I droni, dopo essersi diffusi negli arsenali militari di tutto il mondo, stanno ora invadendo rapidamente anche il mercato civile

Il 23 marzo 2020, è stata data alle polizie locali italiane la facoltà di utilizzare i droni per monitorare i movimenti dei cittadini – in particolare di chi porta a spasso il proprio cane – soggetti alle dure limitazioni dei propri movimenti personali a seguito della pandemia da Coronavirus. Tre giorni più tardi, come informano i media britannici, la polizia della contea inglese del Derbyshire – dotata di poteri analoghi - è stata accusata di aver diffuso alcune di queste immagini violando il diritto alla “privacy”. Come è accaduto molte volte nella storia un’invenzione effettuata a scopi militari modifica profondamente la vita dei civili; del resto, da un paio d’anni, in un paese remoto e con una rete viaria come il Rwanda, i droni sono utilizzati per consegnare sangue per le trasfusioni agli ospedali e anche per recapitare la corrispondenza.

I droni (Figura 1), - aerei senza pilota noti sotto svariate sigle come RPA (Remotely piloted aircraft), UAV (Unmanned aerial vehicle), UAS (Unmanned aircraft systems) e altre- sono stati introdotti per una precisa esigenza bellica, quella di limitare al massimo le perdite di piloti militari in missioni ad alto rischio ricorrendo a velivoli di costo in genere molto ridotto. perché, al di là di ogni cinismo, formare un pilota da caccia costa alcuni milioni dollari, mentre il valore di un drone è quasi sempre assai inferiore.
Si tratta di un aspetto cruciale per la sensibilità socio-politica dell’Occidente contemporaneo, ormai largamente ostile alla perdita di propri militari in guerra, ma anche a disagio dinnanzi alla prospettiva della prigionia dei piloti eventualmente abbattuti, condizionata com’è da possibili ricatti politico-morali con la visione dei propri prigionieri data in pasto ai media.

Il ricorso a un velivolo non pilotato presenta altri notevoli vantaggi (Figura 2): consente un profilo di volo molto basso nella ricerca del bersaglio, sfuggendo a gran parte dei sistemi radar attualmente in uso. La guida a distanza può trovarsi anche a decine di migliaia di chilometri dal velivolo e permette poi di sostituire più volte, durante la missione, chi tiene i comandi, mantenendo il controllore remoto sempre vigile e riposato, cosa impossibile per un velivolo che rechi il pilota a bordo. Ma, soprattutto, l’autonomia di alcuni di questi mezzi raggiunge ormai le 60 ore di volo continuo ( così il modello cinese CH-5 “Rainbow”), consentendo al velivolo di restare a lungo in agguato, finché il bersaglio non si presenti in condizioni ottimali;.il “Global Hawk” della Northrop Grumman, divenuto il principale aereo-spia americano,ha un raggio d’azione che arriva addirittura a 23mila chilometri. Il già ricordato basso costo di alcuni modelli più semplici rende infine i droni “spendibili” consentendo di potenziare l’effetto dell’attacco con il sacrificio del velivolo scagliato sull’obiettivo.


Due recenti episodi hanno clamorosamente confermato l’eccezionale efficacia bellica degli aerei senza pilota.
Il primo è il duplice attacco del 14 settembre scorso, contro Hijra Khurais, uno dei maggiori giacimenti di petrolio dell’Arabia Saudita, e Abqaiq, il più grande impianto mondiale di stabilizzazione del greggio. I due siti sono stati colpiti da 18 droni oltre che da missili da crociera. A lanciarli sarebbero stati i guerriglieri yemeniti Houthi (con la probabile regia dell’Iran, che sembra aver fornito i droni stessi) i quali da oltre un decennio combattono contro Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. L’attacco ha causato colossali incendi, con una perdita per i sauditi stimata in 4-500 milioni di dollari al giorno, oltre alla spesa per ripristinare gli impianti distrutti.
Il secondo episodio è l’eliminazione “chirurgica” del generale iraniano Qassem Soleimani, capo della forza militare d’élite al-Quds, colpito il 3 gennaio, insieme al vicecomandante delle milizie sciite irachene nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, da un velivolo americano senza pilota. Questo raid - al di là delle pur rilevanti riserve di opportunità politica, nell’attuale scenario mediorientale, e di legittimità giuridica sul piano del diritto internazionale - dimostra come un solo drone (il cui costo, in questo caso è stimato in 16 milioni di dollari), possa conseguire un risultato altrimenti realizzabile soltanto ricorrendo a un attacco convenzionale massiccio, con inevitabili e assai più ampi danni collaterali.

L’ottimo rapporto costo/efficacia, inoltre, ha fatto sì che il drone sia diventato l’arma per eccellenza nella lotta contro il terrorismo (Figura 3), soprattutto per Israele e gli Stati Uniti. Il primo è il Paese che ha codificato, negli anni 80 del secolo scorso, l’uso degli aerei senza pilota per combattere la resistenza palestinese lungo le frontiere con il Libano, la Siria e la striscia di Gaza. Tanto che quasi l’80% delle ore di volo effettuate dall’aviazione israeliana è ormai svolto da aerei senza pilota.
Il secondo è il Paese che ha trasformato il drone nella punta di lancia del proprio apparato bellico. Colpire dal cielo con la sola perdita di un velivolo di costo contenuto risparmia la vita di molti. Analogo principio fu applicato dal presidente Obama, in Afghanistan e Iraq: ritirò gran parte delle truppe americane inviate nei due Paesi, moltiplicando per nove da 52 a oltre 450 il numero dei raid anti-terrorismo svolti da droni su un arco di Paesi che è andato dal Mali alla Somalia, dallo Yemen al Pakistan:.
E Donald Trump, non è da meno.
L’impiego antiterroristico dei droni ha fatto sì che proprio i principali gruppi terroristici s’interessassero al loro impiego, che si è rivelato congegnale alla loro metodologia di lotta sia per la facilità di reperire sul mercato internazionale modelli civili, facilmente riconvertibili, a prezzi bassissimi (i più economici, dotati di una telecamera, si trovano in vendita su internet a partire da 50 dollari), sia per la semplicità del loro uso che richiede soprattutto furtività e discrezione. Oltre ai già citati Houti, va ricordato come l’Isis abbia fatto un ricorso sistematico a droni tanto da osservazione quanto da attacco. Nel gennaio 2017 ben 13 di questi velivoli tentarono di colpire la base aerea russa di Hmeymim, presso Tartus, in Siria, ma furono tutti abbattuti dalla difesa contraerea prima di raggiungere il loro obiettivo. E non c’è stato in pratica attacco, suicida o convenzionale, condotto dall’Isis che non sia stato preceduto da una ricognizione dell’obiettivo svolta da piccoli droni da poche decine di dollari. Anche il movimento sciita libanese Hezbollah si è dotato di alcuni droni da osservazione di derivazione iraniana, usati contro al-Qaeda e per monitorare i confini con Israele; Hamas ha compiuto qualche tentativo di utilizzare piccoli esemplari, presto abbattuti da Israele.

Non sono inoltre mancati gli sforzi per cercare di ripetere, in chiave terroristica, il modello delle “eliminazioni mirate” adottato dagli Stati Uniti. Nel gennaio 2019 un drone imbottito di esplosivo lanciato dagli Houthi colpì alcuni esponenti politici rivali che assistevano a una parata in una base aerea yemenita presso Aden, uccidendo sei persone, tra cui il capo dell’intelligence militare del governo ufficiale. Altre 32 persero la vita sempre ad Aden, nell’agosto successivo, in circostanze molto simili, Anche l’America Latina ha conosciuto un tentativo analogo: nell’agosto 2018 - ancora una volta durante una parata militare - due piccoli droni di fabbricazione cinese del costo di 4.500 dollari l’uno, esplosero nelle vicinanze della tribuna che ospitava il presidente venezuelano Nicolas Maduro, ferendo una decina di soldati.
Come per tutti gli armamenti di successo, anche il drone ha rapidamente stimolato la ricerca di adeguate contromisure. Le più comuni riguardano il tentativo d’interferire nella trasmissione dei dati di volo alterandone o interrompendone i segnali di comando. Ciò può comportare la perdita del drone ma anche, nel più riuscito dei casi, la sua cattura, se si è in grado di far riconoscere come “amiche” delle istruzioni di volo invece ostili. È quanto accadde nel dicembre 2011 a un drone americano RQ-170 Sentinel, : l’Iran riuscì a deviare il suo volo lungo i confini orientali del Paese, inducendolo ad atterrare intatto nel proprio territorio. La cattura di questo drone ha rappresentato una perdita assai grave per gli Usa e, di riflesso, un successo clamoroso per l’Iran, che l’ha rapidamente replicato in vari esemplari migliorando fortemente il proprio livello tecnologico in questo settore.
Le speranze più fondate di combattere i droni sembrano comunque risiedere nell’utilizzo di raggi laser, in cui ancora Israele è all’avanguardia con un sistema mobile chiamato Drone Dome. Secondo fonti del suo esercito, ormai quasi la totalità dei piccoli mezzi lanciati da Hamas è inesorabilmente abbattuta con questo mezzo e anche i droni più grandi - in genere inviati da Hetzbollah con regia iraniana - che volano a quote più elevate, possono essere danneggiati quanto basta per renderli ingovernabili. Questi successi hanno promosso la diffusione di Drone Dome sia in Gran Bretagna, a protezione dell’aeroporto londinese di Gatwick, dopo che la presenza di alcuni droni sospetti aveva provocato, nel dicembre 2018, la cancellazione precauzionale di un migliaio di voli civili e la paralisi dello scalo, sia in Argentina, in occasione del vertice del G-20, sempre nel dicembre 2018.
Sulla stessa strada sono avviati anche gli Stati Uniti con progetto HELIOS (High Energy Laser and Integrated Optical-dazzler with Surveillance), un’arma da 60 kilowatt installata sperimentalmente nel 2019 sul cacciatorpediniere “Preble”. La potenza di questo laser sarà gradualmente elevata fino a 500 kilowatt, un’energia sufficiente ad abbattere perfino missili di grandi dimensioni, con un vantaggio decisivo nei costi di gestione: un “colpo” di HELIOS pare costi appena 59 centesimi di dollaro, rispetto alle molte centinaia di migliaia di dollari richieste da un missile anti-aereo.

La loro efficacia ha fatto sì che entrati da un paio di decenni negli arsenali delle principali potenze mondiali, i droni si stiano diffondendo rapidamente anche presso Paesi con limitate capacità militari e, data la loro relativa semplicità di costruzione e d’impiego, vantino un numero di fabbricanti in veloce aumento. Secondo un’indagine condotta nel 2018 dagli Stati Uniti, 95 Paesi possiedono droni militari (erano 60 nel 2010), per un totale di ben 27mila mezzi di 171 tipologie differenti (anche se in gran parte si tratta di velivoli per ricognizione, quindi privi di capacità di attacco). Il giro d’affari annuo si prevede passi dagli attuali 10 miliardi circa di dollari ai 13 miliardi del 2027, per un valore globale di spesa, nel decennio 2018-2027, stimato in 83 miliardi (Figura 4). Che saliranno a 112 miliardi tenendo conto delle onerose spese in Ricerca e Sviluppo.
A queste cifre occorre aggiungere gli sviluppi, altrettanto vistosi, del mercato civile. Uno studio condotto lo scorso anno da Drone Industry Insight prevede, per il mercato globale dei velivoli senza pilota, una fortissima crescita nei prossimi anni. Nel 2024 l’industria globale del settore varrà oltre 43 miliardi di dollari, dopo aver già generato 14,1 miliardi di dollari nel 2018, con un tasso di crescita media annua del 20,5% (Figura 5). Accanto ai comparti civili finora di maggior successo - dalle riprese fotografiche dall’alto al controllo del territorio, dalla protezione civile al monitoraggio della produzione agricola - è atteso un vero e proprio boom nel campo della consegna a domicilio di piccoli carichi, come un plico di libri o la sporta della spesa. Il governo indiano, in questi giorni drammatici, ne ha deciso l’utilizzo per la disinfezione di aree contaminate, la sorveglianza della popolazione e la consegna di medicinali, ma gli esmpi sono ormai numerosi.

L’Italia, in questo campo, solo negli ultimi anni sta cominciando a trovare … spazio. Secondo una ricerca presentata in febbraio dall’Osservatorio Droni della School of Management del Politecnico di Milano, il fatturato del settore nel 2018 era stimato in 100 milioni di euro. Le imprese nazionali che vi operano sono circa 700, di cui l’86% costituto da aziende che offrono servizi a terzi utilizzando velivoli propri o a noleggio. Le aziende utilizzatrici che hanno richiesto all’Enac (l’Ente nazionale per l’aviazione civile) l’autorizzazione per svolgere attività con i droni a fine 2019 erano 650, mentre i mezzi registrati, tra il gennaio 2016 e il dicembre 2019, erano 13.479, con un incremento annuo del 13%.

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