Il PIL di Cipro è pari a poco più di 15 miliardi di euro, mentre il fabbisogno per salvare i propri conti pubblici ammonta a circa dieci miliardi e quello per salvare il proprio sistema bancario ammonta a circa cinque miliardi. Cifre enormi in rapporto al PIL cipriota – il cento per cento - ma cifre minuscole in termini assoluti. Il PIL italiano è, infatti, 100 volte maggiore di quello cipriota e l'ultimo aumento del capitale di Unicredit è stato maggiore del fabbisogno cipriota per salvare il proprio sistema bancario. Se la vicenda cipriota coinvolge cifre minuscole, perché mai tanto dibattito?
Le banche cipriote vanno in crisi soprattutto perché esposte verso la Grecia, sia come acquirenti del suo debito pubblico (che è stato ristrutturato, per cui alla scadenza è rimborsata solo una parte del valore facciale delle obbligazioni), sia come grandi creditori del suo sistema di imprese ormai “alla frutta”. Le banche cipriote debbono perciò registrare le perdite (un minor attivo), e dunque devono toccare il passivo (ridurre pro tanto il capitale di rischio). Se le perdite sono elevate, ecco che le banche cessano di esistere, a meno di aumentare il capitale.
Il “buco” bancario è di circa cinque miliardi, mentre il PIL è di 15 miliardi, vale a dire che le banche hanno un fabbisogno pari a un terzo del reddito nazionale. Il Tesoro cipriota dovrebbe emettere un ammontare enorme di nuovo debito. Troppo e nessuno lo sottoscriverebbe. E, se anche lo sottoscrivesse, i rendimenti richiesti farebbero saltare il Tesoro. Ecco servita la ratio dell'aiuto chiesto all'Estero. Ma l'Estero non vuole recitare la parte di chi paga i conti disastrati altrui (per Cipro e per sue le banche) e perciò chiede un coinvolgimento domestico. Il Tesoro è “povero” - deve ancora tagliare le spese e non riesce a raccogliere nel breve termine le imposte necessarie, che comunque sarebbero troppe in rapporto al PIL - e dunque gli restano i conti correnti. Un prelievo - pari a molto meno del 10% per i conti inferiori a 100 mila euro, e appena sotto il 10% per quelli superiori ai 100 mila euro - porterebbe alle casse del Tesoro circa cinque miliardi di euro, e perciò l'euro-area e il Fondo Monetario sarebbero coinvolti per circa dieci miliardi di euro, un cifra giudicata accettabile.
Ed ora arrivano le complicazioni. La prima è che Cipro, a differenza di altri paesi europei salvati dall'intervento dell'euro area, ha dei tratti che la rendono poco “simpatica”. Cipro è un paradiso fiscale. Alle imprese si chiede, infatti, un'imposta sui profitti del 10% (in Italia e Germania l'imposta IRPEG è del 30%) e, in aggiunta, non si fanno troppe domande sull'origine dei denari che arrivano copiosi, soprattutto dalla Russia. Secondo l'intelligence tedesca questi ammontano a circa 26 miliardi, ossia a quasi il doppio del PIL cipriota. Una parte dei depositi è quindi di non ciprioti - per quanto forniti di residenza, che si ottiene solo portando del denaro nell'isola di Afrodite. Ecco che Gazprom si offre di aiutare il Tesoro di Cipro in cambio dell'esclusiva sulla ricerca delle riserve di gas. Tu mi dai il tuo gas e io ti aiuto a non far pagare ai miei concittadini il prelievo sui loro depositi “off-shore”. Ecco che arrivano le dichiarazioni di Putin che reclamano la “certezza del diritto”. Non che Cipro sia la meta preferita dei ricchi russi, c'è anche Londra, ma questa sua caratteristica va presa in considerazione per cercare di capire i termini del negoziato.
La seconda. Il prelievo forzato sui conti. Le critiche sono diverse. Quella ovvia afferma che il prelievo colpisce la povera vedova quanto il miliardario evasore. Chiamiamola la critica dell'iniquità. Si ha poi quella - molto più dibattuta - che possiamo chiamare del contagio, che divide il campo degli “euro-scettici”. C'è chi sostiene che il prelievo forzato porterà ad una fuga dei depositi dai Paesi mal messi, con ciò aggravando la crisi. C'è chi sostiene, invece, che questa vicenda suona come una sveglia su quel che ci si può aspettare, e dunque dovrebbe spingere ad un maggior realismo, vale a dire che è sbagliato credere che la crisi in corso sia senza costi per lo stock di ricchezza dei privati.
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