“Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate
e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti.
Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”
Sergio Mattarella, discorso di insediamento
alla Presidenza della Repubblica, 3/2/2022

 

Esistono diversi profili di ingiustizia nel mondo: ingiustizie storiche - esempi classici ne sono i genocidi, le diverse forme di riduzione in schiavitù e di tortura -, che impongono si affrontino i problemi di una eventuale compensazione (“rectification”) e di attribuzione di responsabilità; ingiustizie culturali, esito quasi sempre di profondi misconoscimenti e mancanza di rispetto per popoli e/o persone (sul tema si possono vedere i lavori di Nancy Fraser e Axel Honneth, ma anche di Charles Taylor e di Iris Young); ingiustizie distributive, relative cioè a una cattiva distribuzione di risorse, e che potremmo suddividere in economiche (che portano a sfruttamento) o sociali (causa di dominio).

Pur nella diversificazione delle forme, mi sembra plausibile affermare che – in linea generale - ogni ingiustizia corrisponde, e si traduce sempre, in esclusione. Le circostanze di ingiustizia sono, cioè, nella loro intrinseca ed estrinseca varietà, tutte circostanze caratterizzate dal fatto dell’esclusione, che si contrappone alla clausola universale dell’uguale considerazione tra esseri viventi.

Il carcere, inteso come istituzione, nasce dal bisogno di sanare un’ingiustizia. Eppure questo istituto può diventare un luogo profondamente ingiusto, e l’ingiustizia di cui – sempre più spesso, in anni recenti - il carcere in Italia ha rappresentato il laboratorio è tangibile, concreta, riguarda le strutture, gli spazi, il trattamento delle persone, e merita dunque una analisi più accurata.

A poco più di due anni dalle parole di Sergio Mattarella citate in exergo, altre parole fanno eco, quelle di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si occupa da anni della situazione carceraria in Italia:

"Il sistema penitenziario italiano si avvicina a passi da gigante a livelli di sovraffollamento che configurerebbero un trattamento inumano e degradante generalizzato delle persone detenute. Bisogna prendere provvedimenti e prenderli ora perché, con gli attuali ritmi di crescita, a fine 2024 saremo in una condizione drammatica. I 15 suicidi di questo primo mese e mezzo dell'anno siano un campanello d'allarme che risuona. Ci appelliamo al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché richiami il Parlamento a discutere del tema carcere, e a farlo basandosi su scelte pragmatiche e non su approcci ideologici"

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L'associazione Antigone

Alcuni dati recenti sul carcere

Al 31 gennaio 2024 erano 60.637 le persone presenti in carcere, in Italia, a fronte di 51.347 posti ufficiali (anche se sono circa 3.000 quelli che, tra questi, non sono per ragioni diverse disponibili): 2.615 erano le donne detenute, il 4,3% dei presenti, e 18.985 le persone straniere detenute, il 31,3% dei presenti. Già nel corso del 2021, dopo il calo delle presenze dovuto alla pandemia, le presenze nelle nostre carceri sono tornate a crescere. Dalla fine del 2020 ad oggi la crescita è stata di oltre 7.000 unità, una crescita media dello 0,4% al mese. Ma se si guarda alla crescita degli ultimi 12 mesi questa è in media dello 0,7% al mese. E se si guarda solo agli ultimi sei mesi la crescita media mensile è stata dello 0,8%. Il tasso di affollamento medio (calcolato sui posti ufficiali e non su quelli realmente disponibili) è del 118,1%, ma negli ultimi tempi le regioni più in difficoltà sono – secondo una logica territoriale paradossalmente democratica - la Puglia (143,1%) e la Lombardia (147,3%). Gli istituti più affollati sono Brescia, "Canton Mombello" (218,1%), Grosseto (200%), Lodi (200%), Foggia (189%), Taranto (182,2%) e Brindisi (181,51%). 

Per quanto concerne le risorse investite nel sistema carcere, nel 2019 i fondi destinati all’Amministrazione penitenziaria ammontavano – secondo il XV Rapporto di Antigone - a circa 2,9 miliardi, in crescita di 17 milioni rispetto all’anno precedente. Nonostante questo aumento – spiega il rapporto – il costo per detenuto scende vertiginosamente, e passa da 137,02 euro nel 2018 a 131,39 euro al 30 aprile 2019, a causa dell’aumento delle persone ristrette (secondo i dati del ministero della Giustizia, nel 2020 il costo per detenuto è risalito a 136,96 euro al giorno). Quanto alla ripartizione: «Il 69,03 % dei fondi del DAP è allocato ai costi di personale della polizia penitenziaria […] un altro 7,44 % del totale è allocato al personale amministrativo. Il totale delle spese per il personale ammonta quindi al 76,47 % del budget dell’Amministrazione penitenziaria. Aumentano di quasi 10 punti percentuali rispetto al 2018 i fondi allocati alla voce accoglienza, trattamento penitenziario e politiche di reinserimento delle persone sottoposte a misure giudiziarie (pesando per il 10 % sul budget del DAP) che comprende le spese per il vitto e il mantenimento dei detenuti (40 % della voce accoglienza e trattamento penitenziario), per le mercedi (36 % della stessa voce) e per istruzione, attività ricreative e asili nido per i figli delle detenute (purtroppo solo il 2,2 % della medesima voce)». Ai dati sopra citati potremmo aggiungere, come non secondaria, anche la carenza di organico: in servizio ci sono 37 mila agenti, ma dovrebbero essere 42.130.

Ma come risolvere il crescente trade-off tra sovraffollamento e costi del carcere?

L'edilizia penitenziaria non sembra essere una soluzione perseguibile, per diverse ragioni, prime tra tutte i costi e i tempi: per costruire un carcere di 250 posti servono circa 25 milioni di euro. Oggi, per i numeri sopra citati, servirebbero 52 nuove carceri, per una spesa che si aggira intorno al miliardo e 300 milioni di euro. Ma le carceri vanno riempite anche di personale (agenti, educatori, psicologi, direttori, medici, psichiatri, amministrativi, assistenti sociali, mediatori...) con un aumento annuo del bilancio del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (DAP) e del Ministero della Salute, che già oggi fanno fatica a garantire le presenze necessarie, con tutte le figure professionali in pesante sotto organico, come già osservato. Relativamente ai tempi, per costruire un carcere sono necessari anni, mentre l'emergenza di sovraffollamento è qui e ora. Ma non è la sola emergenza cruciale.

 

Fonte: Antigone

Così lontano, così vicino

«Penso che pochissimi si ricorderebbero del carcere, di disegnare il carcere, se dovessero disegnare la mappa di una città. Ci metterebbero magari l’ospedale, il tribunale, la scuola, il parco giochi, l’asilo, ma difficilmente si ricorderebbero del carcere. Perché il carcere lo guardiamo da lontano e lo consideriamo come qualche cosa di altro rispetto a noi”.

Iniziava così il suo intervento a un TEDx[1], nell’aprile del 2017, Cosima Buccoliero, vicedirettrice (per quasi un ventennio) e poi direttrice (dal 2019 al 2021) del carcere di Milano Bollate[2], oggi direttrice della casa circondariale di Monza[3]. Il carcere dovrebbe invece far parte, come accade con molti vecchi istituti – San Vittore a Milano, l’Ucciardone a Palermo –, del tessuto urbano di una città. In carcere – proseguiva Buccoliero - ci sono individui, persone, e non soltanto persone detenute: c’è il direttore, ci sono i poliziotti, ci sono gli educatori, i ragionieri, le persone che svolgono attività di volontariato – e sono tantissime– e poi coloro che vengono a trovare i loro familiari. Insomma, ci sono persone. E come in tutti i luoghi in cui ci sono persone, queste sono in relazione tra loro. Non è vero che in carcere la vita si ferma; continua e continuano le esperienze. La capacità di imparare e progettare, di sentire e di volere.

Nelle carceri italiane lavorano, in effetti, oltre ai 37.000 agenti di polizia, circa 770 educatori, 220 mediatori circa, quasi 17 000 volontari[4]: il carcere è una città (separata) dentro alla città, ma con regole uniche e particolari, di rigore e proporzioni che talvolta assumono dimensioni paradossali e molto sintomatiche[5]. Due esempi su tutti: se io ho mal di testa apro un cassetto, prendo una scatola di analgesici ed è fatta. Se un detenuto ha mal di testa, la gestione del suo dolore diventa collettiva. È una faccenda sua, ma anche dell’agente di turno, e poi della segreteria trattamentale, e infine della Direzione, lungo una complessa e burocratica catena che arriva fino al medico. Alcune regole sono difficili da accettare, altre sono inevitabili, in quanto connesse a seri problemi organizzativi. Ma le telefonate, le telefonate ci dicono qualcosa di più: i detenuti possono effettuare le loro telefonate una volta alla settimana, e il tema dei contatti con l’esterno è proprio uno di quei temi che confermano come il nostro sia un sistema pensato per i piú pericolosi, improntato molto sui colpevoli per reati legati al crimine organizzato, senza considerare che questa è solo una parte della popolazione carceraria. Una piccola parte. Su 60.637 detenuti quelli al cosiddetto 41 bis sono 759 (in questo caso il dato è del 2020), mentre i detenuti con un residuo di pena inferiore ai tre anni, potenzialmente ammissibili a una misura alternativa alla detenzione, e quindi in ugual modo potenzialmente poco pericolosi, sono 19.404. Insomma, si ragiona applicando a tutti un modello che in realtà è necessario solo per pochissimi.

Quali potrebbero essere, allora, delle soluzioni perseguibili, non solo desiderabili ma – anche e soprattutto – fattibili? Le soluzioni potrebbero essere: un aumento delle misure alternative, più economiche rispetto alla carcerazione e con tassi di recidiva minori; una diminuzione dell'uso della custodia cautelare, con l'Italia costantemente al di sopra della media Europea; una riforma del regime dell'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario, che prevede l'impossibilità di accedere a benefici, inizialmente previsto solo per i reati più gravi di mafia e terrorismo e poi allargato a numerose altre fattispecie. Implementare politiche come quelle sopra citate, tuttavia – e per tornare al tema di apertura di questo pezzo – significherebbe credere e concepire le questioni di ingiustizia come questioni politicamente salienti, proprio perché il senso di ingiustizia è un’esperienza eminentemente politica, in quanto pertinente alle azioni e alle decisioni pubbliche sulle modalità di intervento istituzionale. E allora fino a che punto l'ingiustizia è inevitabile? E fino a che punto è invece legata alle scelte e alle attività dei singoli? Come fare per distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è? Quando dobbiamo parlare di mala sorte e quando, invece, di ingiustizia? Sono queste le domande che una riflessione sul carcere fa emergere, in modo imperativo.

 

Le barche di Lampedusa

Fine pena ora è un libro doloroso[6] che racconta la storia vera di due uomini che si scrivono, due uomini su un piede di parità: il giudice che ha condannato e il giovane che è stato condannato. E chi è il giudice? Elvio Fassone risponde che è una persona che fa una profezia retrospettiva. Il giudice deve affermare l'esistenza di un fatto che non ha visto, che non conosce e che deve ricostruire sulla base di tracce che portano a una sentenza di semplice probabilità, anche se elevata. Oltre ogni ragionevole dubbio. Il giovane è uno di quei detenuti per cui la pena non avrà fine, un « ostativo ». La storia inizia con la scelta di un giudice - l'autore stesso - che, il giorno dopo l'imposizione della condanna all'ergastolo, scrive impulsivamente una lettera al suo detenuto, il giovane capo della mafia di Catania che aveva già imparato a conoscere come un uomo, nonché come un imputato, durante il processo. Da questa scelta, da questa lettera accompagnata da un libro significativo, nasce una corrispondenza tra il giudice e Salvatore, uno scambio che durerà ventisei anni.

Dopo aver chiuso il libro, ci si trova immediatamente di fronte al forte pensiero che amministrare la giustizia non possa e non debba concludersi con la (mera) sentenza di condanna. Per avere una voce, essa deve essere educata dalla conoscenza. Solo attraverso la propria voce il singolo potrà avere accesso alla conoscenza: per avere una voce, bisogna avere un linguaggio. E solo attraverso il linguaggio si puòpotrà modificare la realtà.

Come quelle barche nel giardino di Opera, casa di reclusione di alta e media sicurezza: per una sorta di metamorfosi, il legno recuperato dai naufragi sulle coste di Lampedusa è stato riutilizzato nella falegnameria del carcere. Destino: strumenti musicali. Perché – come scrive uno dei sessantamila detenuti italiani, “in carcere ogni oggetto è uno strumento, ed ogni strumento è un rifugio”.

La sfida quotidiana contro tutte le oppressioni ha i suoi strumenti, e passa anche da qui. Forse allora potrebbero non servire delle nuove carceri. Non servono piú carceri, né piú carcere, come afferma Cosima Buccoliero. Potrebbe essere sufficiente occuparsi con nuovi modi e nuove parole – tutti e tutte - del carcere che c’è.

 

 

[1] https://www.youtube.com/watch?v=NHxGub0_Y7o

[2] La recidiva delle persone che escono dal carcere di Bollate – unico modello di carcere italiano che si avvicina all’ideale di “carcere aperto” - si attesta intorno al 17% rispetto al 70% della media nazionale.

[3] Segnalo un testo recente molto interessante sul tema del carcere aperto: C. Buccoliero, S. Uccello, Senza sbarre. Storia di un carcere aperto, Torino, Einaudi, 2022.

[4] Il carcere al tempo del coronavirus. XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, 2020, pp. 39, 40, scaricabile da https://www.rapportoantigone.it/.

[5] Regole che, nel peggiore dei casi, generano dinamiche senza ritorno che portano a risultati irrimediabili. Il tasso di suicidi – che sarà oggetto di un prossimo articolo su ME - in Italia è tra i piú alti di tutta l’Ue, nonostante l’Italia sia tra i paesi in Europa in cui il suicidio è meno diffuso tra la popolazione libera. Nelle carceri italiane si registra una media di 7,2 suicidi ogni 10 mila ristretti (in questo caso l’anno preso in considerazione è il 2018). Peggio dell’Italia la Francia e la Germania e l’uscente Regno Unito; fonte “Il carcere al tempo del coronavirus. XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione”, op. cit.

[6] E. Fassone, Fine pena ora, Palermo, Sellerio, 2005.

 

 L'immagine di copertina è tratta da "Metamorfosi", progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti