Differenti modelli europei di welfare, indipendentemente dalle loro caratteristiche, non sono riusciti a evitare lo sviluppo di disuguaglianze e conflitti sociali.

Negli ultimi decenni, in diverse città europee si è assisitito a episodi di disordine urbano, in alcuni casi sotto forma di proteste più o meno pacifiche, in altri di vere e proprie rivolte. Questo articolo analizza gli eventi accaduti a Parigi (2005), Londra (2011) e Stoccolma (2013) dal punto di vista delle politiche sociali, a partire da tre elementi che sembrano accomunare tutti e tre gli episodi citati: il luogo, l’età dei rivoltosi e la loro appartenenza etnica.
I tre paesi sono molto differenti tra loro quanto a modello sociale, assistenziale ed economico, il che genera domande interessanti: perché le rivolte seguono le stesse dinamiche in paesi così dissimili? Come si può raggiungere una maggiore coesione sociale?


I tre eventi

Husby, Stoccolma, maggio 2013. Un uomo di 69 anni di origine portoghese viene ucciso a seguito dell’irruzione della polizia nel suo appartamento. Il gruppo di attivisti Megafonen organizza una protesta pacifica per chiedere chiarimenti sulle cause della morte dell'uomo. L’evento scatena una serie di disordini che si diffondono da Husby in tutta la Svezia dal 19 al 27 maggio. Gli scontri terminano con un bilancio di circa 150 veicoli in fiamme e diversi edifici danneggiati, per un totale di quasi 63 milioni di Corone Svedesi di danni (circa 6,5 milioni di euro).
Tottenham, Londra, agosto 2011. Un ventinovenne di colore, Mark Duggan, viene ucciso dalla polizia durante un controllo a un posto di blocco. I suoi amici organizzano una protesta pacifica chiedendo di chiarire le cause della sua morte. Dal 6 all’11 agosto si verificano rivolte nel centro di Londra e nel resto del Paese. Le cifre ufficiali parlano di 5.175 reati e quattro vittime.
Clichy-sous-Bois, Parigi, ottobre-novembre 2005. Bouna Traoré (15) e Zyed Benna (17) muoiono folgorati in una cabina elettrica dove si erano nascosti per sfuggire ad una pattuglia della polizia. Per 20 giorni a Parigi e in altre 274 città francesi si verificano scontri che portano a 9.000 veicoli incendiati, decine di edifici danneggiati, due vittime e un danno complessivo di oltre 200 milioni di euro.

La frattura tra centro e periferia
Questi episodi sono circoscritti dal punto di vista geografico e sociale: scoppiati nella periferia di una capitale, si sono poi diffusi nel resto della città e del paese. In tutti e tre i casi, i quartieri in cui gli scontri hanno preso avvio presentano livelli di disoccupazione, composizione etnica, deprivazione abitativa, criminalità, ecc. molto diversi dal resto del paese, tanto che si parla spesso di queste zone come di “un mondo a parte” (si vedano ad esempio Figura 1- tasso di disoccupazione - e Figura 2- livello di scolarità). In origine costruite per accogliere temporaneamente operai emigrati che, grazie al proprio lavoro, col passare degli anni si sarebbero trasferiti in quartieri più agiati, con la deindustrializzazione le periferie sono diventate una condizione permanente per molti dei loro abitanti, che si sentono oggi privati di ogni prospettiva di mobilità - geografica e sociale. Questa percezione è diffusa soprattutto tra i più giovani. In effetti, il luogo dove viviamo influisce sulle nostre opportunità e condizioni di vita. La cattiva reputazione di un quartiere può ad esempio compromettere l'apertura di nuove attività commerciali e persino contribuire a costruire l'identità di chi vi abita – i rivoltosi sono accomunati da un’"identità di periferia" da cui deriva quella mentalità “noi (della periferia) contro loro (il resto della società)” tipica delle guerriglie urbane.

La frattura generazionale
I rivoltosi sono soprattutto giovani, spesso minorenni. A causa di una combinazione di fattori quali disoccupazione, aumento dei prezzi delle abitazioni e tagli alle prestazioni di welfare, in ciascuno dei casi le generazioni più giovani risultano le più colpite dall’attuale crisi economica e dai cambiamenti delle strutture sociali e familiari (Figura 3). Questa tendenza emerge soprattutto nelle periferie, dove peraltro vi è un’alta concentrazione di abitanti sotto i 30 anni (Figura 4).
Da notare comunque che povertà e mancanza di opportunità non sono le sole cause delle rivolte. Perché, ad esempio, lo scontento sfocia nei disordini urbani, spesso meri atti vandalici, anziché nella protesta politica? Uno dei motivi può essere ricondotto all’assenza di una "cultura della legalità". Molti dei rivoltosi hanno sulle spalle diffide o condanne. Le periferie dove sono avvenuti gli scontri sono contraddistinte da un elevato tasso di delinquenza giovanile, spesso alimentata da bande di giovani che prendono il controllo delle strade. Un altro motivo è la perdita di fiducia, da parte dei giovani, nelle istituzioni e nella loro capacità di cambiare la società - "povertà, disoccupazione, mancanza di fiducia nel governo. I giovani si sentono delusi, non hanno alcuna speranza", racconta un rapporto di North London Citizens (2012) che analizza gli eventi di Londra.

La frattura etnica
Il terzo elemento analizzato è l’appartenenza etnica dei rivoltosi. Tutte le vittime la cui morte ha innescato l'esplosione delle rivolte sono immigrati, di origine straniera o appartenenti a una minoranza etnica: Benna e Traoré erano di origini maliane e tunisine, Duggan era di colore, l’uomo ucciso a Stoccolma era portoghese. Inoltre, le periferie dove si sono verificati questi incidenti sono altamente multiculturali (Figura 5).
Tuttavia, mentre gli immigrati di prima e seconda generazione sono la componente più numerosa dei rivoltosi in Francia e Svezia, nel Regno Unito le statistiche relative all’origine etnica variano significativamente e l’appartenenza etnica non è considerata tra le ragioni principali degli scontri, anche se le minoranze lamentano molestie e provocazioni da parte della polizia. Per capire le differenze tra i casi analizzati si deve tenere conto del fatto che questi eventi si sono verificati in fasi diverse del percorso immigrazione/integrazione. Il caso francese è il più complesso. Anche se qui l'immigrazione è un fenomeno storico, secondo molti studiosi gli immigrati non si sono bene integrati nella comunità francese. Inoltre, le persone di origine straniera sono per lo più musulmane e la loro integrazione va contestualizzata nel più generale scontro tra Islam e Occidente. Nei mesi precedenti alle rivolte infatti diversi episodi avevano esacerbato le tensioni tra i musulmani e la comunità francese locale, come ad esempio le dichiarazioni degli islamici radicali, le dichiarazioni dell’allora Ministro dell’Interno Sarkozy e di altri politici circa le banlieues e i loro abitanti, i maltrattamenti da parte della polizia e il lancio di una granata sulla Moschea di Clichy. In Svezia l'immigrazione è un fenomeno recente ma in rapida crescita e, sebbene gli immigrati trovino condizioni migliori rispetto a molti altri paesi europei, risultano sempre meno accettati dagli Svedesi, che hanno iniziato a chiedersi se il loro modello sociale possa sopravvivere con un numero così elevato di persone in continuo arrivo. Queste preoccupazioni sono almeno in parte responsabili della crescita dei partiti xenofobi, come Sverigedemokraterna, passata dal 2,9% del 2006 al 12,9% nel 2014.
Dunque da un lato cresce l’insofferenza verso la popolazione immigrata, dall'altro aumenta la quota di immigrati di prima e seconda generazione che spesso si trovano ai margini della società, con conseguenze potenzialmente pericolose per la coesione sociale europea.

Stato sociale e conflitto sociale
I tre casi mostrano evidenti analogie, pur riferendosi a tre diversi modelli di welfare: neo-liberale nel Regno Unito, conservatore-corporativo in Francia e socialdemocratico in Svezia. Il Regno Unito ha una lunga storia di conflitti sociali derivante da diversi fattori tra cui un sistema marcatamente industriale, una diffusa cultura conservatrice, una società estremamente multiculturale e un modello di welfare "neo-liberale" che non riesce ad attutire adeguatamente gli effetti dell’andamento del mercato e dell’economia.
Anche la Francia ha una lunga esperienza di conflitto sociale. Il suo sistema di welfare è classificato come conservatore-corporativo e - dal momento che i livelli delle prestazioni sociali sono correlati alla carriera lavorativa, ai redditi e alla situazione familiare – genera notevoli diseguaglianze tra insider e outsider.
Nella Svezia social-democratica il conflitto sociale è molto meno diffuso grazie a un’efficace "terza via" in grado di perseguire livelli soddisfacenti di eguaglianza e integrazione. Tuttavia, dalla crisi degli anni ’90, il welfare svedese è stato ridimensionato e maggiormente orientato al mercato e, nonostante lo standard di vita rimanga tra i migliori d'Europa, la Svezia è il paese in cui i divari tra i redditi si sono maggiormente ampliati dal 1995 in poi (OCSE).
Lungi dal produrre spiegazioni semplicistiche, appare comunque evidente che il conflitto sociale stia interessando diversi modelli sociali. Indipendentemente dalle loro caratteristiche in termini di generosità e universalità, nessuno dei sistemi considerati è infatti riuscito a evitare lo sviluppo di disuguaglianze e conflitto sociale. Inoltre, i tagli alla spesa sociale si riversano spesso sulle periferie, dove già si registrano i maggiori livelli d’indigenza.

Cosa possiamo imparare?
Dall'analisi compiuta si può desumere che i rivoltosi costituiscono una porzione di società che vive in una sorta di "limbo": non studiano, non lavorano, non sono stranieri ma non si sentono nemmeno cittadini del paese in cui vivono. Tuttavia, l’emarginazione non è l'unica spiegazione e le rivolte non possono essere considerate semplici proteste.
Inoltre, l'analisi mette in evidenza che nelle società contemporanee si stanno ampliando numerose spaccature: centro-periferia, giovani-adulti, ricchi-poveri, migranti-popolazione locale. Anche se non è possibile ricondurre questa tendenza alla polarizzazione ad un'unica motivazione, un fattore significativo sembra essere il ridimensionamento dello stato sociale, della sua capacità di bilanciare le disuguaglianze (sociali, economiche e geografiche) e di mitigare l'impatto delle crisi economiche. Per far fronte a questi problemi è necessario sia investire in programmi che integrino diversi settori di intervento (ad esempio urbanistica, housing, occupazione, povertà, istruzione) sia migliorare l’inclusività delle istituzioni democratiche. Questo potrebbe aiutare a fronteggiare due tra le più urgenti minacce alla stabilità dell’Europa: i movimenti xenofobi populisti, alimentati dal malcontento sociale, e la radicalizzazione religiosa, che spesso fa proseliti proprio in queste periferie.

 

Traduzione dall'originale inglese a cura di Elisa Carrettoni.

Versione ridotta del paper Does the welfare state play a role in urban unrest?
realizzato per il progetto Percorsi di Secondo Welfare