Quale pianeta lasceremo ai nostri figli, ma – soprattutto – “a quali figli lasceremo il nostro pianeta?”. C'è l'urgenza demografica, certo. Ma la domanda che pone il sociologo e filosofo Edgar Morin, risuona in modo particolarmente insistente nello spazio rabbioso del distanziamento sociale dovuto alla pandemia. Non parlo solo della distanza fisica, necessaria a limitare le possibilità di contagio, ma di quella umana, dopo l’ennesimo esercizio di divisione scaturito dalla richiesta di responsabilità sociale della vaccinazione.
Gli adulti non riescono a essere modello virtuoso di relazione con gli altri. E i bambini assorbono comportamenti contrari a quegli ideali ai quali, come società, dovremmo tendere: rispetto, uguaglianza, solidarietà, inclusione.
Il valore del capitale umano
Quale umanità stiamo “costruendo”? Vale la pena interrogarci a fondo: sul piano etico e sociale, ma anche sul piano economico. Il “capitale umano” andrebbe valutato non solo in base a capacità, conoscenze e abilità professionali richieste a un lavoratore, ma in quanto umanità su cui poter contare. Il corretto agire sociale, basato su relazioni buone e profonde, rappresenta ormai una prerogativa della quale non possiamo più permetterci di fare a meno: nella quotidianità, sul lavoro, nelle imprese.
Le derive sono davanti ai nostri occhi, già solo nell'incapacità di discutere.
Non basta. I dati sconfortanti di diverse analisi internazionali sul livello di corruzione “percepito” in Italia dagli investitori stranieri graffiano. Siamo il Paese della cultura, della moda e della creatività, ma quest’ultima non sempre declinata in modo positivo. Come scriveva sul Corriere della Sera Giovanni Valotti, economista alla Bocconi, «un intreccio inestricabile di interessi tra politica, finanza, impresa e burocrazia sembra aver preso il posto di un agire etico, capace di promuovere e tutelare il bene comune». E se molto si è fatto per reprimere le condotte sbagliate (trent'anni fa esplodeva Mani Pulite), ma diventa prioritario investire in progetti e risorse per prevenirle a monte.
La formazione alla buona cittadinanza
L’Ocse sostiene da tempo che per combattere efficacemente la corruzione bisognerebbe «combinare normative e controlli sempre più stringenti con una solida educazione all’etica e alla moralità». E questo percorso dovrebbe iniziare «insegnando l’etica della buona cittadinanza nella famiglia e nelle scuole».
Ebbene, qualcosa sembra muoversi nel Belpaese. A fine 2019, in Senato, era stato presentato un disegno di legge finalizzato a introdurre l’insegnamento dell’educazione emotiva nelle scuole di ogni ordine e grado (Ddl 1601), portando come esempio le esperienze virtuose di altri Paesi, primo fra tutti la Danimarca, che concepiscono la scuola come “officina” di umanità. Esattamente un anno dopo, alla Camera, è poi arrivata la proposta di legge 2782, con analoga finalità, che però riconduce l’intento a ragioni anche pragmatiche.
Si legge, nella premessa della proposta di legge 2782, che «l’intelligenza emotiva è stata inserita tra le prime dieci competenze richieste entro il 2020 dal World Economic Forum». Lo studio Workplace Trend 2018, condotto dal gruppo Sodexo, dice che il 34% degli headhunters (cacciatori di teste) ricerca e valuta positivamente questa capacità nelle selezioni lavorative. Si tratta, in particolare, della capacità «di percepire emozioni, accedere a esse e saperle generare per sostenere il pensiero razionale, comprendere sentimenti altrui e saperli gestire in modo da promuovere la crescita, emotiva e intellettuale».
Il pezzo mancante
La terza indagine internazionale sull’educazione civica e per la cittadinanza, promossa dalla International Association for the Evaluation of Educational Achievement, nel valutare e comparare i modi in cui i giovani vengono preparati a svolgere in modo attivo il proprio ruolo di cittadini nelle società democratiche, ha rilevato che in Italia l’educazione alle competenze sociali ed emotive rappresenta il «pezzo mancante » dei curricula scolastici e della formazione degli insegnanti.
Ora, l’11 gennaio scorso la Camera ha detto sì all’unanimità alla proposta di legge (AC2372), presentata dall’intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, che punta a valorizzazione le competenze non cognitive in ambito didattico, come arma per il contrasto alla dispersione scolastica. L’obiettivo è quello di tenere i bambini e ragazzi di scuole medie e superiori, ancorati ai loro banchi, aiutando la loro relazione con gli altri. Un bel passo in avanti, che meriterebbe un plauso, ma che è rimasto in sordina.
L'upgrade di socialità
La proposta mira a incrementare le life skills, cioè quelle abilità che portano a comportamenti positivi e di adattamento, che rendono l’individuo capace di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni. Nella pratica, si tratta di un saper vivere che si riscontra nella capacità di gestire le emozioni, ma anche la gestione dello stress, la comunicazione efficace, l’empatia, il pensiero creativo e quello critico, oltre che l’abilità di prendere decisioni e risolvere problemi. In pratica, parliamo di quello che comunemente viene riassunto con il termine problem solving.
Non sarebbe una nuova materia, sia chiaro, ma un upgrade di socialità. Per questo si prevede l'introduzione, per un periodo sperimentale di tre anni, delle competenze non cognitive nel metodo didattico, assicurando un’adeguata formazione dei docenti. Vediamo ora se il Senato (la proposta è sul tavolo della settima Commissione permanente) è sulla stessa lunghezza d’onda.
Perché non iniziare già con i più piccoli?
Dispiace solo che si sia scelto di partire dalla secondaria, tralasciando il bisogno di sostegno alla relazione che serve fin da piccolissimi, ai bambini della pandemia. E non solo a loro. Anche le famiglie hanno bisogno di essere guidate ad affrontare le sfide di una conflittualità inevitabile a cui si è sempre più insofferenti. Servono ascolto, condivisione e capacità di so-stare nel conflitto. Quado la scuola sarà in grado di farlo, allora sarà possibile uscire dalla logica della richiesta punitiva per entrare in quella, molto più benefica e inclusiva, della soluzione creativa.
Altrimenti, poi, succede come nella scuola primaria di un piccolo centro nelle Marche, dove tutti i banchi, tranne uno, sono rimasti vuoti tre giorni. Seduto al suo posto, solo un “bullo” di otto anni, lasciato volutamente senza compagni. Gli altri bimbi hanno fatto sciopero per protestare contro due anni di pugni, spintoni, sberle - dicono mamme e papà - senza che sia stato mai fatto nulla per mettere in sicurezza la classe.
Succede che poi la campanella suona, ma il suono è più simile a un grido che scuote le coscienze e traccia un immaginario confine tra chi biasima e chi approva, tra chi invoca comprensione e chi condanna senza appello. Quello che è accaduto in questa piccola realtà poche settimane fa è quello che accade ogni giorno nel mondo degli adulti; si chiama frattura sociale e si verifica quando uno di noi sbaglia e gli altri, sentendosi indifesi e impotenti, lo emarginano.
L'investimento nelle relazioni
È l’antitesi di ciò che tendiamo ad essere; l’esatto opposto di quello a cui dovrebbe preparare la scuola, come artigiana di socialità. Nel silenzio di quella terza elementare c’era l’urlo di una sconfitta di cui nessuno sembra disposto a volersi prendere la sua parte di responsabilità, adesso e subito; né la scuola, che evidentemente non ha saputo ascoltare; né i genitori, che evidentemente non sono riusciti a focalizzare il bisogno reale.
Forse dovremmo partire da qui: da un piano di investimento emotivo, trasversale, globale, nelle relazioni umane, con gli strumenti che già ci sono; in attesa che l’istituzione scolastica venga ripensata totalmente, non a compartimenti stagni, per consentirle di rispondere alle nuove richieste educative e in linea con i migliori standard internazionali.
Se finalmente arriviamo a comprendere che dipende da noi, che è una responsabilità urgente dell’intera società educare i giovanissimi all’agire etico ed empatico, daremo finalmente il buon esempio. Perché se il figlio è il mio, il “capitale umano” è di tutti.
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