un mezzo di informazione, da parte di un pubblico ministero e concernente i particolari di una indagine. Tale asserzione, anche qualora non violasse specifiche norme processuali, risulterebbe deontologicamente assai discutibile, interessando peraltro il Capo dello Stato. Come afferma la sentenza nelle motivazioni: «se pure si ritenesse che la registrazione casuale dei colloqui non abbia determinato “ex se” una lesione delle prerogative presidenziali, tale lesione sarebbe senz’altro rinvenibile nella loro conservazione tra gli atti del procedimento e, soprattutto, nella pretesa di subordinarne la distruzione alla preventiva valutazione, in un’udienza camerale aperta al contraddittorio tra le parti»; conservazione e «riserve» che sono emersi da un’affermazione affidata ai media.

3. Siamo al punto di partenza: i motivi per cui, a volte, anche gli uomini che rappresentano il sistema giudiziario e che, proprio in ragione di tale appartenenza, dovrebbero mantenere il distacco proprio della terzietà del diritto, si trovano ad agire in maniera tutto sommato opinabile, risiedono nell’umanissimo desiderio di smuovere residenze e palazzi per il trionfo della «giustizia». Giudici che, quindi, sono davvero «come tutti quanti noi», con le nostre ipotesi tutte da dimostrare e vittime di una certa mania di protagonismo, di fronte a quei mezzi di comunicazione, che giacciono alla base del circo rilevato da Larivière. Chi appartiene all’ordinamento giudiziario, non dovrebbe pensare la giustizia nella stessa accezione utopica del «laico», eppure, le recenti ascese in politica di alcuni magistrati paiono indicare proprio questa incrinatura: è la vecchia pecca dell’eretico che vorrebbe poter trascinare il paradiso sulla Terra.

L’esempio del procuratore aggiunto (e giornalista) Antonio Ingroia è eloquente. Magistrato-icona della lotta alla Mafia, coinvolto fortemente nelle polemiche attorno alla trattativa e alle intercettazioni di Napolitano, fonda un partito e si candida a Presidente del Consiglio, rinunciando alla terzietà del suo precedente ruolo, che aveva già, più volte, fatto vacillare. Ingroia ha recentemente pubblicato un libro-intervista dal titolo Io so, che richiama l’anafora pasoliniana affidata al Corriere della Sera nel 1974, a proposito delle cosiddette stragi di Stato. Il poeta e regista affermava di essere a conoscenza dei colpevoli, ma di non avere le prove; di averne compreso le ragioni più oscure, in quanto intellettuale, per il suo impegno. Se è legittimo da parte di un intellettuale rendere dichiarazioni di tale natura, un giudice burocrate il quale ritenga di poter buttare giù le «alte sfere», rischia di apparire un tantino ridicolo, oltre che pericoloso.

Sappiamo tutti che in Italia, c’è un alto livello di corruzione, sappiamo che la politica come professione è spesso un mezzo con cui non proprio i più meritevoli trovano nello Stato un modo per sbarcare il lunario, sappiamo che chi comanda fa la legge, spesso anche ad personam, e lo sappiamo dai tempi di Machiavelli. Come affermava un liberale quale Bruno Leoni, di ciò si potevano stupire gli anglosassoni, ma non ha mai sconcertato gli analisti italiani e nemmeno gli scrittori: si pensi ad esempio a Leonardo Sciascia, o appunto, a Pasolini. Ritenere però che sulla base di questa giustificatissima visione delle cose si possano condurre dei procedimenti penali, che per qualunque atto necessitano di indizi (ripetutamente accompagnati nel nostro codice, dall’aggettivo «gravi») e di prove che devono formarsi di fronte al giudice in dibattimento, è distruttivamente utopico e conduce solo ad illudersi.

Ingroia si è lamentato del carattere politico della sentenza della Corte e in più, del fatto che ciò era scontato, come già aveva affermato il giurista Gustavo Zagrebelsky nell’agosto del 2012. Ha poi aggiunto che, per l’ennesima volta, i giudici avevano ragione di sentirsi «cornuti e mazziati» da una decisione arbitraria. Ciò che spesso emerge dalle polemiche delle fazioni pro- e anti-giudici è l’utilizzo del termine politico, a significare qualcosa di ideologico o, ancora più dispregiativamente, di opportunistico. A questo punto bisognerebbe ristabilire degli equilibri: le sentenze, in particolar modo quelle di un organo come la Corte Costituzionale, sono assai spesso di natura politica; seppure molti giuristi lo neghino, gli studiosi più smaliziati lo hanno sempre affermato senza infingimenti: escludendo di dover sempre ricorrere ai realisti americani, o al solito Carl Schmitt, un comparatista italiano come Mauro Cappelletti lo ha sostento in buona parte della sua produzione accademica, parlando addirittura di «giudici legislatori».

Una decisione politica è, molto sovente, resa con attenzione alla polis, ossia alla collettività: quindi, non equivocabile con una valutazione ideologica o «di comodo». Essa si può configurare come una scelta effettuata nello stesso interesse dell’ordinamento giudiziario e di quel sistema che rende possibile l’applicazione delle norme a garanzia degli individui. Come ha affermato lo studioso Mirjan Damaška, le tipologie di processo (e le interpretazioni giudiziali) possono essere macroscopicamente divise in due categorie: quelle che risolvono controversie e quelle che applicano decisioni avvenute a livello politico. Non dobbiamo distorcere o estremizzare questa affermazione; ogni sanzione comminata dalla legge, è effetto di una discussione parlamentare ed è, nella sua origine, politica. Forse però, chi vorrebbe che i giudici potessero agire come fossero «giustizieri» e risolvere le controversie utopisticamente, al di fuori delle barriere del diritto, non lo ha ancora compreso fino in fondo.