La fine del Terzo Mondo, come concetto geopolitico, economico, culturale, non fu subitanea. La fu invece quella sconvolgente del secondo mondo, il ‘Socialismo Reale’, che rendeva di fatto inutile una tripartizione del globo. Il ‘secolo breve’ era finito: termine coniato da Eric Hobsbawm appunto per indicare un ventesimo secolo vissuto alla luce (o all’ombra) del progetto socialista. Iniziato con i bolscevichi nel 1917, finisce con la caduta del Muro a Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica due anni dopo.
La Storia è finita
La lettura del Terzo Mondo come termine fondamentalmente rivoluzionario era legata a tale progetto. Nei paesi postcoloniali che lo componevano, leader politici, intellettuali, attivisti e fintanto le masse popolari non potevano non condividere la postura anticapitalista e antiliberale dell’URSS: capitalisti e liberali erano i paesi europei che si erano lanciati nell’epopea coloniale. E poi loro, i sovietici, la rivoluzione l’avevano fatta. Il Terzo Mondo (ancora) no.
Ma la fine della guerra fredda dichiara come fallite le ricette anticapitaliste e antiliberali. Inaugura invece una fase storica definita dallo (stra)potere americano. Unica volta nella storia, all’inizio degli anni ’90 vi è una potenza la cui supremazia politica, economica, culturale non può essere sfidata. È, nella celeberrima sentenza di Fukuyama, ‘la fine della storia.’ La fine che diventa quindi il fine: non vi sono più rivali al sistema occidentale a guida americana, sistema che quindi si rivela come la teleologica conclusione della civiltà. Economia capitalista di libero mercato più democrazia liberale: senza più l’argine politico-ideologico sovietico, si poteva estendere questo sistema a tutto il globo. Ovvero, lo si poteva rendere globale: globalizzazione come occidentalizzazione di quelle aree che, geograficamente e storicamente, occidentali non sono, ma che si potevano inglobare (appunto) in virtù dell’universalismo dichiarato del progetto americano.
Gli anni ’90 sembravano davvero rappresentare la fase di compimento della storia: transizione dello spazio ex-sovietico (inclusa anche la Russia) verso istituzioni come libero mercato e libere elezioni; risoluzione del più lungo e intrattabile dei conflitti, quello Israelo-Palestinese (con gli Accordi di Oslo del 1993); inclusione del più grande paese del mondo, la Cina, nel sistema di produzione e distribuzione mondiale (compiuto con l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001). Accogliere la Repubblica Popolare si poneva, invero, come il coronamento di una strategia americana di globalizzazione economica che aveva già fatto proseliti in molti paesi (ex) terzomondisti. Emblematico in tal senso Enrique Cardoso: negli anni ’70 fu tra i principali esponenti della ‘Scuola della Dipendenza’, ovvero una teoria economica di impianto marxista che spiegava il sottosviluppo del Terzo Mondo come prodotto dello sfruttamento del capitalismo occidentale. La soluzione, si argomentava, per promuovere lo sviluppo era di recidere ogni legame con le economie del primo mondo. Nel 1994, eletto presidente del Brasile, Cardoso dichiara invece che l’adozione di politiche commerciali e monetarie di stampo liberista erano l’unico viatico per il progresso.
La Globalizzazione del Sud
Lo spazio un tempo definito come Terzo Mondo diventa quindi spazio di progressiva inclusione nel progetto globale e globalista americano. Uno spazio, grosso modo, a sud del nord sviluppato e dunque un sud che diventa, appunto, globale.
La scommessa della globalizzazione a guida americana era che fosse fondamentalmente possibile estendere al globo quanto fatto in Europa occidentale e Giappone dopo la fine della Second Guerra Mondiale. Detto altrimenti: adozione di un sistema economico capitalista; inserimento nel sistema di libero commercio e circolazione di capitali (e incarnato nelle istituzioni di Bretton Woods come Fondo Monetario, Banca Mondiale, Organizzazione del Commercio); promessa di sviluppo e prosperità. In cambio, una fondamentale rinuncia ad istanze di sfida politico-ideologica alla leadership americana in particolare e occidentale in senso lato. Corollario di questa prospettiva era la convergenza politico-istituzionale verso il modello democratico dei paesi che avrebbero accetto tale proposta. Paesi recalcitranti in questo senso potevano essere definiti come ‘stati canaglia’ (vedi l’inclusione in un ‘Asse del Male’ di Iraq, Iran e Corea del Nord nei primi anni duemila da parte di Bush Jr). Di riflesso, vi è stato un proliferare di studi sulla ‘democratizzazione’: prima o poi, ogni paese doveva adottare istituzioni liberali e democratiche. Se non era ancora successo, bisognava capire perché.
Negli ultimi trent’anni, la globalizzazione ha prodotto sì enorme crescita economica in tutto il mondo. L’economia capitalista, in quel senso, non ha al momento rivali. La povertà non è più un tema così discusso poiché, con tutti i distinguo del caso, quanto affermava Cardoso si è dimostrato vero nella maggior parte dei paesi del Sud Globale. Tuttavia, a questo fenomeno non sono seguiti né un’occidentalizzazione ideologico-politica, né culturale-valoriale. Il corollario di convergenza non si è rivelato tale.
È questa una considerazione che alle nostre latitudini può sembrare amara. Ma che, in controluce, suggerisce come l’afflato rivoluzionario terzomondista non sia invero scomparso con la ‘fine della storia’. Le ragioni storico-politiche di tale aspirazione non hanno generato una ‘terzia via’ rivoluzionaria; ma non per questo sono scomparse. Questa considerazione non implica che un progetto coerente e alternativo alla globalizzazione americana sia presente. Ma significa che un moto di protesta, di resistenza, financo di rifiuto violento di tale progetto fa parte di questa fase storica. Il termine Sud Globale rappresenta tale postura, e ne vuole indicare volontà, contraddizioni, possibilità.
Sud del mondo e modernità
Presso le opinioni pubbliche occidentali abbiamo avuto la prima, drammatica avvisaglia dell’esistenza di un rifiuto verso il progetto americano con l’11 Settembre. Al-Qaeda e altri gruppi jihadisti non hanno mai lontanamente rappresentato il mondo islamico in toto; riflettevano piuttosto uno dei tentativi (tra i più scellerati) di un progetto per ri-definire la modernità. Tesi coraggiosa questa proposta dal filosofo britannico John Gray quando titola un saggio ‘Al-Qaeda e cosa significa essere moderni’: la commistione di Islam e politica, il progetto ‘islamista’, altro non è che una ulteriore proposta di una terza via. Terza via caratterizzata sempre da un desiderio di affrancarsi da un dominio occidentale a livello ideologico, culturale e poi quindi geopolitico. E ancora una volta, articolata secondo una retorica anticoloniale. La globalizzazione è infatti percepita come progetto neo-coloniale; un progetto di cui non sfuggono pure le chiare venature imperialiste quando gli USA, in piena hybris da sola superpotenza, decidono di fornire ulteriori elementi a tali argomentazioni. Le invasioni di Afghanistan e Iraq nel 2001 e 2003 possono essere infatti lette come avventure coloniali: progetti di ingegneria socio-politica per rendere paesi altri conformi all’ideologia della fine della storia. Parallelismi, più o meno espliciti, ma comunque vertiginosi, con l’esperienza occidentale suggerivano una visione del mondo secondo canoni alieni a tali paesi: l’universalismo neoconservatore si chiedeva per esempio perché, una volta rimosso Saddam come si era rimosso Hitler, l’Iraq non potesse diventare una replica della Germania Ovest dopo il 1945.
È questo un errore di fondo che il concetto di Sud Globale intende mettere in risalto e contestare in modo fondamentale. La visione su cosa debba essere il mondo non può essere decisa tra Londra, Mosca, Tokio e Washington: secondo Kissinger, niente nella storia avveniva al di sotto di una linea che univa idealmente queste capitali. La contestazione di tale prospettiva viene poi ulteriormente rafforzata da due fatti. Primo: la grande maggioranza dell’umanità non ha scritto tale progetto. La demografia è un monito stentoreo rispetto alle pretese di centramento della globalizzazione nell’occidente. Occidente che, includendo anche paesi come Giappone, Corea del Sud e Australia, che ne fanno parte certamente parte per istituzioni quando certo non per geografia, conta circa un miliardo di abitanti. L’India da sola ne ha un terzo di più. L’Africa negli anni ’80 aveva meno abitanti dell’Europa. A fine secolo, ne avrà oltre quattro volte. Se non per un breve momento storico – quello dell’espansione coloniale europea dopo l’avvento combinato di capitalismo finanziario e rivoluzione industriale – l’umanità non è mai stata a maggioranza occidentale. Il Sud Globale ci vuole ricordare che viviamo in una parentesi storica.
Secondo: il Sud Globale non è più sottosviluppato. O meglio: gli stereotipi terzomondisti su povertà diffusa rimangono veri, ma solo in determinati contesti, e solo in relazione a processi di sviluppo tanto iniqui quanto tumultuosi, favoriti proprio dalla globalizzazione. Il decentramento occidentale non è quindi solo demografico, ma anche economico. La Cina ha un PIL paragonabile all’UE. L’India ha da tempo superato gli ex-padroni britannici. Quando parliamo di economie emergenti, parliamo appunto di economie che, a differenza proprio di quelle europee, sono vitali e dinamiche. Sulla scorta di tutto questo, il Sud Globale ci pone la questione: perché attenerci a regole, valori, visioni e progetti scritti per noi da altri? Perché non credere che possiamo scriverli noi stessi?
Rivoluzione e Storia
Il momento storico che stiamo vivendo sottolinea l’urgenza di tali domande. Torniamo alle tre questioni-simbolo con cui si aprirono gli anni ’90, questioni che dovevano annunciare la fine della storia. Orbene: la Russia ha categoricamente rifiutato l’invito alla rinuncia di ambizioni geopolitiche. La Cina è entrata nella globalizzazione non per sottoscriverne le regole, ma per riscriverle. Infine, la questione Israelo-Palestinese è l’epitome dello iato che separa le sensibilità occidentali da quelle dell’universo dei paesi postcoloniali, che considerano Israele solo l’ultimo e più palese esempio di colonialismo europeo. Sensibilità che ripropongono gli stessi temi che ancora una volta Edward Said aveva evidenziato nel 1981 nel saggio ‘La Questione della Palestina’.
Si è parlato, anche su Mondo Economico, di attori come i BRICS. Questi vogliono trasformare le istanze del Sud Globale in un progetto geopolitico concreto. Un’analisi attenta dei BRICS non può che rilevarne le deficienze strutturali: troppa l’eterogeneità dei paesi che ne fanno parte. Un’eterogeneità congenita allo spazio che vogliono guidare – prima il Terzo Mondo, ora il Sud Globale. Un tempo Bandung, ora i BRICS.
Eppure, se la rivoluzione Terzomondista non è avvenuta, è altrettanto vero che le istanze, speranze e aspirazioni che la nutrivano non sono scomparse. Si sono riarticolate nel nuovo concetto di Sud Globale, prodotto delle dinamiche post-guerra fredda. Possiamo concludere con una risposta, forse un po’ semplicistica e furbesca, di coloro i quali dovevano spiegare perché, alla fine, una rivoluzione considerata inevitabile non fosse accaduta: “la rivoluzione non è un evento; è un processo”. È legittimo credere che stiamo assistendo a tale processo. La storia non è finita negli anni ’90. Il Sud Globale indica il desiderio di leggere la storia del Novecento secondo colonizzazione e de-colonizzazione; e di scrivere da attore principale quella del tempo che andiamo vivendo.
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