Il caldo torrido - che non esiste per i negazionisti di varia estrazione - rende più surreali questi giorni. A osservare al microscopio i personaggi che abitano i palazzi della politica c’è da infliggersi l’orticaria. Non stupisce affatto che il partito dell’ astensionismo abbia raggiunto quota 42% nelle ultime tornate elettorali, tra referendum e amministrative. Sarà sempre peggio?

Non sorprende, siamo sinceri, perché gli insipidi nanetti del giardino parlamentare e degli enti territoriali - in grande parte incompetenti, contafrottole, inadeguati, voltagabbana - non possono che generare disaffezione nei confronti della cosa pubblica. Un grande peccato. Soprattutto, un cruccio angosciante. Perché le basi della nostra Costituzione risiedono in un patto sociale in cui la rappresentanza e i corpi intermedi (dei partiti, ma non solo) svolgono un ruolo decisivo nel funzionamento della democrazia. Si dice diritto-dovere del voto: anche qui - per una deriva culturale ed educativa - in Italia tutti hanno diritti, ma pochissimi interpretano il dovere. Anche quello di mettersi a disposizione, scelta peraltro difficilissima nella bolgia urlante e rabbiosa stile social. 

Il caso Verona

Due elementi mi paiono importanti per ragionare di futuro. Il primo è il caso Verona, con l’elezione a sindaco dell’ex calciatore Damiano Tommasi. Ha saputo entusiasmare giovani e meno giovani, coinvolgendoli in una sfida civica non sguaiata; direi, anzi, educata e garbata, anche se gli aggettivi esprimono valori non più di moda. È piaciuta la sua figura per ciò che è adesso, più ancora che per il passato di fortunato bipede del football: padre di famiglia, impegnato nel sociale, insomma un costruttore silenzioso e non spavaldo. Lo vedremo alla prova dei fatti, certo, ma è un buon segnale.

Al di là degli schieramenti politici, bisogna reintrodurre alcuni elementi di senso civico: la passione, ma per il bene comune; la competenza; la terzietà dei civil servant; la sobrietà, che è e deve essere anche prevenzione e cura psicologica del narcisismo.

Lo Stato, come incentivo, ci sia molto di più dove latita (nell’ordine pubblico, per esempio) e ci sia molto meno dove abbonda con paternalismo (tasse e burocrazia). Possibile che proprio riusciamo ad arrivarci?

La centralità della scuola 

L’altro elemento è il dibattito sulla cittadinanza agli stranieri con lo ius scholae. Trovo assurdo che l’onorevole Meloni parli di complotti per la sostituzione etnica: si tratta di menzogne populiste in chiave elettorale. Pensiamoci: saremo sempre di meno e sempre più anziani. A quale Italia del futuro stiamo pensando? Chi avremo come giovani leve dei prossimi anni che potranno versare i contributipensionistici per noi baby boomer? Già adesso, secondo l’ultimo Osservatorio Inps sul lavoro domestico, il numero delle badanti sta per superare quello delle colf (almeno, secondo i contratti regolari in essere, perché poi c’è il sommerso, ed è un’altra storia). Per cui, ragionare con intelligenza su come integrare gli immigrati (cinque anni di insegnamento ci possono stare) è una questione molto seria. 

Insoma, al di là di come andrà a finire la vicenda dello ius scholae, la scuola risulta peraltro quell'iconico territorio bloccato - come scrive bene l'economista Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, nel suo recente volume per Laterza - in cui tutti (a partire da sindacati) per decenni si sono prodigati nel difendere piccole riserve di privilegi senza guardare avanti. Della scuola dobbiamo invece interessarci tutti: famiglie, imprenditori, intellettuali, università.

L’assenza di futuro

Il nostro problema, infatti, è che nonostante tutto continuiamo a non ragionare di futuro. Osservate i movimenti dei nanetti da giardino della politica: sono brutti e dozzinali, non quelli della Disney; il loro orizzonte temporale non va mai oltre la più vicina campagna elettorale, cercando di sfruttare ogni possibile vantaggio per portare a casa qualche vantaggio. Scellerati, uno più dell’altro. Non bisogna fare di ogni erba un fascio, consapevoli oltretutto che non siamo i soli a vivere certe situazioni (anche al 10 di Downing Street, e da tempo, non sembrano in forma smagliante). Ma non consola.

Però, suvvia, serve uno scatto di orgoglio nell’Italia patria della creatività: avere Mario Draghi nei contesti internazionali a rappresentarci è per il momento molto meglio di altri pasticcioni (e immaginiamo che cosa debba trangugiare per senso delle istituzioni).

Il populismo non conduce da nessuna parte. La storia insegna (pur non essendo quasi mai maestra di vita) che porta a sbattere malamente il muso. Le forze democratiche e liberali autentiche lavorino per progetti seri, inclusivi, dando esempio di autorevolezza. Il Pd di Letta tesaurizzi il buon momento, ma si liberi da quell’armata Brancaleone dei 5Stelle. Dobbiamo gestire con serietà il PNRR, affrontare la coda della pandemia con polso (rendiamo i vaccini obbligatori e chiudiamola lì), districarci nel problema dell’energia senza combinare guai e sperando che il caos geopolitico si ricomponga. 

Sotto sotto, però, ognuno (a qualsiasi livello) deve smetterla di fare il nanetto brutto da giardino e ingrossare le fila del partito del 42%: astenersi. d'altronde, è sottrarsi a qualsiasi responsabilità, il che è riprovevole, grave eticamente come l'indifferenza. Perché l’Italia, nonostante i suoi drammi, è un Paese dove si può essere felici. E questo dobbiamo desiderare per chi verrà dopo di noi.