Charles Krauthammer, giornalista insignito del premio Pulitzer, è un nome che può dir poco al lettore italiano. La sua vicenda, però, è una parabola di una parte importante del pensiero americano che pare sul punto di estinguersi.

 

Morto per un tumore il 21 giugno 2018 all’età di 68 anni, poche settimane prima di lasciarci Charles Krauthammer aveva dato l’addio ai suoi lettori, con un lucido articolo sul Washington Post, di cui era editorialista. Per anni è stato un volto noto agli americani, facendo il punto della situazione politica nazionale e internazionale su Fox News.

In uno dei suoi ultimi interventi, prima di un lungo silenzio dovuto alla malattia, aveva tessuto le lodi di John McCain, eroe di guerra, prigioniero nel Vietnam e poi senatore e candidato presidente repubblicano, anch’egli gravemente malato. “Io credo che il suo sia il vero spirito del Reaganismo. Non solo è stato più eroico dello stesso Reagan nella sua vita, ma ha portato avanti le idee di Reagan, un espansivo, ottimista, aggressivo americano sicuro di sé. E penso che questo spirito stia svanendo fra i repubblicani e nell’intero paese. E penso che sia una specie di simbolo il fatto che (McCain, ndr) sia afflitto da questa malattia (un tumore al cervello, ndr). Penso che rifletta questo smarrimento. E ci mancherà, perché (e non voglio fargli il coccodrillo, ma sto parlando del futuro) se pensiamo a chi potrebbe essere il successore di McCain, non credo che ne abbia”. Sia McCain che Krauthammer non sono mai stati visti di buon occhio dall’attuale presidente Donald Trump. Nel 2015, quando era appena candidato alle primarie, Trump twittava su Krauthammer: “pretende di essere un intelligentone, ma se guardi al suo curriculum non lo è. Un pupazzo che si vede troppo negli show della Fox. Un buffone sopravvalutato!” Inutile dire che Krauthammer non ha mai appoggiato Trump, né nelle elezioni primarie e, benché repubblicano, neppure nelle presidenziali.

Che cosa è questa idea di America, morta con Krauthammer e portata avanti da McCain, ma che prossimamente rimarrà senza eredi? In generale è chiamata “reaganismo”. In particolare, per questa corrente del reaganismo è chiamata “neoconservatorismo”. Oggi, specie in Europa, questa definizione è diventata sinonimo di “falco” o “guerrafondaio” e usata in modo dispregiativo. Ai tempi di Reagan indicava quella corrente di intellettuali che si erano convertiti al conservatorismo dopo essere stati progressisti. La storia di Krauthammer è tipica. Con genitori ebrei osservanti, padre ucraino e madre belga sfuggita per un pelo all’occupazione nazista, la sua riflessione politica parte dalla Shoah, nella quale è stata sterminata tutta la famiglia del padre. Come disse in un’intervista a C-Span, la memoria della Shoah “raffredda il tuo ottimismo e il tuo idealismo. Non ti aspetti poi troppo dalla natura umana. E ti prepari al peggio”. E, sempre per la memoria della Shoah e il dovere morale di impedirne una nuova, è sempre stato un convinto difensore di Israele. In un articolo su The Weekly Standard, rivista di riferimento dei neoconservatori, di Israele scrisse che “È l’unico piccolo paese, l’unico, i cui vicini dichiarano pubblicamente che la sua sola esistenza sia un affronto alla legge, alla moralità e alla religione e fanno della sua estinzione un obiettivo nazionale esplicito e prioritario”.

Passione per il sionismo e per la difesa dei diritti umani, negli anni ’70, fanno di lui un Democratico, scelta condivisa dalla maggioranza della comunità ebraica americana. Il suo ingresso nel mondo delle idee politiche parte da una rivista di sinistra, The New Republic. Nel 1980, quando Ronald Reagan sfida Jimmy Carter, lui è dalla parte di Carter in qualità di autore dei discorsi del vicepresidente Walter Mondale. Questo è, appunto, il percorso tipico di tutti i neoconservatori: origine ebraica, passione per la difesa di Israele, passione per i diritti umani perché la Shoah non si ripeta. Come mai questa corrente intellettuale sfociò nel Partito Repubblicano di Reagan? Per le stesse ragioni. Perché i Democratici, soprattutto dopo la sconfitta nel Vietnam e soprattutto nei primi anni ’80, quelli più “caldi” della guerra fredda, erano diventati sempre più pacifisti e tendevano all’isolamento. Come spiega Krauthammer, nel suo saggio-manifesto “Realismo Democratico” del 2004: “l’internazionalismo liberale è il fondamento della politica estera del partito democratico. Ha una storia molto particolare. Rintraccia le proprie origini nelle utopistiche visioni di Woodrow Wilson, nell'anticomunismo di Harry Truman e nell'universalismo militante di John Kennedy. Ma dopo la guerra del Vietnam, si è trasformato in un’ideologia di passività, acquiescenza e quasi automatico anti interventismo”. Reagan, al contrario, sin dai primi anni ’80, offriva aiuto concreto e morale a ogni forma di ribellione alla dittatura sovietica e filo-sovietica, dal Nicaragua all’Afghanistan passando per la Polonia.

Nel 1985, fu proprio Krauthammer, in un articolo sul Time (ripubblicato nel 2001) a coniare l’espressione più celebre per definire questa linea politica: la Dottrina Reagan. Krauthammer vedeva la ribellione contro regimi ostili come un metodo nuovo per garantire il contenimento dell’espansionismo sovietico, un mezzo legittimo, anche se quasi mai legale, della politica estera americana. In tempi più recenti, nel dibattito che è seguito all’11 settembre, lo stesso concetto è stato tradotto in “esportazione della democrazia”. Krauthammer, così come molti altri neoconservatori, come William Kristol, Robert Kagan, David Frum e Richard Perle, suggerivano di combattere l’islamismo jihadista con gli stessi strumenti con cui Reagan aveva combattuto e vinto la guerra fredda: appoggiando il dissenso, laico e democratico, interno alle società islamiche, aiutando le popolazioni locali a rovesciare i loro dittatori, individuati come causa prima della violenza e dell’estremismo.

La migliore sistematizzazione di questa teoria la troviamo in Realismo Democratico, scritto da Krauthammer nel 2004, primo anno della guerra in Iraq. Il breve saggio è un invito alla classe dirigente americana a farsi carico dell’ordine internazionale. Non per scelta, ma per le circostanze del mondo di oggi: “Ci sono voluti tre giganti del Ventesimo secolo – scrive Krauthammer - per trascinarci nei grandi conflitti che lo hanno caratterizzato: Wilson nella Prima guerra mondiale, Roosevelt nella Seconda e Truman nella Guerra fredda. Poi anche quest'ultima è finita con uno dei crolli meno rumorosi di tutta la storia: senza che fosse sparato un colpo, senza rivoluzioni, senza neppure un comunicato stampa, l’Unione Sovietica si è semplicemente sfaldata ed è scomparsa dalla scena. È stata la fine di tutto: la fine del comunismo, del socialismo, delle guerre europee. Ma la fine di tutto segnava anche un inizio. Il 26 dicembre 1991 è morta l'Unione sovietica ed è nato qualcosa di completamente nuovo: un mondo unipolare dominato da un’unica superpotenza, senza rivali e con un’influenza decisiva in ogni angolo del globo. Si tratta di uno sviluppo storico di portata straordinaria”. A chi lo ritiene un teorico dell’imperialismo, risponde con un’altra constatazione: “Siamo una Repubblica di tipo ateniese, ma ancora più repubblicana e infinitamente più democratica della stessa Atene. Ora questa Repubblica americana ha acquisito il più grande impero di tutta la storia; e lo ha fatto in un momento di disattenzione persino maggiore di quello che aveva portato alla creazione dell'impero britannico. Anzi, molto più che una semplice disattenzione; una vera e propria inconsapevolezza. Siamo arrivati a questo punto per il suicidio dell’Europa nelle guerre del Ventesimo secolo, e per la morte del suo successore euroasiatico, l'Unione Sovietica”.

Arrivati a questa condizione, gli Usa hanno quattro scelte possibili: tornare all’isolazionismo, perseguire un nuovo internazionalismo progressista (strada percorsa negli anni ’90 delle due amministrazioni Clinton), aderire al multilateralismo (partecipando maggiormente all’Onu e alle scelte collettive prese con le altre grandi potenze), oppure, come suggerisce il neoconservatore Krauthammer, scegliere il realismo democratico. “Nel mondo unipolare in cui viviamo, tutta la stabilità di cui godiamo si deve esclusivamente alla schiacciante potenza degli Stati Uniti, e alla sua forza di deterrenza. Se qualcuno invade la tua casa chiami la polizia. E chi chiami se qualcuno invade il tuo paese? Chiami Washington. Nel mondo unipolare, ciò che più si avvicina a una forma di autorità centralizzata, a un garante del rispetto delle regole, è l'America, la potenza americana”.

Questa teoria è caduta in disuso nel momento in cui si è incrinata l’immagine della potenza americana, prima con il conflitto in Iraq, poi con la grande recessione del 2008. Con Obama si è affermato il multilateralismo. E per reazione a Obama, ora è l’isolazionismo che prevale di nuovo con l’amministrazione Trump. Un isolazionismo che, nel 2004, Krauthammer già considerava anacronistico. Mentre in origine si fondava su un senso di superiorità morale dei giovani Stati Uniti rispetto alle guerre di monarchie e dittature vecchie e corrotte, oggi, nella visione di Krauthammer “l’isolazionismo è un’ideologia della paura. Paura del commercio. Paura degli immigrati. Paura dell’altro, del diverso. Gli isolazionisti vogliono che l’America protegga il proprio commercio interno, che impedisca l'immigrazione e che si ritiri dai suoi impegni strategici e militari in tutto il mondo”.