Chiedo ospitalità per alcune considerazioni sull’articolo di Russo e Terna “Più dipendenti pubblici per far crescere l’Italia: la provocazione che sfida l’austerity” (Mondo Economico, 3 marzo), che a sua volta prende spunto dal mio intervento del 27 febbraio presso il Centro Einaudi. Condivido la maggior parte delle cose scritte dai miei due amici e colleghi, e soprattutto ne condivido la sostanza; però ritengo che l’articolo contenga qualche imprecisione, e che queste imprecisioni potrebbero indurre il lettore non abbastanza attento a un errore di valutazione.
Ecco i punti principali.
1. Russo e Terna sottolineano, giustamente, che dotare di più personale la pubblica amministrazione avrebbe effetti positivi anche sul funzionamento del settore privato, e questo essenzialmente per due motivi, il miglioramento dei servizi e l’aumento delle retribuzioni cui il settore privato sarebbe obbligato dalla concorrenza. Trascurano però un aspetto fondamentale, che è il seguente. E’ vero che in Italia mancano insegnanti, giudici e personale sanitario, ma la carenza più importante che emerge dal confronto con altri paesi riguarda gli impiegati amministrativi strictu sensu. In Italia ognuno di essi deve servire 51 abitanti, contro per esempio i 32 del Regno Unito, i 29 della Francia, i 35 della Spagna e i 25 della Germania. Questa carenza ha sicuramente molto a che fare (per esempio) col fatto che secondo la Banca Mondiale l’Italia è uno dei paesi in cui il doing business è più difficile: dietro di lei in Europa ci sono solo Bulgaria, Ucraina, Grecia, Albania e Bosnia-Erzegovina (oltre a Liechtenstein e San Marino). Paesi come la Russia (indagine precedente alla guerra), la Moldavia, la Bielorussia e la Turchia la precedono. Credo che sia importante cercare di smentire l’idea diffusa nell’opinione pubblica che in Italia nella pubblica amministrazione “ci sono troppi travet”, un’idea che rende difficile sul piano politico che il personale venga aumentato.
2. La proposta da me illustrata il 27 febbraio prevede un costo di circa 26 miliardi, da finanziarsi con un’imposta progressiva sulla ricchezza finanziaria con aliquota massima effettiva intorno all’1%. Russo e Terna suggeriscono che ciò potrebbe causare fughe di capitali e scoraggiare gli investimenti. E’questo un punto da approfondire, ma invito a considerare quanto segue. L’imposta dell’1% (con quota esente intorno ai 200.000 euro) sulla ricchezza finanziaria implica un esborso proporzionalmente molto piccolo, quasi sicuramente pagato attingendo alla liquidità precauzionale. Sembra difficile che qualcuno intenda cambiare cittadinanza per evitare un esborso così limitato – o le/gli conviene o no, ma è difficile che convenga o meno in funzione di un 1% (massimo) da pagare in più; e del resto non risulta che l’aumento dell’imposta di bollo (perché di questo sostanzialmente si tratta) che è stata portata qualche anno fa allo 0.2% abbia avuto particolari conseguenze negative. L’effetto deflattivo sarebbe quindi limitato alla minore disponibilità delle banche a concedere crediti, dovuta alla riduzione (dell’1%) dei conti dei principali contribuenti, presumibilmente trascurabile. Russo e Terna ricordano che a causa dell’imposta di solidarietà sulla ricchezza la Francia avrebbe perso ogni anno lo 0.2% del PIL, senza contare gli effetti moltiplicativi; ma questo dato va confrontato con l’aumento dell’1.5% circa che in Italia si avrebbe ipso facto a causa della trasformazione di ricchezza in reddito, e con effetti moltiplicativi presumibilmente maggiori.
In sostanza, mi pare che non si possa parlare in generale degli effetti negativi di un’imposta quale quella da noi suggerita senza confrontare questi effetti con quelli positivi, soprattutto in una situazione di emergenza quale quella in cui ci troviamo. Questa osservazione vale anche per i lavori citati (Saez e Zucman e Ocde, sui quali lo spazio, e suppongo la pazienza dei lettori, non sono sufficienti per approfondire il discorso).
Come dicevo più sopra, da una lettura non abbastanza attenta si potrebbe ricavare l’impressione che gli autori suggeriscano un taglio delle tax expenditures in alternativa all’imposta patrimoniale. Non mi intendo di tax expenditures, ma se valgono davvero il 4.4% del PIL vuol dire che ridurle in modo significativo è politicamente molto difficile (il log rolling può essere contrastato, ma è connaturato alla democrazia); sicuramente più difficile di quanto non sia adottare la nostra proposta, che riceve l’approvazione del 46,2% degli intervistati in un sondaggio SWG, contro il 29,1% di contrari (il resto sono “non so”). Del resto, che un’imposta patrimoniale sia ormai necessaria è ammesso anche dal Financial Times e dall’OCDE. Una revisione delle tax expenditures (di cui tra l’altro andrebbero presi in considerazione gli effetti recessivi) è probabilmente opportuna, ma non può essere attuata al posto di un’imposta patrimoniale.
Russo e Terna chiudono il loro articolo suggerendo che le assunzioni devono essere fatte con rigore, e cercando di minimizzare possibili effetti negativi. Su questo sono assolutamente d’accordo, e credo che i miei amici apprezzeranno la mia conclusione, che è la seguente: riforma delle procedure e aumento del personale devono essere complementari, e non possono essere considerate alternative. E’sbagliato fare “assunzioni lineari”, ma non è possibile migliorare seriamente l’efficienza della Pubblica Amministrazione senza prevedere un serio aumento del personale. Se un treno non funziona è inutile aumentare il numero dei macchinisti, ma per quanto il treno funzioni bene non potrà partire se mancano i macchinisti.
Detto ciò, tuttavia, vorrei ancora aggiungere qualcosa. Sappiamo che l’incidenza dell’imposizione fiscale sul PIL in Italia è particolarmente alta. Ma ciò è dovuto al servizio del debito e alla spesa pensionistica. Se si vuole rilanciare lo Stato sociale, o almeno evitare che collassi, occorre trovare il modo di aumentare le entrate fiscali e/o di ridurre le spese senza effetti deflazionisti e (giustamente) impopolari o comunque con il minimo possibile di essi. E’ necessario pensare a politiche innovative. L’imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria è una possibilità, ma ce ne sono anche altre che meriterebbero di essere esplorate: per esempio il congelamento del debito, la moneta fiscale e la tassazione delle transazioni. Il Centro Einaudi potrebbe utilmente stimolare la riflessione in materia.
*Guido Ortona, economista, è stato professore ordinario di Politica economica presso l'Università del Piemonte orientale.
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