L'anomala estensione della crisi ha fatto emergere le debolezze del sistema economico italiano con conseguenti effetti sociali, in particolare quelli sull'occupazione, che stanno raggiungendo livelli critici per una democrazia contemporanea. In realtà, ad uno sguardo più distaccato, i mali del mercato del lavoro italiano non sono affatto recenti ma affondano le loro radici in un passato lontano.

La fase recessiva conclamata in Italia nella seconda metà del 2008 è, a tutti gli effetti, la più lunga della storia repubblicana e anche oltre, se escludiamo eventi non classificabili come i due conflitti mondiali. La “lunga durata”, più dell’intensità, è quindi la dimensione cui prestare attenzione per comprenderne le implicazioni profonde. L’anomala estensione nel tempo ha fatto emergere le debolezze dei principali istituti del sistema economico italiano – pubblica amministrazione, sistema bancario, buona parte dell’apparato produttivo – e ha determinato alcuni effetti sociali, in particolare quelli sull’occupazione, che stanno raggiungendo livelli critici per una democrazia contemporanea. In realtà, ad uno sguardo più distaccato, i mali del mercato del lavoro italiano non sono affatto recenti ma affondano le loro radici in un passato lontano. Obiettivo di questa scheda è provare a mostrare alcuni di questi mali concentrando l’attenzione sulla caratteristica essenziale di qualsiasi mercato: il rapporto tra domanda e offerta. Ne emergerà un circolo vizioso che, incontrato il fronte del “double dip”, la doppia recessione, sta generando una “tempesta perfetta” in cui i diversi fattori collidono e si condizionano in una maniera tale da sollevare il dubbio che la crisi occupazionale non sia una conseguenza ma bensì una causa dello stato in cui versa il Paese.


La crisi dell'offerta

Nella ricostruzione di questa dinamica circolare, il primo fattore cui prestare attenzione non è la crisi della domanda di lavoro, di cui si dirà oltre, ma bensì la crisi dell’offerta. Se utilizziamo i dati relativi al livello di qualificazione della popolazione come indicatore per valutare la qualità del “bene lavoro” a cui le organizzazioni possono fare ricorso per realizzare prodotti e servizi, l’Italia si colloca, tra i paesi OCSE, alle ultime posizioni. Secondo i dati pubblicati nel 2014 (Figura 1), soltanto il 15% della popolazione in età lavorativa ha conseguito un titolo di studio terziario (una laurea corrispondente ai livelli 5 e 6 dell’International Standard Classification of Education), percentuale che sale al 21% se limitiamo l’analisi alle persone di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Solo Brasile e Turchia mostrano dati peggiori, mentre sono assai distanti i nostri omologhi europei per dimensione, visto che la Germania si attesta al 28%, la Francia al 30%, la Spagna al 32% e il Regno Unito al 40%. Non stupisce invece che al vertice della classifica si trovino i due principali produttori di hardware tecnologico, Giappone e Corea del Sud, che raggiungono rispettivamente il 46% e il 40% con prospettive di significativo aumento visto che i lavoratori più giovani raggiungono già oggi il 59% e il 64%. In realtà anche i dati relativi all’istruzione secondaria segnalano un ritardo: la quota di adulti in età lavorativa che non la raggiunge è pari al 29% contro un media dei paesi OCSE del 18%. Lo stock di “capitale umano” e di competenze disponibili nelle forze di lavoro non sembra quindi essere in grado di supportare il posizionamento dell’Italia nella produzione (e forse anche nel consumo) di quei beni e attività ad alto valore aggiunto cui un’economia matura dovrebbe puntare.

Problemi di mismatch

Il basso livello di qualificazione delle forze di lavoro è uno dei fattori che maggiormente incidono nel mismatch tra domanda e offerta, quella condizione per cui le persone occupano delle posizioni che non corrispondono al livello delle competenze (per eccesso o per difetto) o ai contenuti che hanno accumulato nel percorso di apprendimento. Un’analisi sperimentale pubblicata dall’OCSE nell’ultimo Employment Oulook ha rilevato nei principali paesi aderenti il livello di mismatch dei giovani tra i 16 e i 29 anni tenendo conto del livello di qualificazione, delle competenze alfabetiche e dell’ambito di studi (Figura 2), collocando l’Italia tra i paesi in cui il problema è più intenso. Secondo questa stima lo scarto interesserebbe, considerati tutti i fattori, il 70% dei giovani occupati, un valore che colloca il Paese nelle prime posizioni della graduatoria. Le origini del fenomeno affondano principalmente nella definizione dei percorsi di istruzione, nei processi di orientamento e nella difficoltà di definire efficaci schemi di alternanza tra scuola e lavoro, tuttavia è chiaro come questo elemento si innesti nell’economia di questa riflessione: un’offerta di lavoro tutto sommato scadente viene collocata in posizioni inadeguate con inevitabili implicazioni per la produttività delle imprese e per la vita delle persone che rischiano di restare intrappolate in meccanismi di path dependence difficili da scardinare.

I rischi dell’informalità

La non corretta allocazione delle competenze non è tuttavia da ascrivere alle sole lacune dei percorsi di education. Un altro fattore, meno considerato, riguarda le modalità con cui si realizzano le procedure di reclutamento del personale. Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato, sotto questo aspetto, da elevati livelli di informalità, prassi in cui le imprese non codificano, in parte o del tutto, delle procedure di ricerca e selezione ma ricorrono piuttosto alle reti sociali di cui dispongono. Tale diffusione di pratiche non formali è da attribuire alle caratteristiche dell’apparato produttivo che occupa una percentuale significativa di persone in imprese di piccole e medie dimensioni generalmente sprovviste di specifiche funzioni di gestione del personale. Secondo gli ultimi dati pubblicati da Eurostat (Figura 3) l’Italia si colloca infatti ai vertici della classifica continentale per quota di addetti impiegati nelle PMI con un’incidenza pari all’80% dei dipendenti di imprese private, più della Spagna (75%) e molto di più della Francia (63%), della Germania (63%) e del Regno Unito (53%), il paese europeo in cui è più diffusa l’occupazione in organizzazioni complesse. Non deve dunque stupire che un’altra proxy in grado di indicare il grado di formalizzazione del rapporto tra domanda e offerta mostri dei dati significativi. Il tasso di penetrazione del lavoro attraverso agenzie private (somministrazione di lavoro), abitualmente utilizzato come canale di selezione di nuovo personale, non raggiunge nel nostro paese l’1% degli occupati equivalenti a tempo pieno a fronte di una media continentale dell’1,6%, del 2% della Francia, del 2,2% della Germania e del 3,7% del Regno Unito (Figura 4).

La crisi della domanda

Ai problemi di qualità e allocazione dell’offerta di lavoro si è aggiunta l’onda anomala della lunga fase recessiva che, dal punto di vista occupazionale, è a tutti gli effetti una “crisi della domanda”. A partire dal 2008 la riduzione dei consumi, la stretta della spesa pubblica, il blocco del turnover nella PA, l’innalzamento dell’età pensionabile, l’ampio ricorso ad ammortizzatori destinati alla conservazione della base produttiva (piuttosto che alla ricollocazione delle persone in esubero) hanno concorso a una marcata contrazione degli ingressi nel bacino dell’occupazione. Secondo i dati prodotti dalla Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro il calo ha raggiunto nel 2013 il 28% rispetto ai valori del 2007, equivalente a 460.000 persone assunte in meno su base annua (Figura 5). Alla luce di questa interruzione di flusso è facile interpretare i più tradizionali indicatori sul lavoro. Il tasso di disoccupazione (Figura 6) è raddoppiato, passando in sei anni dal 6% al 12 %, mentre il tasso di occupazione, l’indicatore più importante perché segnala quante sono le persone che concorrono attivamente al sostentamento della società, ha toccato lo scorso anno il 56% interrompendo una fase durata circa un decennio in cui il principale problema del mercato del lavoro italiano, pochi occupati rispetto alla popolazione complessiva, sembrava quantomeno orientato nella giusta direzione. In via comparativa la distanza dagli omologhi europei (Figura 7), eccezion fatta per la Spagna, si sta ulteriormente ampliando visto che la Francia continua ad attestarsi intorno al 64%, la Gran Bretagna è stabilmente oltre il 70% e la Germania è addirittura riuscita a passare nel giro di un decennio dal 65% al 73% grazie a politiche di inclusione delle coorti più giovani delle forze di lavoro.

Last In, First Out

L’eccezione tedesca consente di introdurre l’ultimo elemento di questo articolo. Un’analisi più approfondita dei dati sino ad ora presentati consente di constatare facilmente come gli “effetti sociali della crisi” non abbiano interessato indistintamente tutte le fasce della popolazione ma si siano bensì concentrati sulla classi più giovani estromettendole, di fatto, dal mercato del lavoro. Il calo della domanda già commentato (Figura 5) mostra infatti degli andamenti relativi divergenti se analizzati secondo diversi profili anagrafici. La contrazione è stata di 9 punti percentuali per le persone adulte (35 anni e oltre), di 35 punti per i 25-34enni e del 44% per i giovani tra i 15 e i 24 anni. Alla stessa maniera il tasso di disoccupazione giovanile ha toccato nel 2013 il 40% (Figura 8) mentre quello di occupazione è sceso al 18% (Figura 9). Una consultazione sommaria dei dati consente di comprendere che questo processo di discriminazione anagrafica è una costante dell’attuale congiuntura internazionale (fatta salva la solita Germania) che ha tuttavia raggiunto livelli insostenibili in Spagna e in Italia. Spiegarne le ragioni non è difficile. Da una parte la chiusura delle porte di ingresso (calo della domanda, innalzamento dei requisiti per il pensionamento, ampio ricorso alla cassa integrazione) ha impedito alle coorti più giovani di entrare per una elementare regola demografica. Dall’altra il mercato del lavoro “duale” costruito in Italia dagli anni ’90 in avanti, che ha visto crescere la quota di occupati attraverso contratti atipici, ha fatto sì che i primi ad essere estromessi siano stati i lavoratori a termine secondo lo schema “Last In, Fist Out”: gli ultimi ad entrare, collocati ai margini delle organizzazioni, sono stati i primi a uscire.

Le regole inesorabili della demografia

Questa breve riflessione non consente di abbozzare delle indicazioni di policy, che risulterebbero superficiali, tuttavia una conclusione di carattere generale è opportuna. La dinamica che si è tentato di rappresentare vede innestarsi una recessione non convenzionale su un mercato del lavoro vischioso: la scarsa domanda incontra un’offerta poco qualificata che viene selezionata in maniera inefficiente e collocata nelle posizioni sbagliate. Al di là delle implicazioni contingenti, di per sé rilevanti, occorre però prestare attenzione a quelle di medio e lungo termine. In assenza di correzioni, le regole inesorabili della demografica potrebbero far sì che le coorti anagrafiche che di fatto non stanno compiendo alcun percorso di socializzazione al lavoro risultino, una volta diventate centrali, non solo inadeguate ma anche insufficienti a soddisfare la future necessità del sistema economico con implicazioni sulla finanza pubblica e il sistema pensionistico difficili da prefigurare. L’auspicio quindi è che il futuro dibattito sul mercato del lavoro si svolga alla luce di una rinnovata visione prospettica piuttosto che concentrarsi su questioni di respiro limitato.