Il Pakistan convive da anni con l'incertezza sulle possibilita’ di riforme, sulla tenuta finanziaria e sul contesto geopolitico
Per gli appassionati di cricket, il nome del Primo Ministro del Pakistan, Imran Khan, riporta alla mente la squadra di cui era capitano e che portò alla storica vittoria nella Coppa del Mondo di questo sport, quando in finale sconfisse l'Inghilterra. Era il 1992. A luglio 2018, Imran Khan viene eletto Primo Ministro come leader del partito di maggioranza relativa PTI (Pakistani Tahreek-e Insaf, o Movimento Pakistano per la Giustizia)
Il suo governo attende entro meta’ maggio 2019 il responso del Fondo Monetario Internazionale (FMI) su una richiesta di prestito per circa 12 miliardi di dollari. Imran Khan ha incontrato Christine Lagarde lo scorso 10 febbraio negli Emirati Arabi, un colloquio parte di un negoziato che il neo-primo ministro si e’ trovato costretto a intavolare sin dalle prime settimane dopo il suo insediamento ad Islamabad. Al di la’ infatti di quanto promesso in campagna elettorale – di non presentarsi piu’, come hanno fatto praticamente tutti i suoi predecessori, eletti democraticamente o meno, a Washington per chiedere aiuti – la realta’ dei fatti ha avuto sinora la meglio.
Il Pakistan, solo dal 1980, ha chiesto aiuto al FMI ben dodici volte (Figura 1). Questa e’ la tredicesima. La precedente fu nel nel 2013, con il governo di Nawaz Sharif, leader dello storico partito della Lega Musulmana, e sconfitto appunto dal PTI di Khan lo scorso luglio.
Quali sono le ragioni di questa ultima richiesta d’aiuto? Cosa chiede il Fondo? E soprattutto, e’ lecito aspettarsi che i famosi, o famigerati, programmi di aggiustamento strutturale (conosciuti come SAPs nell’acronimo inglese) del FMI possano davvero riformare in maniera significativa l’economia pakistana?
Imran Khan e’ stato eletto su di una piattaforma che, al di la’ della distanza politico-culturale, non e’ troppo dissimile da quanto e’ avvenuto in Europa con l’ascesa di movimenti di stampo populista. Ha capitalizzato sulla stanchezza e frustrazione delle masse pakistane verso i partiti tradizionali (la gia’ citata Lega Musulmana e il Partito Popolare dei Bhutto, detentori di un fondamentale duopolio nelle fasi in cui il Pakistan ha conosciuto governi democratici); ha usato una retorica anti-elite e promesso ampi programmi di welfare, con rivitalizzazione dell’economia attraverso spesa pubblica; e, in ultimo, un riallineamento a livello internazionale che, se non possiamo chiamare strettamente ‘sovranista’, allora possiamo definire pro-Cinese, con chiare e ovvie ripercussioni sulla storica, e quanto mai turbolenta, relazione con gli Stati Uniti.
I piani di spesa pubblica, lotta alla corruzione endemica, e rinnovamento della classe dirigente sono stati accolti entusisticamente da vasti settori dell’opinione pubblica: non solo i meno abbienti e parte della classe media, ma soprattutto i giovani, anche istruiti e preoccupati per un mercato del lavoro che offre poche prospettive.
La situazione della finanze pubbliche ha tuttavia presto lasciato spazio a considerazioni d’altra natura. Il Pakistan ha un’economia la cui crescita e’ prevista essenzialmente sui consumi, piuttosto che su una solida base produttiva, tanto meno industriale. Consumi che dunque si basano sull’import. Il governo di Nawaz Sharif, per sostenerli, aveva mantenuto per anni un artificiale tasso di cambio, con una rupia sovrapprezzata nettamente rispetto al mercato. Per far questo, le casse dello stato si sono via via svuotate di valuta forte; una situazione resa ancora piu’ complessa dall’aumento dei prezzi del petrolio, di cui il Pakistan e’ fondamentalmente sprovvisto. Al momento di insediarsi, Khan ha trovato non piu’ di 9 miliardi di dollari nelle casse dello stato, sufficienti a poco piu’ di due mesi di importazioni (Figura 2).
I primi suoi viaggi internazionali sono stati a Riadh, Abu Dhabi e Pechino, cercando sostegno tramite prestiti o donazioni. Arabia Saudita ed Emirati hanno contribuito rispettivamente con 3 e 1 miliardi di dollari. In Cina, Khan ha ricevuto un’accoglienza piu’ tiepida e nessuna, almeno ufficiale, promessa d’aiuto. La Cina, come si e’ evidenziato tempo fa, ha pero’ con il Pakistan un rapporto imperniato sul C-PEC, parte della ‘Nuova Via della Seta,’ e gia’ finanziato da Pechino con investimenti nell’ordine di decine di miliardi di dollari.
Neanche il settore dell’export sembra essere in grado, nel breve-medio periodo, di acquisire valuta forte. Come accennato, l’economia pakistana esporta poco. Persino in settori come il tessile, tradizionale punto di forza, il Bangladesh, fino al 1971 la parte orientale del paese e decisamente la piu’ povera, ha superato il Pakistan in quanto ad attrattivita’ per investimenti esteri ed esportazioni. Per dare un’idea, a livello regionale l’India ha un interscambio di circa 72 miliardi di dollari; il Pakistan di 6. Anche tenendo conto delle differenti dimensioni delle rispettive economie, il confronto e’ impietoso.
La scarsita’ di valuta estera ha comportato negli ultimi 12 mesi una continua svalutazione della rupia verso euro e dollaro: in circa 9 mesi ha perso il 30% del proprio valore, passando da circa 110 rupie per un dollare a oltre 140 (Figura 3). Questo a fronte, comunque, di un sostegno pubblico della valuta: nel caso in cui fosse solo il mercato a deciderne il valore, non e’ dato sapere quanto si svaluterebbe e sarebbe pressoche’ automatica un’inflazione ben al di sopra dell’attuale 8% (Figura 4), con un innalzamento contestuale dei tassi d’interesse sui prestiti (sia interni che internazionali) che potrebbe avere ripercussioni molto gravi sulla tenuta dell’economia pakistana nella sua totalita’.
Dunque, ancora una volta, in disperato bisogno di riserve e liquidita’, un governo Pakistano si e’ trovato infine a chiedere al FMI un aiuto, che, come evidenziato, e’ il piu’ sostanzioso mai richiesto. in questa situazione è facile aspettarsi che il Fondo abbia posto condizioni alquanto stringenti. Se nel 2013 infatti il Pakistan era poi riuscito a ripagare il prestito di oltre 6 miliardi di dollari in tre anni, ora si trova a chiedere due volte tanto;: prova che le riforme strutturali di cui il paese avrebbe bisogno per scongiurare questi continui pellegrinaggi sono ancora di la’ da venire. In cosa consistono queste riforme richieste dal FMI? In sintesi, privatizzazione di alcune imprese pubbliche, modifica della tassazione e della governance.
Vi sono circa 200 imprese sotto diretto controllo statale o con forte partecipazione pubblica. La maggior parte è in perdita, con i due casi piu’ eclatanti della Steel Mills Corporation (produzione di acciaio, tra i piu’ grandi conglomerati industriali del Paese) e Pakistani International Airlines (la compagnia aerea di bandiera): a livello locale sinonimo di inefficienza, nepotismo e corruzione. Il Fondo insiste da anni per la loro privatizzazione.Non e’ dato sapere quali siano al momento i termini precisi dell’accordo in questo senso, ma la richiesta deve essere state reiterata nuovamente.
Secondo punto, il problema fiscale, in particolare dell'imposizione sui redditi. In Pakistan la base dei contribuenti e’ alquanto limitata; il sistema di riscossione inefficiente; la corruzione e l’evasione endemiche. Con persistenti problemi di bilancio (e quest’anno il disavanzo primario non sembra potra’ fermarsi al 5.1% come auspicato, per raggiungere invece il 7%), e’ ovvio che si guardi a questo ambito per cominciare ad incrementare le entrate.
Niente di tutto questo e’ un mistero, ovviamente: nè a Washington nè a Islamabad. Il problema fondamentale resta però quello della governance o buona ammistrazione, di natura sia politica sia economica. Come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, si ha l’impressione che tutto debba cambiare, ad ogni SAPs, perche’ tutto alla fine rimanga lo stesso: gli interessi economici di alcune famiglie a dominare la scena economico-politica; gli intrecci tra politica ed economia che la stampa locale non esita a definire ‘mafiosi’ (e gran parte della popolazione a considerare come tali); una pubblica amministrazione inefficiente perche’ in fondo dominata anch’essa dagli stessi principi clientelari. Su tutto, l’intoccabile casta militare, che rimane il vero attore fondamentale della scena politica pakistana.
Nei suoi 71 anni di vita, il Pakistan ha avuto quattro golpe militari e circa 40 anni di dittatura di esponenti delle forze armate (l’ultimo, fino al 2009, con Pervez Musharraf). Il paese ha dovuto sostenere il costo, non solo a livello di liberta’ politica e diritti civili, di questo ipertrofico apparato militare e di polizia. La spesa militare si avvicina a 760 miliardi di rupie. Per un confronto, gli investimenti per lo sviluppo non arrivano a 500 miliardi di rupie,cioè il 75% di quanto il paese spende per le forze armate (Figura 5).
E' facile capire come nessun governo, sebbene eletto con un forte supporto elettorale come quello del PTI, possa davvero riuscire a trovare nella sola spesa pubblica, tanto piu’ che, da un lato, il decennale, e per certi versi ingestibile, conflitto con l’India ha appena conosciuto uno dei suoi momenti piu critici da anni a questa parte; e dall’altro l’amministrazione Trump, per voce di Mike Pompeo, ha da alcuni mesi interrotto gli aiuti militari al Pakistan. La Casa Bianca accusa il Paese di non fare abbastanza nella lotta al terrorismo e di essere invece complice di alcuni gruppi estremisti. La rinnovata alleanza tra Islamabad e Pechino non ha fatto nulla, anzi, per dirimere le profonde divergenze tra USA e Pakistan. I termini dell’accordo del Corridoio Economico Cina-Pakistan non sono mai divenuti pubblici, e non e’ chiaro quando, e quanto, il Pakistan dovra’ incominciare a ripagare gli ingenti investimenti cinesi nel paese; fatto che ha contribuito ad aumentare lo scetticismo del FMI verso le finanze pakistane.
Incertezza dunque sulle possibilita’ di riforma, sulla tenuta finanziaria e sul contesto geopolitico: come molti analisti locali hanno piu’ volte sottolineato, Imran Khan, ex star del cricket diventato premier, non ha idea di quello che governare il Pakistan davvero comporti.
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