Da quest’anno la Cina è ufficialmente un paese abitato da popolazioni prevalentemente urbane. Non era mai accaduto nella sua storia millenaria. I cinesi che vivono in città sono infatti divenuti 690,79 milioni, con un incremento del + 1,32% rispetto all’anno precedente, superato così la popolazione rurale, pari a 656,56 milioni.

Il trend non pare passeggero. Si stima che entro l’anno 2025 la popolazione urbana cinese rappresenterà il 65,4% della popolazione totale.

 

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Grafico N. 1 “Proporzione della popolazione urbana e rurale nella RPC espressa in percentuale del totale”. UN World Urbanization Prospects.

Viene quindi da chiedersi come sia possibile tutto ciò, come sia possibile che in un paese dove vige ancora il sistema hukou (barriera istituzionale che limita la mobilità sociale, vincolando il godimento di benefici sociali e diritti da parte dei cittadini in base al proprio luogo di origine) sia potuto accadere un incremento di popolazione urbana al netto quasi della natalità in queste zone e chi è dunque, a fini statistici, il cittadino urbano. La risposta — l’esistenza di migrazioni interne di portata storica— non è tuttavia una risposta di scuola, ad uso degli statistici. Si tratta di portare alla superficie uno dei nodi strutturali che la nuova Cina deve risolvere per poter affrontare con successo le sfide economiche del presente. 

1. Fino al 1999, i rilievi demoscopici si basavano esclusivamente sull’hukou attribuito alla nascita per determinare il luogo di residenza di un cittadino. Ma a partire dal censimento dell’anno successivo, considerato accurato da molti demografi, per la prima volta la popolazione è stata enumerata in base alla sola residenza effettiva purché fosse superiore ai sei mesi. Va notato che malgrado il riconoscimento statistico a queste popolazioni non vengono attribuiti gli stessi diritti sociali riconosciuti alle popolazioni che detengono l’hukou urbano. Questo riflette un’importante e peculiare caratteristica della struttura duale cinese: l’esistenza di una “popolazione flottante” (liudong renkou) che rischia di mettere a dura prova la tenuta del paese. Un gruppo sociale che vive in un stato intermedio, al tempo stesso impossibilitato al raggiungimento, de jure e de facto, dello status di cittadino urbano a tutti gli effetti e a beneficiare quindi dei seppur minimi diritti sociali attribuiti a chi possiede un hukou urbano. Questa popolazione “semi-urbana” – urbana nelle statistiche ma rurale nelle possibilità e scarsamente integrata nel tessuto sociale urbano – vive una condizione di precarietà economico-sociale.

Lo scorso gennaio, l’ufficio statistico nazionale ha dichiarato che per l’anno 2011 la “popolazione flottante” era pari a 230 milioni di persone. Per capire quanto incida questo fenomeno nell’urbanizzazione della popolazione cinese, basti pensare come tra l’anno 2000 e il 2011, la popolazione urbana sia aumentata di 235 milioni.

In merito alla complicata questione si è interrogato il sociologo Wang Chunguang, che si è chiesto se sia corretto includere la “popolazione flottante” nel computo della popolazione urbana, o se tale pratica non abbia invece condotto a una sovrastima della portata dell’urbanizzazione in Cina (grafico N. 2).

imm scatole cinesi
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“It depends how you count them in Where Do You Live?” The Economist, 23 Giugno 2011.

È implicito in tale ragionamento l’assunto che il fenomeno dell’urbanizzazione vada considerato come un processo virtuoso capace di creare benessere. Possibilità che sembra tutt’altro che una certezza nella Cina di oggi, a meno che non si avvii una riforma del sistema di registrazione.

L’urbanizzazione non necessariamente conduce a una maggiore crescita: se le persone passano da una condizione di povertà rurale a una condizione di povertà urbana, l’economia non ne trarrà alcun beneficio. I benefici si manifestano a seguito del cambiamento della struttura industriale e, congiuntamente, del mercato del lavoro, e questo grazie allo spostamento della forza lavoro da attività a bassa produttività, quali l’agricoltura, ad attività maggiormente produttive, quali industria e servizi.

2. Wang Chunguang ha evidenziato come l’attuale struttura duale della società e dell’economia cinese provochi profonde disuguaglianze tra l’area urbana e rurale. L’origine di questo sbilanciamento risiede nello sfasamento tra la struttura industriale e il mercato del lavoro. Le conseguenze dello sfasamento si riflettono sul fenomeno dell’urbanizzazione. Secondo Chunguang, l’industrializzazione non ha effettivamente promosso l’urbanizzazione di una parte consistente della popolazione, e neppure la conversione della struttura industriale ha creato opportunità di lavoro non-agricole: di conseguenza, l’industrializzazione non ha promosso lo sviluppo rurale.

La modernizzazione del sistema industriale cinese, avviata con l’ascesa al potere di Deng Xiaoping, ha avuto effetti limitati sulla struttura del mercato del lavoro. Nella tabella che segue si osserva come l’apporto del settore primario alla crescita della Cina fosse già limitato nei primi anni Novanta e di come abbia continuato a decrescere nel tempo. Tale riduzione non è stata tuttavia accompagnata da un contestuale ridimensionamento della percentuale di forza lavoro impiegata nell’industria primaria: nel 2006, il 42,6% della popolazione “attiva” era impiegata in attività a bassa produttività. Non per ultimo, la percentuale di popolazione rurale è decresciuta ancor più lentamente rispetto al ritmo di conversione della struttura lavorativa. 

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Lu Xueyi, Ed., Social Structure on Contemporary China 
World Scientific Publishing (2012) 290

Dati più recenti paiono confermare quanto detto: il contributo alla crescita dell’agricoltura è pari al 10% (Banca Mondiale, anno 2009), la percentuale di popolazione attiva impiegata nello stesso settore è pari al 40% del totale (Banca Mondiale, anno 2008) e la popolazione rurale rappresenta il 48,73% del totale (NBS, 2011). 

Tale peculiarità, tipicamente cinese, risulta aggravata dal fatto che la percentuale di terra arabile è pari all’11,8% del totale. Conseguentemente, la scarsità di terreno coltivabile di proprietà collettiva sul quale si può esercitare esclusivamente il diritto di usufrutto, non può assorbire il 40% della forza lavoro, portando così ad un notevole surplus di forza lavoro. Il mancato trasferimento della forza lavoro da attività agricole a bassa produttività ad altre maggiormente produttive, ha di fatto ridotto i benefici dell’urbanizzazione. 

Un contributo in questo senso potrebbe venire dalla riforma del sistema hukou che porterebbe contestualmente ad una maggiore mobilità dei lavoratori sul mercato e a liberare le potenzialità di acquisto di coloro che detengono l’hukou rurale.

3. Ma proviamo ad osservare la questione da un’altra prospettiva. In una situazione fluida, anche da un punto di vista normativo, come quella cinese, che cosa definisce lo “spazio urbano”? Quali sono i perimetri che distinguono lo spazio urbano da quello rurale?

Va subito detto che la definizione di “città”, già mutata più volte nel corso della storia della Repubblica Popolare cinese, è stata all’occorrenza modificata anche in funzione della necessità politica. Per esempio, un rapporto OECD riporta come, a seguito dei disastrosi effetti del Grande Balzo in Avanti, il governo di Pechino abbia riportato la definizione di “città” allo stato di “contea”, convertendo i residenti con hukou urbano allo status rurale: di conseguenza, il numero di città, così come stabilite per legge, è crollato da 208 nel 1960 a 168 nel 1965 riportando il tasso di urbanizzazione al 17,8%. 

Nel 2006, l’Ufficio Statistico Nazionale ha adottato una nuova definizione di spazio urbano, più “vicina” agli standard internazionali, che comprende le aree suburbane, inclusi i villaggi, direttamente collegate da servizi e/o infrastrutture pubbliche alle municipalità urbane.

Sullo sfondo di questo scenario normativo mutevole, le fonti d’incremento della popolazione urbana e l’estensione del perimetro di un centro urbano s’individuano: nell’incremento naturale della popolazione, nella migrazione da aree rurali e nell’espansione dei confini della città. 

Da considerarsi quale sbocco naturale di un processo di urbanizzazione, l’espansione del perimetro della città attraverso l’estensione del suolo urbano e l’allargamento dei suoi confini, andrebbe studiato sullo sfondo dell’insieme di norme che regolano il diritto di proprietà in Cina. Viene infatti da domandarsi, se come sancito dall’articolo 10 della Costituzione cinese i terreni delle città sono di proprietà statale mentre i terreni delle campagne e dell’area suburbana sono di proprietà collettiva, l’estensione del perimetro urbano mediante modalità legali (come stabilito dall’art. 42 della Property Law) o illegali (e.g. esproprio della terra di proprietà collettiva per opera di funzionari pubblici al fine di concederne il diritto d’uso per importanti progetti edilizi), porterebbe a una ridefinizione dei diritti di proprietà? Se tale prospettiva divenisse prassi, quali effetti economici avrebbe?

La sfida della sostenibilità del Regno di Mezzo può essere paragonata alle scatole cinesi, ogni questione ne dischiude un’altra altrettanto fondamentale e urgente, e così via. 

In questo scenario la riforma del sistema hukou corrisponde, anche se non da sola, alla prima scatola: una barriera strutturale istituzionale che impedisce la mobilità sociale della popolazione cinese. Un altro elemento di natura istituzionale, di complicata analisi e dalle conseguenze trasversali all’economia, è rappresentato dai diritti di proprietà e dalla titolarità degli stessi. Com’è ampiamente riportato dai media e dagli studiosi di settore, la grande ambiguità relativa all’appartenenza dei suoli rurali è all’origine di migliaia di sommosse verificatasi negli ultimi anni nelle campagne cinesi (Valentina Cardinale).

Non da ultimo, è tuttavia importante evidenziare come qualsiasi cambiamento istituzionale, se non accompagnato da riforme parallele, quali la creazione di un welfare state che possa garantire a tutti i cittadini i medesimi diritti sociali, potrebbe rivelarsi controproducente da un punto di vista politico ed economico.