Un summit internazionale della durata di una settimana, al quale hanno partecipato le delegazioni di 150 Paesi, inclusi ventisette presidenti, due re, un emiro, sette primi ministri e, a cascata, una lunga lista di altri illustri rappresentanti. Con questi numeri non può che essere stato un vertice di successo. Anzi, un incontro al quale ha preso parte anche il segretario generale dell’Onu, Ban ki-Moon, è più che un summit di successo. È un punto importante messo a segno da chi l’ha organizzato sul piano diplomatico internazionale. Così a prima vista può passare l’incontro del Movimento dei Paesi Non Allineati (Nam), ospitato a Teheran la scorsa settimana. In realtà sull’avvenimento sono gravati contraddizioni e anacronismi.

Non allineamento. Ai tempi della guerra fredda se ne parlava in riferimento a quei governi che rifiutavano di sottostare alle logiche del bipolarismo internazionale Usa-Urss. Egitto, India, Iugoslavia, in parte anche la Cina, ma soprattutto l’immenso blocco di nuovi Paesi nati con la decolonizzazione. Si trattava di realtà economicamente in crescita, per quanto palesemente arretrate, che per principio rigettavano l’invito di allearsi alla Nato o al Patto di Varsavia. Autodeterminazione, emancipazione e indipendenza. Sventolando orgogliosamente questi tre valori, i membri preferivano restar fuori dallo scontro bipolare, seppur annaspando nella povertà. Con la conferenza di Bandung prima (1955) e quella di Belgrado poi (1961), i Paesi non allineati si dichiararono certi di poter creare una terza posizione svincolata dalla guerra fredda. La storia ha dimostrato che né per ragioni geopolitiche (e militari) né soprattutto per questioni economiche i non allineati sono riusciti nell’impresa. A conferma basti prendere il contributo, soprattutto ideologico, che Fidel Castro ha dato al Nam. E si sta parlando di una Cuba che è sempre stata lontanissima dal poter rispettare i canoni del non allineamento.

Finita la guerra fredda e venuto meno il bipolarismo internazionale, anche il Nam non avrebbe avuto più ragioni di sopravvivenza. Oggi, a quasi ventidue anni dalla caduta del muro di Berlino, il fatto che i suoi membri continuino a riunirsi dovrebbe sorprendere; o quanto meno indurre alle domande. Non allineati contro cosa? La contraddizione concettuale sarebbe stata presto superata se il Nam si fosse trasformato in un punto di riferimento per i Paesi poveri del mondo. Almeno questi erano i suoi intenti. Indigenti contro ricchi. Nazioni no global, vittime della globalizzazione e quindi strenue avversarie del capitalismo finanziario che oggi è in crisi. Ma anche in questo caso, i buoni propositi non sono stati rispettati. La presenza a Teheran dei rappresentanti di massimo livello di Cina, India e addirittura Arabia Saudita smentisce anche questo nuovo maquillage che il Nam si è voluto fare nel post-1989. È vero, Pechino e New Delhi erano tra i fondatori del movimento. Da allora però entrambi hanno sia fatto dei passi da gigante, in termini di crescita economica, sia smentito le loro stesse ispirazioni ideologiche. Paradossalmente, il Nam è proprio alla Cina e all’India che oggi si dovrebbe non allineare. Altro che alla Russia o agli Stati Uniti!

Peggio è se si riflette sulla presenza a Teheran dell’Arabia Saudita. Tenendo conto di quanto il petrolio sia la bestia nera di tutte le propagande no global, non allineate e alternative, c’è da chiedersi con che faccia siano sbarcati i principi sauditi nella capitale iraniana. Ed è altrettanto interessante capire come gli Ayatollah li abbiano accolti. In questo caso però, subentrano anche le contraddizioni politiche – o meglio bilaterali, tra Paese e Paese – e non solo ideologiche. Si sa infatti che tra Iran e Arabia non corre buon sangue. E non solo per ragioni confessionali (sunniti contro sciiti), ma anche di supremazia in Medioriente e nel mercato degli idrocarburi. Gli Ayatollah al loro vertice hanno infatti accolto gli emiri del Golfo, ma anche il nuovo presidente egiziano, Muhammed Mursi, neoeletto e fresco prodotto della primavera araba, ovvero quella stagione di rivoluzioni, pericolosa non solo per l’Iran ma, specie in questo momento, per la Siria. Mursi, in barba alle regole dell’ospitalità, è intervenuto sparando ad alzo zero contro il regime di Damasco. «È nostro dovere sostenere la popolazione siriana contro il regime ingiusto di Bashar al-Assad, che ha perso legittimità», ha dichiarato il leader cairota, notoriamente affiliato alla Fratellanza musulmana. Il tutto mentre la delegazione siriana abbandonava l’aula del dibattito e i padroni di casa, gli Ayatollah, cercavano di contenere l’imbarazzo.

Altra partecipazione illustre è stata quella del già citato Ban ki-Moon. Il suo intervento, limitato al ruolo di osservatore, sarebbe dovuto passare come un placet del palazzo di vetro in favore del Nam. Un’approvazione delle buone intenzioni manifestate da un’organizzazione che, al di là degli anacronismi del nome, si dichiara a fianco dei tanti diseredati. Almeno in termini numerici, il Nam in effetti fa da ombrello alla grande maggioranza dei Paesi poveri. Del mondo occidentale, la sola nazione partecipante al Nam è la Bielorussia, che però è anche l’unica dittatura d’Europa, in cui il 27% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. A Teheran c’erano poi tutta l’Africa, tutta l’Asia e la quasi totalità dell’America Latina. Il problema è che il numero uno dell’Onu si è sentito dire dalla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, che le Nazioni Unite e le Consiglio di Sicurezza sono «una dittatura iniqua e antidemocratica». Questa stessa settimana, Ban ki-Moon a New York dovrà riferire in qualche maniera alle sue controparti diplomatiche occidentali, ma anche di Russia e Cina (notoriamente alleate dell’Iran), ciò che ha visto e soprattutto sentito durante la sua missione a Teheran. Ed è presumibile un certo imbarazzo in quel diplomatico 68enne, dal volto timido com’è per tutti i sudcoreani, il cui mandato scade il primo gennaio prossimo venturo e che sta vivendo questi mesi come la fase più drammatica di tutto l’incarico. Dopo la primavera araba, con la guerra civile in Siria che fa da epicentro, e dopo le tante crisi che in questi cinque anni Ban ki-Moon ha dovuto gestire, l’ultimo dei desideri era proprio sentire il ruggito di Teheran.

Il leader spirituale iraniano, dal canto suo, ha avuto le sue buone ragioni per entrare a gamba tesa contro l’organizzazione di New York. L’ha fatto perché così ha cercato di rompere l’isolamento internazionale al quale il suo Paese è sottoposto per via della questione nucleare. La mossa gli è riuscita, almeno da un punto di vista mediatico. Questo però ha poco a che vedere con il Nam.

Lo zenit della contraddizione però si è raggiunto con l’invito spedito a Turchia e soprattutto Russia. Nessuno dei due Paesi ha mandato una delegazione di alto profilo. Tuttavia, il fatto che un delegato di Mosca o di Ankara (membro Nato) fosse lì a sentire gli strali lanciati dal sud del mondo lascia ancora più perplessi. Perché il Nam quindi? Non ha un’identità che sia coerente con il suo nome. È bene ripeterlo: contro chi non si allinea il movimento? Non rappresenta una fetta del mercato internazionale davvero omogenea. Nel senso che non tutti i suoi membri sono davvero indigenti. Il che gli impedisce di portare avanti qualsiasi programma radicale o rivoluzionario. Tant’è che a Teheran si è parlato ancora una volta di energia nucleare in qualità di bene per tutta l’umanità e che per questo dovrebbe essere un diritto alla portata di tutti i governi. Manco a dirlo è stato l’Iran a farsi promotore dell’idea, la quale tutto ha fuorché dell’originale. Il successo del summit quindi si riduce a un punto segnato proprio dall’Iran. Ma in chiave unicamente geopolitica. Avendo assunto la presidenza di turno del movimento, per tre anni potrà gestire più agevolmente le proprie manovre diplomatiche. Nel 2015, passerà il testimone al Venezuela. Anch’esso alfiere del non allineamento e del giustizialismo globale. Di facciata però. Visto che un mese fa Caracas è entrata nel Mercosur, organizzazione di libro scambio dell’America Latina, anch’essa avversa al Nam.