Sul controllo delle terre rare, materie prime d’importanza cruciale per le industrie più avanzate, si sta combattendo una lotta senza esclusione di colpi a livello mondiale

Sul controllo delle terre rare, materie prime d’importanza cruciale per le industrie più avanzate, si sta combattendo una lotta senza esclusione di colpi a livello mondiale. O, per meglio dire, una lotta con cui il resto del mondo sta cercando di limitare il quasi monopolio produttivo finora detenuto dalla Cina (Figura 1).
Già nel 1992 l’allora leader cinese Deng Xiaoping ne aveva previsto l’enorme importanza futura, sostenendo che esse avrebbero presto avuto lo stesso valore strategico del greggio: «Se il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare». A distanza di quasi 30 anni la sua profezia sembra essersi largamente avverata.

Ma cosa sono le terre rare (Figura 2) ? Chiamate più esattamente lantanidi, esse formano un gruppo di 17 elementi, in natura quasi sempre associati in piccole quantità ad altri minerali, che sono presto diventati indispensabili in un numero sempre più vasto di settori produttivi industriali ad alta tecnologia grazie alla loro capacità di formare leghe con proprietà straordinarie, specie in campo magnetico. Senza di esse, gran parte dell’informatica e dell’elettronica avanzata non esisterebbe, tanto che sono state anche definite le “vitamine della chimica”
Alcuni esempi chiariscono meglio il problema. L'europio serve per realizzare gli schermi televisivi di ultima generazione, il cerio e il lantanio sono componenti essenziali delle marmitte catalitiche delle automobili, il disprosio è presente negli hard disk dei computer, nei cellulari e nei grandi magneti delle turbine eoliche. Gli altri vengono utilizzati per produrre semiconduttori, tubi a luce fluorescente, compact disk, carte di credito, fibre ottiche, laser, monitor, radar e sistemi di navigazione aerea, lenti per uso astronomico, fino agli onnipresenti telefoni cellulari e a quasi tutto l’ambito della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche e ibride (Figura 3).
Ma è soprattutto in campo militare che il loro impiego - dai missili da crociera alle bombe “intelligenti”, alla vastissima gamma di apparecchiature per visione notturna e ai radar ad apertura sintetica e a quelli fotonici di ultima generazione - è ormai indispensabile. Due esempi illustrano bene la sensibilità statunitense al problema:
• l’aereo da caccia di V generazione Lockheed Martin F-35, ritenuto il più avanzato al mondo, contiene ben 417 chili di terre rare,
• il sistema di navigazione e posizionamento del carro armato Abrams M1A2 utilizza magneti permanenti al samario-cobalto, il primo elemento dei quali è un monopolio produttivo cinese quasi assoluto.


Che il controllo di questi minerali sia così conteso a livello mondiale è quindi ovvio. Specie se si considera che, come si è accennato, il mercato è finito nelle mani di Pechino: nell’ultimo decennio la sua quota produttiva ha superato il 90 per cento del totale mondiale, anche se nel 2018 l’estrazione cinese è stata “solo” di 120mila tonnellate, su una produzione globale di 166mila, pari al 72 per cento (Figura 4 e Figura 5). Cosa ancor più preoccupante, i dirigenti di Pechino paiono pronti ad usare le “terre rare” come una sorta di “arma nucleare commerciale” , specie nell’attuale conflitto a colpi di rialzo delle tariffe doganali scatenato dalla presidenza Trump, a cui la Cina ha finora risposto in misura puntuale ma piuttosto prudente.
In seguito all’ennesimo aumento, il 10 maggio 2019, dal 10 al 25 per cento dei dazi statunitensi su 200 miliardi di dollari di beni 'made in China', Pechino, pochi giorni dopo, ha annunciato che avrebbe adottato le "necessarie contromisure": dal 1° giugno sarebbero stati rialzati al 25% i dazi su 2.493 beni ‘made in USA’, per un valore di 60 miliardi di dollari. Ma, soprattutto, ha brandito per la prima volta in forma esplicita la minaccia d’interdire agli Stati Uniti l’uso delle terre rare.
Il Global Times (tabloid cinese specializzato in politica estera e controllato dal Renmin Ribao, il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito Comunista cinese), il 16 maggio 2109 ha pubblicato nella sezione economica un articolo dal titolo molto eloquente: «Gli Stati Uniti per le terre rare hanno bisogno di un asso che è nelle mani di Pechino». In esso si ricordava come Washington abbia minacciato aumenti tariffari sostanzialmente su tutte le importazioni dalla Cina, eccetto le terre rare. Perché? La risposta è facile: senza una fornitura interna affidabile, gli Stati Uniti possono contare soltanto sulle terre rare cinesi per alimentare le proprie industrie d’importanza strategica.
Se anche gli USA decidessero di riattivare in forma accelerata la loro estrazione di terre rare per ridurre la dipendenza dal mercato cinese - sostiene il quotidiano cinese - per farlo occorrerebbero diversi anni, un tempo sufficientemente lungo «perché la Cina vinca una guerra commerciale contro gli Stati Uniti, durante la quale il monopolio cinese sulla produzione di terre rare ci aiuterà a controllare la linfa vitale del settore high-tech statunitense».

La Cina potrebbe sfruttare in vari modi questo asso nella manica: adottando un divieto totale o selettivo di esportare “terre rare” verso gli Usa; oppure aumentandone fortemente il prezzo, che è abbastanza stabile da un quadriennio, malgrado la domanda in continua crescita (Figura 6). come ritorsione ai dazi imposti sui prodotti cinesi. O,ancora, con il pretesto di frenare le cospicue esportazioni illegali, adottando un meccanismo di “tracciamento” dei minerali collegato a un rigido sistema di autorizzazioni dell’export volta per volta. In ogni caso, considerando che «a breve termine gli utenti statunitensi non saranno in grado di trovare alternative, dovranno accettare prezzi più alti». La Cina, concludeva il Global Times, probabilmente non arriverà ad adottare il «divieto totale delle esportazioni per evitare un’eccessiva tensione con gli Stati Uniti, ma non trascurerà l’opportunità di salvaguardare e massimizzare i propri interessi».
Il 29 maggio 2019 l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha ribadito il più fermo monito cinese con un editoriale, firmato “An Bei”, che fin dal titolo suonava intimidatorio per Washington: «Non osate pensare di usare prodotti fatti con “terre rare” per uccidere la crescita della Cina»! Il contenuto era ancor più esplicito: «Le “terre rare” saranno usate come arma di ritorsione contro il divieto statunitense? La risposta è semplice … Gli Stati Uniti hanno sopravvalutato la loro capacità di manipolare la catena di approvvigionamento mondiale (…) Gli Stati Uniti se ne pentiranno quando si sveglieranno (…) Consigliamo loro di non sottovalutare la capacità della Cina di proteggere il proprio diritto a svilupparsi e i suoi interessi . Non dite che non vi avevamo avvertito».
Che la Cina faccia sul serio, in fatto di uso politico della sua posizione dominante per le “terre rare”, l’aveva peraltro dimostrato fin dal 2010, quando ridusse fortemente la loro esportazione verso il Giappone dopo lo scoppio del contenzioso sul possesso dell’arcipelago Senkaku/Diaoyu, occupato di fatto da Tokyo ma reclamato da Pechino, le cui acque racchiuderebbero ingenti risorse d’idrocarburi. Quando il capitano di un peschereccio cinese fu arrestato dalla marina nipponica per aver sconfinato nelle proprie acque territoriali, bastarono alcuni mesi di drastica riduzione delle forniture di lantanidi per mettere in difficoltà l’intero settore elettronico giapponese, inducendo Tokyo ad attenuare le sue posizioni nel contenzioso territoriale.

Sempre nel 2010 i lantanidi furono al centro di una controversia commerciale internazionale, causata dalla decisione cinese di ridurre del 40 per cento le proprie quote di esportazione, mossa giustificata con ragioni di salvaguardia dell’ambiente. Ciò determinò un rapido aumento dei prezzi globali e crescenti timori da parte dei Paesi occidentali, culminati nel 2012 con la sollevazione del caso dinnanzi all’Organo di Conciliazione (Dispute Settlement Body) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio da parte degli Stati Uniti, affiancati da Giappone e Unione Europea.
L’Organo di Conciliazione emise il suo verdetto nel 2014: pur riconoscendo la possibilità, da parte degli Stati membri, di applicare restrizioni determinate da motivi ambientali, contestò alla Cina la violazione del principio di non discriminazione, visto che il taglio delle quote all’export garantiva un maggior accesso al mercato e prezzi più favorevoli per le imprese nazionali cinesi. Secondo Alberto Belladonna, docente di geo-economia e commercio internazionale in Guatemala , «Pechino, pur applicando la sentenza ed eliminando le quote stabilite in precedenza, respinse con fermezza le accuse al mittente, sottolineando non solo il fatto di aver superato le quote di estrazione fissate e il crescente impatto ambientale derivante, ma anche la “ipocrisia” di chi, senza privarsi delle proprie riserve, vuole continuare a sfruttare in modo economico quelle cinesi».
L’atteggiamento cinese - afferma ancora Belladonna - nasconde però una duplice ambizione. In primo luogo Pechino, attraverso queste limitazioni, tenta di spingere le industrie occidentali tecnologicamente più avanzate a trasferirsi in Cina. In secondo luogo, queste misure appaiono funzionali a favorire lo sviluppo delle imprese cinesi secondo il piano “Made in China 2025”, varato dal premier Li Keqiang nel 2015. Si tratta di un disegno ambizioso, che mira a far progredire la produzione cinese nella catena del valore, concentrandola sempre di più nei settori industriali ad alto valore aggiunto. In particolare, esso ha posto l’obiettivo di riuscire a produrre localmente, entro il 2025, il 70 per cento dei materiali definiti strategici per l‘industria del futuro, facendo della Cina un paese leader nelle produzioni ad alto contenuto tecnologico.

Saremo dunque costretti a veder trionfare la tecnologia cinese grazie anche al controllo monopolistico delle terre rare? In realtà, la situazione è più complessa di quanto appaia a prima vista. Intanto, se la produzione di lantanidi, come abbiamo ricordato, è attualmente pressoché un monopolio cinese, il discorso cambia se si considerano le riserve accertate a livello mondiale. Definite dall’United States Geological Survey (l’agenzia scientifica del Governo americano che studia le risorse naturali proprie e globali) come “moderatamente abbondanti”, esse ammontano a un totale di 116,47 milioni di tonnellate. E sono distribuite con una certa omogeneità. Di queste, infatti, la Cina controlla appena 44 milioni (37,7 per cento), seguita dal Brasile con 22 milioni (18,8 per cento), dal Vietnam con 20 milioni circa (17,1 per cento), dalla Russia con 17 milioni (14,6 per cento) e dall’India con 6,9 milioni (6,5 per cento).
Questi valori delineano, in prospettiva, uno scenario assai diverso dall’attuale controllo assoluto cinese: per l’Occidente, Stati Uniti in testa (che dispongono di soli1,9 milioni di tonnellate), sarà possibile reperire altri produttori senza dover sottostare ai possibili ricatti di Pechino. Certo occorrerà del tempo per mettere in produzione le altre riserve conosciute, ma il mondo non è dinnanzi a un ricatto senza alternative. Inoltre, pur considerando il balzo produttivo a oltre 166mila tonnellate (+28,3 per cento) registrato nel 2018, il rapporto con le riserve di quanto estratto annualmente risulta collocato al confortante livello di ben 700 volte. Ciò significa che, ai livelli attuali di estrazione, le terre rare … non appaiono certo più tali, se sono destinate a durare ben sette secoli!
La loro relativa rarità è legata soprattutto al fatto che, per ricavare tali elementi, occorre un’estesa attività estrattiva, con costi elevati in termini sia economici sia ambientali, in parte dovuti anche alla frequente radioattività degli scarti derivanti della loro lavorazione. L’ampia disponibilità (oltre un terzo degli attuali giacimenti conosciuti), i bassi costi della manodopera e la scarsa attenzione (almeno finora) alla protezione ambientale hanno però consentito alla Cina di sbaragliare, di fatto, ogni concorrenza e di controllare, secondo la United States Geological Survey, tra l’85% e il 95% dell’offerta mondiale (Figura 7) grazie all’importazione delle terre rare straniere da trattare, quelle statunitensi in testa: quasi tutta la produzione del giacimento californiano di Mountain Pass, ad esempio, è avviata in Cina per la raffinazione.