1. Si dice che italiani e greci siano “una faccia, una razza.” Sicuramente i politici di entrambe le Nazioni hanno un modo molto simile di affrontare i problemi, ovvero cercare di nasconderli e rimandarli il più possibile. Entrambi i Paesi hanno poi un amore sconfinato per la finanza creativa.

Se la Grecia ha cercato di nascondere una parte del proprio debito pubblico affidandosi a un currency swap, i comuni italiani si sono orientati invece verso altri contratti derivati: gli interest rate swap (IRC). Un caso emblematico è quello del Comune di Milano.

2. Nel 2005 l’Amministrazione Albertini riesce a ristrutturare il suo debito (al 70% a tasso variabile) emettendo un’obbligazione trentennale di tipo bullet (ovvero da rimborsare interamente a scadenza) al tasso fisso del 4,019% annuo. Si tratta di una buona operazione per le finanze del Comune meneghino: la lunga durata accompagnata da un tasso d’interesse non soggetto alle oscillazioni del mercato, consente all’amministrazione comunale di spalmare il rimborso del prestito su tre decadi e programmarne tranquillamente la restituzione. Quando si emettono obbligazioni di tipo bullet, infatti, è obbligatorio aprire contestualmente un piano di ammortamento in modo da accantonare, anno per anno, la somma da rimborsare a scadenza.

La storia potrebbe tranquillamente finire qui. Invece ci ritroviamo, a sette anni di distanza, con un consorzio di banche alla sbarra e una causa per truffa ai danni del Comune di Milano. Ciò che è successo in mezzo è qualcosa ai confini della realtà e, a prima vista, totalmente incomprensibile.

3. Partiamo dall’accordo originario del luglio 2005, quando il Comune di Milano stipula con le banche il piano di ammortamento e lo accompagna a un IRS. Questo tipo di contratto derivato prevede uno scambio (swap) di tassi di interesse, in questo caso fisso per variabile.

Saranno quindi gli istituti creditizi a sobbarcarsi il tasso fisso del 4,019% mentre Palazzo Marino verserà nelle casse delle banche un tasso variabile (euribor a 12 mesi).  Per cautelarsi contro la volatilità, il Comune sottoscrive anche un altro contratto derivato, questa volta un interest rate swap collar (IRC).

Il collar funziona in questo modo: se il tasso euribor scende al di sotto di un valore minimo, detto floor, allora il Comune integra la differenza tra l’euribor e questo valore. Se invece l’euribor supera un valore massimo, detto cap, sono le banche a versare all’Amministrazione la differenza. Nella sostanza, il tasso d’interesse pagato dal Comune viene delimitato entro un corridoio (collar) con limite inferiore il 3,49% e superiore il 6,19%, fornendo una parziale protezione contro un possibile rialzo dei tassi.

Ci sono però dei problemi.

Innanzitutto non è chiaro perché l’amministrazione Albertini, dopo aver deciso di ristrutturare un debito in gran parte a tasso variabile emettendo un’obbligazione a tasso fisso, cambi idea e lo trasformi nuovamente in variabile.  Non solo a ogni passaggio vengono pagate laute commissioni agli istituti di credito, ma si effettua una vera e propria “scommessa”, che penderà come una spada di Damocle sulla testa dei contribuenti milanesi per 30 anni.

In secondo luogo, nel derivato così strutturato il corridoio di oscillazione penalizza fortemente il Comune, a vantaggio delle banche. I derivati, di solito, sono stipulati in modo da avere un valore atteso nullo per entrambe le parti; nel caso di specie, questo valore atteso, per Palazzo Marino, era negativo.

4. Quanto negativo? Secondo il professor Gianluca Fusai, consulente della procura nel processo in corso contro le quattro banche d’affari, si trattava di circa 50 milioni di euro e se aggiungiamo gli ulteriori “costi occulti” caricati a ogni successiva rinegoziazione (e ce ne sono state molte tra il 2005 e il 2007), si arriva alla cifra di 100 milioni di euro. Il Comune, insomma, non solo ha scommesso i soldi dei suoi contribuenti, ma lo ha fatto con dei dadi truccati.

La domanda è banale: perché?

Il comportamento del Comune di Milano sembra totalmente irrazionale, almeno se analizzato secondo le normali categorie interpretative. La tesi più in voga è che Palazzo Marino sia stato truffato dalle banche, che ricoprivano sia il ruolo di proponenti l’investimento che quello di consulenti del Comune.

5. Ma è tutta la verità?

Se si analizzano nel dettaglio quei contratti derivati, si scopre che sebbene il valore atteso netto a scadenza fosse negativo, tuttavia per i primi anni il Comune si attendeva di ricevere denaro dagli istituti creditizi. Pecunia non olet: non è un caso che quest’operazione sia avvenuta nel 2005, proprio l’anno in cui il patto di stabilità interno adottava cordoni più stringenti per limitare la crescita della spesa dei Comuni.

Non deve stupire, quindi, che l’Amministrazione Albertini, posta di fronte al dilemma se limitare la crescita della spesa corrente (limitare, non tagliare), oppure escogitare qualche stratagemma per aggirare i vincoli del patto di stabilità, abbia optato per questa seconda opzione.

Anche se ciò significava scaricare i costi del “pasto gratis” su chi sarebbe venuto dopo.