C’era una volta un paese molto povero e di antica civiltà che voleva inurbare centinaia di milioni di contadini in maniera ordinata, senza favelas. Il paese non disponeva di tecnologia e non aveva un sistema finanziario.

Lo sviluppo di questo paese, una volta conosciuto come Impero Celeste e oggi noto come Repubblica Popolare Cinese, doveva partire dall’offerta di lavoro con salari bassi. Le imprese straniere potevano combinare il lavoro locale con la loro tecnologia avanzata. Potevano guadagnare più del profitto normale, perché lucravano il minor costo del lavoro e quindi erano incentivate a investire. Intanto i cinesi, esportando più di quanto importino, hanno accumulano enormi riserve valutarie investite in obbligazioni statunitensi. Le obbligazioni statunitensi di proprietà cinese lasciate in ostaggio agli statunitensi proteggono gli ingenti investimenti in impianti fatti in Cina da molti paesi.
 
Dal 1991 al 2006 gli investimenti in capitale fisico compiuti in Cina da stranieri sono stati pari a 700 miliardi di dollari. La cifra non tiene conto della crescita di valore degli investimenti nel corso degli anni: se ipotizziamo che il loro valore sia cresciuto del 10% ogni anno, arriviamo a 1.300 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, i cinesi hanno comprato obbligazioni statunitensi per un controvalore simile. I crediti cinesi a fronte degli investimenti esteri sono il fondamento del sistema di mutua distruzione assicurata: «Se tu nazionalizzi i miei impianti, allora io sequestro i tuoi BOT! Se provi a rovinarmi, io ti rovino, ma se tu non fai niente, allora io non faccio niente».
 
L’International Emergency Economic Power Act, del 1977, concede facoltà al Presidente di congelare le attività estere sotto il controllo degli Stati Uniti quando egli vedesse un rischio straordinario per la sicurezza nazionale, la politica estera, l’economia. Senza il sistema di reciproca rovina potenziale, nessuno avrebbe messo in opera l’equivalente di un trilione di dollari d’impianti in Cina, un paese dominato da un regime a partito unico e forte di un esercito robusto. Senza un’industria priva di mezzi adeguati, la crescita cinese non sarebbe mai decollata. Acquistando i titoli di stato americani, i cinesi hanno offerto agli Stati Uniti la garanzia dei loro investimenti. Quelli statunitensi sono solo una quota degli investimenti esteri fatti in Cina: vi sono poi le quote dei giapponesi, tedeschi, coreani e via dicendo. I paesi che hanno investito in Cina contano sugli Stati Uniti come garanti dei loro diritti.


Deprivatizzazione
 
La domanda aggiuntiva di materie prime energetiche dei paesi emergenti asiatici si scontra con un’offerta limitata. Con il prezzo del petrolio diventato molto alto abbiamo la crescita dei proventi dei paesi petroliferi. Supponiamo che per tutto il 2008 il prezzo rimanga a 100 dollari. La media sarà 100. Nel 2007 il barile è finito per costare 100 dollari, ma in media è stato sui 70. Moltiplicando per 100 dollari i barili che i paesi della Penisola Arabica esportano, sono non molto meno di 1.000 miliardi di dollari. Una parte, la metà, sarà spesa in importazioni, tuttavia ne resterà un'altra piuttosto cospicua da investire. E se nel 2009 il prezzo del barile resterà a 100 dollari, saranno altri 1.000 miliardi di proventi.
 
Dove finiranno tutti questi soldi? In obbligazioni e in azioni. Così come i paesi emergenti industriali e petroliferi hanno cominciato a comprare euro per diversificare dal dollaro, prima o poi cominceranno a comprare azioni per diversificare dalle obbligazioni. Negli anni Ottanta e Novanta in Occidente si è attuata la privatizzazione. Gli acquisti d’azioni da parte delle banche centrali emergenti, via i loro fondi d’investimento sovrani, sono un processo di deprivatizzazione. Le imprese occidentali potranno avere come azionisti gli stati dei paesi in via di sviluppo.
 

Autocrazie
 
Gli Stati Uniti importano più di quanto esportino. Hanno disavanzi commerciali con l’estero. Se i cambi fossero fluttuanti, il dollaro cadrebbe fino a far diventare le esportazioni statunitensi competitive e le importazioni asiatiche care. A quel punto il disavanzo si ridurrebbe fino a scomparire. Invece, i paesi industriali asiatici tengono il cambio col dollaro fisso (o semifisso) perché le loro banche centrali comprano attività finanziarie in dollari per impedire che si deprezzi. Lo fanno per crescere attraverso il settore esportatore, che modernizza le loro economie. I disavanzi statunitensi si trasformano in crediti dei paesi emergenti sotto forma di titoli di stato americani o titoli assimilabili, come quelli delle agenzie, delle società che emettono obbligazioni a fronte dei mutui ipotecari – ad esempio, la famosa Fannie Mae. Gli Stati Uniti hanno una quota crescente delle proprie attività finanziarie detenute dall’estero.
 
L’estero che detiene questa grande quantità di attività finanziarie statunitensi è composto dai paesi asiatici industriali e dai paesi petroliferi. Questi paesi sono delle autocrazie. Gli Stati Uniti sono indebitati non con il settore privato dei paesi democratici, ma con il settore pubblico dei paesi autocratici. Fatto che non rileva fino a quando è limitato, ossia fino quando la quota d’attività detenuta da questi paesi è modesta. Diventa un problema quando la quota detenuta è cospicua, com’è oggi, pari a più di un terzo del debito pubblico. Non solo la quota del debito statunitense di proprietà delle autocrazie è notevole, ma è in aumento, perché i disavanzi commerciali persistenti alimentano la crescita del debito statunitense con l’estero.
 
Dieci anni fa i paesi come la Corea, la Thailandia, l’Indonesia avevano un debito estero crescente. Ci fu una grave crisi del debito, i capitali furono ritirati e le loro monete crollarono. La crisi esplose perché il rendimento atteso sugli investimenti finanziari e reali in questi paesi era giudicato inferiore al costo del debito che li alimentava. Così finirono in crisi, ma si trattava di paesi troppo piccoli per mettere in difficoltà l’economia mondiale. Una crisi degli Stati Uniti metterebbe in crisi tutti, dunque un eventuale risanamento brutale dei conti esteri statunitensi è un evento sistemico. Per «brutale» s’intende che non sono più comprate le obbligazioni, i rendimenti salgono, il costo del denaro cresce, il credito al consumo si riduce, la borsa crolla; infine, o intanto, anche il dollaro crolla – insomma, la riedizione della crisi asiatica o russa del 1997 e del 1998. Troppo grande è il dramma perché possa accadere, si direbbe. Il salvataggio di Fannie Mae ha avuto, fra le motivazioni, quella di sostenere il prezzo delle sue obbligazioni, detenute in parte dall’estero. Fosse quest’ultimo incorso in perdite, avrebbe potuto minacciare gli Stati Uniti sul fronte dei titoli di stato: «Se mi fate perdere, ne compro di meno». Va detto che la minaccia è reciproca: «Se vado in crisi, esportate meno».
 

All’origine della crisi in corso
 
Siamo nel 2001, e l’economia negli Stati Uniti sta rallentando. L’11 settembre non è ancora arrivato; dopo l’evento, sull’onda dell’emergenza, le decisioni saranno prese con maggior tempestività. Il bilancio pubblico è portato in disavanzo, da che era in forte avanzo. I tassi d’interesse sono schiacciati fini a livelli minimi. Si ha una spinta di carattere fiscale e monetario. L’economia degli Stati Uniti si riprende. Il cuore della ripresa è nel settore immobiliare che spinge i consumi privati. La discesa dei tassi d’interesse riduce il costo dei mutui ipotecari, che sono rinegoziati a tassi inferiori: si libera una quota di reddito che prima andava a pagare gli interessi, ora è spesa per consumi. Gli immobili salgono di prezzo sia perché tutti li vogliono, sia perché sono un’attività finanziaria lunga, come le obbligazioni. (Le attività finanziarie che erogano una cedola, come le obbligazioni, o un affitto, come gli immobili, salgono di prezzo quando i tassi scendono). Salendo di prezzo, gli immobili possono essere usati per garantire l’accensione di nuovo debito. Il debito delle famiglie cresce, ma con i tassi che diminuiscono e il reddito che aumenta grazie alla ripresa, gli oneri finanziari restano stabili. Le famiglie si possono indebitare quasi senza problemi e consumare molto.
 
Man mano che il prezzo degli immobili sale, diventa difficile che possa salire ancora. Se il prezzo degli immobili va alle stelle, conviene affittare casa, non comprarla. Da qui il movimento in discesa dei prezzi. Il calo del prezzo degli immobili mette in dubbio le garanzie accese a fronte del debito emesso a favore delle famiglie. E le cose s’avvitano. Cade il prezzo degli immobili e il debito diventa fragile. Gli immobili erano anche l’attività nella pancia delle obbligazioni che la finanza impacchettava e vendeva in giro per il mondo: venivano emesse obbligazioni legate al settore immobiliare, in sigla CDO. Sembravano obbligazioni di grande qualità perché il sottostante era diversificato, ossia composto di molti milioni di mutui legati a un settore sia solido sia in crescita. La loro valutazione, quella fatta dalle società di rating, era quindi elevata o massima. Queste obbligazioni erano assicurate: fosse mai che alla scadenza l’emittente emergesse insolvente, si assicurava il rimborso dell’obbligazione. Le obbligazioni con in pancia i mutui e assicurate avevano una sigla diversa, CDS. Il meccanismo funzionava; fino a quando, con la caduta del prezzo degli immobili a partire dal 2006, lentamente prima e accelerando poi, le cose hanno preso la piega peggiore.
 

Polemiche e conclusioni
 
Senza il sistema di garanzie («impianti a te e obbligazioni a me»), la tumultuosa crescita cinese non ci sarebbe stata. Abbiamo visto che le garanzie ruotano intorno alla potenza politica e militare statunitense. Gli Stati Uniti sono quindi un «bene pubblico», il garante dei diritti di proprietà di tutti. È nell’interesse della Cina che gli Stati Uniti siano forti, perché inurbano i contadini evitando le favelas. Gli americani comprano beni dai cinesi, cui vendono attività finanziarie. I cinesi fanno quello che sanno fare meglio (produrre beni fisici), mentre gli americani fanno quello che sanno fare meglio (produrre beni finanziari complessi governando il mondo). Questo sistema, che dura da decenni, oggi si scontra col proprio limite. I cinesi hanno troppe attività finanziarie statunitensi; gli statunitensi hanno venduto troppe attività finanziarie. I cinesi temono che i loro crediti non siano poi di gran qualità, mentre gli statunitensi temono che il meccanismo dell’importazione perpetua di capitali possa incepparsi.
 
Affermare che viviamo in un mondo irreale dominato dall’economia di carta soddisfa il bisogno di capri espiatori, ma non coglie il punto: l’economia reale del mondo si è sviluppata (come mai nella storia) grazie al complesso delle relazioni finanziarie. Al cuore dello sviluppo degli ultimi decenni è stata la finanza. La soluzione dei suoi problemi, cercata per via privata o con un misto di privato e pubblico, è il presupposto dello sviluppo futuro. La partita è complicata. Ricorderemo con tenerezza i bei tempi del mutuo ipotecario che, novello Atlante, sosteneva il mondo.

 
Pubblicato su «Limes», numero 5 del 2008