In tempi di emergenza Covid 19 e di smart working è indubbiamente importante, per i lavoratori, scendere a patti con la tecnologia per continuare a svolgere le proprie mansioni agevolmente, da remoto e in sicurezza. Pertanto, dal momento che durante il primo lockdown si sono registrati 6,58 milioni di lavoratori in smart working, è essenziale indagare il livello delle digital skill degli italiani.
Come analizzato nell’articolo “Non tutto lo smart working viene per nuocere”, nonostante le difficoltà, questo smart working atipico ha contribuito a migliorare le competenze digitali dei dipendenti italiani (per il 71% delle grandi imprese e il 53% delle PA), a ripensare i processi aziendali (59% e 42%) e ad abbattere barriere e pregiudizi sul lavoro agile (65% delle grandi imprese), segnando una svolta irreversibile nell'organizzazione del lavoro.
Non bisogna inoltre far passare in secondo piano il fatto che il divario digitale, fattosi più trasparente con lo smart working, non riguarda solo le persone che hanno difficoltà o diffidenza a usare gli ambienti online per ragioni culturali e tecniche, ma colpisce anche e soprattutto le linee e i macchinari: ai dati Istat del 2019, che mostrano come poco più del 75 percento delle famiglie italiane disponga dell’accesso a Internet, si aggiunge infatti il più ampio problema della carenza delle connessioni e della scarsa presenza di dispositivi tecnologici.
La prima ufficiale definizione di “competenze digitali” è stata quella proposta nel 2006 dal Parlamento Europeo, in un documento in cui venivano elencate le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente. La dicitura riportata nel documento era la seguente “La competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da abilità di base nelle ICT (Information and Communication Technologies, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione): l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet”. La grande forza e, contemporaneamente, la grande debolezza delle competenze digitali è che sono in continua e rapida evoluzione, dato che questa realtà sta man mano pervadendo tutti i settori e le funzioni aziendali.
Proprio come accade per le altre competenze più tradizionali, anche per quanto riguarda quelle digitali può essere fatta la distinzione tra hard e soft skills.
Le digital hard skill sono le competenze digitali tecniche di base, quelle che definiscono una figura professionale e che, proprio perché quantificabili, possono essere inserite nel curriculum vitae. Queste competenze si possono acquisire a scuola, all’università, attraverso master e corsi di perfezionamento, ma anche sul posto di lavoro oppure attraverso corsi di formazione specifici sul web. Tra queste vi sono ad esempio il saper usare programmi e pacchetti informatici, la conoscenza di linguaggi di programmazione, il saper usare specifici macchinari e strumenti di produzione. Al contrario, le digital soft skill si apprendono prevalentemente sul campo e sono difficilmente quantificabili: dipendono dalla cultura, dalla personalità e dalle esperienze vissute dal singolo. È infatti noto che le soft skill, le cosiddette “abilità trasversali”, riguardano più in generale le relazioni e comportamenti delle persone in qualsiasi contesto lavorativo. Tra le principali digital soft skill vi sono la capacità di risolvere problemi complessi, di gestire il cambiamento, di collaborare e relazionarsi, di adattarsi con flessibilità e di comunicare; il knowledge networking che consente di recuperare e capitalizzare le informazioni che si trovano in rete; il new media literacy, ovvero il grado di alfabetizzazione rispetto ai nuovi media, ai loro linguaggi e ai loro formati; la capacità di gestire i flussi comunicativi online nel rispetto della netiquette aziendale.
Nel 2017 è stato pubblicato il rapporto dell’Osservatorio delle competenze digitali, realizzato da associazioni ed istituti informatici in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione. All’interno del rapporto viene più volte sottolineato come il peso delle competenze digitali sia in continua crescita in tutte le aree aziendali di tutti i settori con un’incidenza media del 13,8%, ma con picchi che sfiorano addirittura il 63% per quanto concerne le competenze digitali specialistiche nelle aree “core” dell’industria e il 41% nei Servizi. Il bisogno di potenziare e rinnovare le competenze è essenzialmente legato all’innovazione, sia essa di prodotti, di processi o di strategie, in logica digitale. Il digital skill gap rischia tuttavia di non riuscire a soddisfare una domanda del mercato del lavoro pari 4 milioni di nuovi professionisti ICT in tutta Europa. Questa diffusa e sentita necessità di rinnovamento e ammodernamento è infatti lontana dall’essere assecondata in quanto, ad esempio, un giovane europeo su due riconosce un gap rilevante tra le proprie competenze digitali, specialmente quelle hard, e le aspettative delle imprese. La situazione non è migliore nemmeno sul fronte di chi lavora già in azienda: 4 manager su 10 hanno infatti dichiarato di non essere a loro agio nell’utilizzo dei tool digitali. La situazione non è dunque delle migliori, specialmente se si considera il fatto che in un futuro molto prossimo, secondo quanto diffuso da un report risalente al 2016 dal Word Economic Forum, “The Future of Jobs and Skills”, nell’arco di tempo che arriva al 2020 si sarebbero creati 2 nuovi milioni di posti di lavoro nel mondo ma contemporaneamente ne sarebbero spariti ben 7. Secondo i dati a disposizione, sorgeranno nuove professioni, professioni impensabili anche solo dieci anni fa, in quelli che ad ora rappresentano i settori più promettenti e avanguardistici come la robotica, i trasporti automatici, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, la genomica e i materiali hi-tech.
Il bilancio della situazione italiana non dovrebbe essere tuttavia così disastroso: secondo le stime l’Italia dovrebbe infatti chiudere con un pareggio, circa duecentomila posti creati e altrettanti persi, meglio di altri paesi europei ed occidentali come Francia e Germania.
Dai dati Istat relativi al 2018, emerge tuttavia una fotografia non rosea dell’ICT nelle imprese italiane: meno della metà investe infatti nello sviluppo di nuove competenze del personale già esistente e, addirittura, meno del 35% di loro impiega del denaro per sviluppare una strategia di digitalizzazione dell’impresa stessa (Figura 1). Più incoraggianti sono invece i dati rappresentati nella Figura 2: il sistema di incentivi fiscali si sta infatti rivelando efficace in quanto grazie ad essi circa la metà delle imprese investe in ICT; inoltre, più del 70% delle imprese sfrutta l’analisi dei big data e ben il 60% si avvale di specialisti del settore. Purtroppo, tuttavia, la percentuale di imprese che organizza corsi di formazione per i propri dipendenti in materia digitale è ancora molto bassa (17%). Geograficamente parlando, non si rilevano invece significative differenze tra Nord e Sud Italia (Figura 3). Nel periodo esaminato, se da un lato il numero medio di dipendenti specializzati in ICT nelle varie imprese è rimasto costante attorno al 15%; dall’altro la percentuale di imprese che ha predisposto corsi di formazione in questo settore è notevolmente aumentata e questo trend positivo è d buon auspicio per il futuro (Figura 4).
Per le aziende che intendono continuare ad essere competitive, considerata l’attuale trasformazione digitale e quella dell’industria 4.0, si rivela infatti necessario insegnare agli addetti nuove mansioni (per le quali saranno richieste nuove competenze) e fornire loro gli strumenti per formarsi. Per prepararsi al cosiddetto reskilling, ovvero il processo in base al quale è possibile apprendere modalità di lavoro e professionalità diverse dalle precedenti, le organizzazioni possono attuare diverse strategie, tra cui, ad esempio: collaborare più strettamente con chi si occupa di formazione della forza lavoro; utilizzare il reverse mentoring, quindi formare i dipendenti più giovani, che già posseggono una cultura digitale, in modo che siano poi loro a istruire i senior all’interno dell’organizzazione, beneficiando e usufruendo degli incentivi fiscali previsti dal Governo e, infine, assumere dipendenti non unicamente sulla base delle conoscenze acquisite ma valutandone anche la capacità di apprendere nuovi contenuti.
La continua evoluzione delle digital skill, siano queste hard e/o soft, deve dunque essere interpretata come un’opportunità, sia per i lavoratori sia per le aziende. I primi infatti, aprendosi al cambiamento, hanno la possibilità di acquisire nuove competenze in modo tale da far evolvere le proprie figure professionali; le seconde invece possono non solo modernizzare i processi produttivi ma anche di investire maggiormente nella formazione delle proprie risorse con progetti di sviluppo delle competenze pensate ad hoc, diventando in questo modo più appetibili e competitive
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