L’esigenza di tutelare il diritto d’autore non dovrebbe necessitare di molte spiegazioni. Questo diritto è fondato sull’ingegno e sullo sforzo creativo di un individuo, che poi cede contrattualmente il risultato del suo lavoro a un imprenditore, capace di assumere il rischio di forti investimenti per commercializzare il prodotto. Questa tipica alleanza di mercato fra gli autori e gli editori è molto cambiata nel corso delle epoche, ma non certo al punto da negare la sussistenza stessa del copyright. Senza tutele, gli autori perderebbero la spinta dell’interesse economico a creare e l’umanità intera ne risulterebbe impoverita.
1. Chi propugna, a seguito dell’avvento di internet, l’abolizione tout-court del copyright, è vittima di un grottesco fraintendimento. Sostenere che la rete, in sé, abbia natura esclusivamente libertaria, non è altro che un luogo comune, un cliché che si ripropone puntualmente ogni volta che nel settore della comunicazione si sviluppa l’innovazione, dall’invenzione del telegrafo ai giorni nostri.
Il caso di Google, in questo senso, è illuminante. Ad esempio, Google News raccoglie a costo zero una massa enorme di notizie, attinte liberamente on line da fonti qualificate. Ma ogni volta che un governo tenta di imporre il pagamento di un’imposta, per remunerare gli investimenti degli editori, Google minaccia apertamente di boicottare i siti dei giornali del paese in questione, cancellandoli dal motore di ricerca. Questo ricatto, naturalmente, viene condito di nobili parole quali “fair use”, “libera espressione”, “pluralismo delle opinioni” eccetera, mentre autori ed editori non sarebbero altro – in questa visione di comodo - che una élite privilegiata, una ristretta cerchia sconfitta dalla storia. Come ha osservato Micheal Wolff su Wired, a proposito di editoria e Google, “è difficile immaginare un’altra industria così totalmente asservita a uno dei suoi giocatori”.
Se il diritto d’autore ha dunque bisogno di essere salvaguardato, è altrettanto vero che il sistema attuale di tutela del copyright è largamente superato, irrazionale e anti-economico sotto molti aspetti. Le argomentazioni critiche verso questo assetto spesso sono serie e fondate, altre volte deboli e inconsistenti. In ogni caso, è certo che sinora sistemi alternativi al copyright non sono ancora stati ideati.
2. A rimettere ordine nel dibattito che contrappone i titolari della proprietà intellettuale ai fautori della cosiddetta “libertà in rete” ha recentemente provveduto il bel saggio: E Mozart finì in una fossa comune – Vizi e virtù del copyright (Egea) nel quale Fabio Macaluso, avvocato esperto di comunicazione e diritto d’autore, spiega gli aspetti storici, giuridici e tecnici della questione e illustra in dettaglio le proposte di una riforma ormai improcrastinabile.
L’esperienza americana, sostiene Macaluso, dimostra che la strada maestra da seguire è un sistema di registrazione formale dei lavori creativi, sottoposti a regime di copyright per un periodo di tempo da definire, eventualmente rinnovabile. Il sistema attuale ne risulterebbe rovesciato: tutte le opere creative sarebbero di pubblico dominio, tranne quelle esplicitamente coperte da copyright. L’accessibilità pubblica a questo registro consentirebbe a chiunque di contattare facilmente autori ed editori titolari di copyright.
Gli uffici specializzati (meglio se in concorrenza fra loro) dovrebbero dotarsi di appositi strumenti tecnici, come già avviene per la registrazione di brevetti e marchi. Questa procedura di registrazione dovrebbe essere a pagamento e soggetta a periodici rinnovi.
La durata della protezione andrebbe drasticamente ridotta. L’attuale limite di 70 anni dopo la morte dell’autore è assolutamente ingiustificato, poiché studi econometrici dimostrano che la durata media di un’opera d’autore è stimata all’incirca in 13 anni. Già solo una protezione di 10 anni farebbe cadere in pubblico dominio, al termine di questo periodo, circa il 50 per cento delle opere creative. Un sistema che preveda un primo termine iniziale e poi una serie di successivi rinnovi facoltativi, a pagamento, avrebbe il merito di “liberare” anticipatamente una grande massa di opere la cui protezione, dopo un certo periodo, non porta più alcun vantaggio reale agli autori.
Il sistema normativo vigente è incredibilmente farraginoso, con articoli di legge lunghi anche due pagine. Si è creata, con il tempo, una moltitudine di intricate disposizioni e di complicate interpretazioni da parte dei tribunali. “Questa situazione favorisce i soggetti forti delle industrie culturali e della tecnologia” avverte Macaluso. Una semplificazione è necessaria. Andrebbero create delle linee guida univoche, magari coinvolgendo nel lavoro di riforma anche il grande pubblico.
Nella riforma del copyright dovrebbero trovare un esplicito riconoscimento i “Creative Commons”, strumenti che forniscono agli autori i mezzi legali e tecnici per stabilire il grado di libertà di circolazione delle proprie creazioni, facilitando l’utilizzo complessivo delle opere disponibili in rete.
E’ indispensabile inoltre riformare le società di gestione dei diritti d’autore. La loro posizione di monopolio, o di forte predominio, ha prodotto varie inefficienze, come ha sottolineato una recente direttiva della Commissione europea. Questa direttiva attesta la volontà politica di affrontare la questione, ma sembra non consapevole di due esigenze fondamentali: quella di spezzare il regime di monopolio esercitato da queste società; e quella di modificare i meccanismi di nomina degli organi collegiali interni, nei quali prevalgono gli autori già affermati e gli editori maggiori, a scapito di nuovi autori e piccoli editori, quelli cioè che maggiormente assicurano il rinnovamento culturale e artistico.
Poiché la raccolta pubblicitaria in Internet è enorme e in continua crescita, sarebbe opportuno introdurre su questa massa di introiti una specifica tassa, destinata a compensare gli autori e gli editori. Infine, è necessario inasprire le sanzioni contro i soggetti che incoraggiano la pirateria. Fra questi, gli “online locker services”, che incentivano lo scambio di contenuti abusivi, e le copisterie illegali, che vanificano gli sforzi delle ricerca accademica e scientifica.
3. In conclusione, se il giurista Yochai Benkler teorizza internet come “una nuova economia della liberalità in cui nessuno può reclamare un diritto esclusivo” (mettendo così paradossalmente d’accordo la cultura “di sinistra”, fautrice dell’uso gratuito dei beni comuni, con il liberismo puro “di destra”, che rifiuta qualsiasi intervento normativo in economia) assai più realisticamente Fabio Macaluso ribadisce che, in questo come in molti altri casi, l’unica alternativa reale è tra il corretto svolgimento del mercato e il caos. “Risulta quasi enigmatico il sostegno che gli attivisti della rete, supportati da non pochi giuristi, danno alla pirateria digitale, nel nome del presunto esercizio della libertà di espressione (…) Per salvaguardare il diritto alla cultura e all’innovazione, va superata la deriva demagogica che storpia l’argomento della libertà in rete, erroneamente intesa come leva per fare di internet un territorio senza regole. Un tentativo apparentemente ingenuo, che si risolve in favore di soggetti che alimentano i propri interessi con l’appoggio dei falsi utopisti della rete, così infantili, così irrealistici”. Perché, come spiega il compositore musicale ed esperto informatico Jaron Lanier, “a parte rarissimi modelli, su internet nulla è gratis”.
Senza i diritti di copyright, gli autori sarebbero inevitabilmente destinati alla miseranda fine del grande Amadeus, uno dei maggiori compositori di tutti i tempi, morto povero al punto da non potersi pagare neppure un funerale e una tomba. “I sostenitori dell’economia dei beni comuni digitali – chiosa Macaluso - rischiano di fungere da ‘utili idioti’ adoperati per stemperare la dura realtà del capitalismo globale”.
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