Il disegno di legge 2005/2020 – o Ddl Zan – riguarda “le misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. La proposta è stata approvata in prima lettura alla Camera il 4 novembre 2020 ed è ora all'esame della commissione Giustizia del Senato. Si tratta di un disegno di legge piuttosto agile (dieci articoli), con una struttura lineare, che prevede alcune modifiche alla normativa già esistente.
In particolare il Ddl Zan:
- chiede l’aggiunta dei reati di discriminazione basati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere o sulla disabilità” all’articolo 604-bis e 604-ter del Codice Penale, che puniscono l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi “razziali, etnici, religiosi o di nazionalità”;
- chiede la modifica dell’articolo 90-quater del Codice di Procedura Penale, in cui viene definita la “condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa” (attualmente l’articolo contiene solo la specifica relativa all’odio razziale), con una richiesta di aggiunta della locuzione “fondato sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”;
- chiede la modifica del decreto legislativo del 9 luglio 2003, numero 215, sulla parità del trattamento degli individui indipendentemente dal colore della pelle o dalla provenienza etnica, al quale aggiunge alcune misure di prevenzione e contrasto delle discriminazioni legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
I solchi
Malgrado la linearità del Ddl, il disaccordo morale e politico che si è acceso intorno ad esso sta scavando solchi profondi tra le persone, sostenitrici o detrattrici che siano. Chi lo sostiene argomenta a favore della necessità di garantire l’esistenza di tutele in grado di contrastare la discriminazione e la violenza basate sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità: le “aggravanti generiche” previste dall’art. 61 del codice penale, la cui applicazione è rimessa alla discrezionalità del giudice, e che dipende anche dalle concrete circostanze del caso, non possono sempre e in ogni circostanza essere considerate una tutela sufficiente (come i recenti e frequenti casi di cronaca peraltro attestano).
Vi sono casi in cui alcune persone devono essere tutelate, e uno dei riferimenti più diffusi è quello alle celebri “3P” (punire, proteggere, prevenire) promosse nel 2011 dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, e ratificate dal Parlamento italiano nel 2013.
Il “free speech”
Coloro che contrastano il Ddl Zan usano un argomento classico della teoria e della pratica liberale: la protezione del cosiddetto “free speech”, o libertà di espressione che – in forma di oltraggio morale – le tutele promosse dal ddl Zan metterebbero in dubbio e/o in pericolo. Una opinione, si sostiene in estrema sintesi, va protetta anche quando si tratta di opinione empia e oltraggiosa. La libertà di espressione protegge la libertà di esprimere opinioni e comunicarle, anche se sbagliate, offensive, e sgradevoli. La contro-risposta va nella direzione di affermare che – come sosteneva John Austin nel 1956 – “le parole fanno cose”, ovverosia non tutte, ma alcune opinioni legittimerebbero pratiche di oggettificazione, subordinazione e violenza effettiva, con violazione dei diritti dei singoli.
Non entrerò in questa disputa emersa intorno al Ddl Zan, non perché non la ritenga interessante (sono per esempio gli stessi argomenti al centro dell’ormai storico dissidio americano pro – Ronald Dworkin - o contro – Catharine MacKinnon - la pornografia), o perché voglia assumere un atteggiamento pilatesco.
Il caso Little Rock
Non entro nella disputa perché non ritengo che siano questi i termini giusti della questione, e per spiegarmi meglio mi affido a un caso storico: 1957, nel Sud degli Stati Uniti, nella comunità di Little Rock, vengono promosse le prime leggi anti-segregazioniste per provare a contrastare il profondo clima di disuguaglianza sociale e culturale che opprime il paese. Le rivendicazioni di carattere giuridico riguardano in particolare una serie di decreti legge interessati ad allargare il principio di uguaglianza alle “minoranze visibili” – in particolare le comunità nere – a partire da importanti riforme scolastiche. Hannah Arendt condusse una indagine attenta e coraggiosa (in Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, a cura di Jerome Kohn, Einaudi, Torino 2004, pp.238), osservando le scuole americane coinvolte nella riforma.
Il risultato s'intuisce nella foto che apre il mio articolo: una ragazza di colore ritratta mentre fa ritorno a casa, alla fine di una giornata passata in una delle nuove scuole miste. Ma è inseguita da una marmaglia che inveisce contro di lei. Dall’espressione del viso si capisce che non si sta divertendo particolarmente.
Il pensiero di Hannah Arendt
Arendt concluderà con queste coraggiose parole la sua riflessione su Little Rock: “ogni volta che lasciamo le quattro mura protettive di casa nostra e varchiamo la soglia del mondo pubblico, entriamo nella sfera sociale prima ancora che nel regno politico dell’uguaglianza… il problema, dunque, non è come eliminare la discriminazione, ma come tenerla dentro i confini della sfera sociale, in cui è legittima, e come evitare che trapassi nella sfera politica e in quella personale, in cui invece diventa distruttiva”. Perché questo riferimento a Little Rock, e quali sono, quindi, i termini giusti della questione? Il punto, il punto cruciale e indicibile che il ddl Zan ha reso esplicito – e personalmente considero questo disvelamento una enorme fortuna -, è il fatto che l’integrazione non può essere imposta per legge. La legge può abolire la possibilità di violenza, e abolire la possibilità di violenza è ovviamente di notevole importanza.
Bene. Ma…
Per questo, e solo per questo bisognerebbe accreditare il ddl Zan. Ma - ed è un “ma” che pesa - se il ddl Zan ha come scopo quello di agire contro la discriminazione sociale, se cioè si pretende da un disegno di legge che disciplini contesti sociali, si fallirà, come fallirono a Little Rock. Il governo può agire solo in nome dell’uguaglianza, un principio che non si radica nella sfera sociale: se dunque è urgente introdurre delle tutele, e quindi bisogna difendere il ddl Zan e la sua eroica proiezione nel futuro delle nostre identità plurali e della nostra integrità, non si può tuttavia chiedere al diritto qualcosa che il diritto – da solo – non può fare: imporre il rispetto. Un disegno di legge è solo il primo modo per garantire inclusione, perché è per suo tramite che si spiega quanto la battaglia contro violenza e discriminazione, contro la misoginia e l’omotransfobia, sia una battaglia sul rispetto e diventi, dunque, l’affaire de tous (et toutes).
L’ostilità
Ma la legge non è, non può, non deve essere responsabile né, di conseguenza, disciplinare le nostre sensazioni, percezioni, il nostro gusto, disgusto, e nemmeno il nostro senso del decoro, tranne nel caso in cui ciò comporti un danno fisico e oggettivo per chi ne subisca gli effetti.
La responsabilità, l’impegno e la competenza a distinguere tra un discorso ostile e un discorso dai contenuti effettivamente ostili, dunque forieri di azioni ostili e dannose, deve essere prima di tutto nostra. Se cioè è giusto che io voglia, rivendichi e pretenda di essere protetta da una aggressione alla mia persona, io non intendo essere protetta da qualsiasi attitudine ostile, né dai giudizi negativi che qualcuno potrebbe esprimere su di me.
Ecco la cattiva notizia: il principio di uguaglianza, persino nelle sue varianti migliori, non è onnipotente.
Non può appianare, per esempio, le differenze di natura fisica. La buona notizia riguarda l’evidenza solo quando le persone sono uguali, solo quando l’uguaglianza permea l’intero tessuto sociale, solo allora le differenze possono essere realmente sentite e acutizzate, soprattutto le differenze di coloro che sono visibilmente diversi da tutti gli altri, o che così si percepiscono. L’alternativa, non percorribile, è il dispotismo. Cosa fare, allora, per evitare che questa buona notizia diventi più cattiva della cattiva notizia?
In attesa di rompere definitivamente la catena di continuità tra gli aspetti fisici e gli aspetti mentali delle persone, mi affiderei ancora – solo per stavolta – ad Arendt, che nel 1975 scriveva: «Quando i nodi vengono al pettine, bisognerebbe cercare almeno di non far finta che non ci siano. Per amore della libertà».
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