È entrato da qualche anno nel nostro vocabolario il termine ‘Sud Globale’: che realtà indica? Perché è emersa questa locuzione? Proponiamo una serie di due approfondimenti per rispondere a queste domande. In questa prima parte discutiamo dell’espressione che in precedenza era usata per indicare, grosso modo, le stesse aree del pianeta: il Terzo Mondo. Nel prossimo approfondimento, tratteremo invece di come il termine ‘Sud Globale’ sia andato a formarsi e che cosa ci suggerisca rispetto al mondo in cui viviamo.
Le due espressioni hanno una caratteristica comune, per noi pubblico italiano: sono i posti ‘altri’ da noi. L’Italia non era un paese del Terzo Mondo e non fa parte del Sud Globale. Un po’ inevitabilmente, questi termini ci propongono infatti immagini che conosciamo come stereotipate: prima tra tutte la povertà endemica, l’opposto del benessere diffuso che noi conosciamo, risultato di economie fondamentalmente pre-industriali; instabilità politica, rispetto alla calma relativa delle nostre società; connesso a questo, governi autoritari, o comunque corrotti, invece della democrazia liberale a noi così familiare; una demografia sociale che ci presenta famiglie allargate, numerose, con alti tassi di natalità e mortalità. E in ultimo, ma forse più importante di tutto il resto, un’alterità culturale profonda, esemplificata spesso da altri credo religiosi come islam – in primis – induismo, buddhismo, culti animisti, e via discorrendo.
Said e l’Orientalismo
Come tutte le immagini stereotipate, ha un fondamento nel reale. Come tutte le immagini stereotipate, tale fondamento è al più tenue. In effetti, ostacola una comprensione più veritiera della realtà. Non solo. In uno dei testi accademici più influenti del Novecento, lo studioso palestinese-americano Edward Said poneva la questione come ‘orientalismo’: ovvero, la rappresentazione di tutto ciò che è ‘Oriente’ da parte della cultura popolare e accademica occidentale come irrimediabilmente ‘altro’ e al tempo stesso ‘inferiore’. Said faceva riferimento soprattutto al mondo arabo-musulmano dal quale proveniva (sebbene egli stesso fosse cristiano). Ma la sua idea di fondo trovò ampio credito in tutta quella parte di mondo che non era Europa o Stati Uniti. Secondo Said, una serie di rappresentazioni secondo i caratteri dicotomici poc’anzi elencati non erano invero semplici e innocenti – per quanto grossolani – tentativi di descrivere una realtà diversa. Erano anche esercizi per produrre del sapere rispetto a quei luoghi per poterli controllare. Said fa riferimento a Napoleone nella campagna d’Egitto, a noi nota tramite i versi di manzoniana memoria ‘dall’Alpi alle Piramidi’. Napoleone non portò con sé solo soldati: ma anche un esercito fatto di geografi, filologi, storici, archeologi, botanici, ingegneri, architetti. La sua idea era di mappare l’Egitto (la sua terra, la sua gente) per capire come meglio soggiogarlo. Frutto dell’Illuminismo, tale disposizione combinava da una parte la fiducia in scienza e conoscenza basate sullo studio empirico e razionale del reale; dall’altra, la convinzione che tale disposizione rappresentasse l’uscita dall’oscurantismo e dalla barbarie, una marcia oggettiva verso il progresso umano. Altri popoli, non ancora a tale stadio di sviluppo, potevano accettare e adeguarsi; oppure, venire assoggettati per il loro stesso bene.
Said vede quindi nell’orientalismo la forma mentis capace di sostenere il progetto coloniale.
Il Colonialismo
È infatti impossibile parlare di Terzo Mondo senza parlare del colonialismo di matrice europea. Pressoché ogni angolo del globo lo ha conosciuto ad un certo punto della propria storia; i pochi che non ne hanno fatto esperienza diretta (esempi importantissimi: Cina, Turchia, Iran, Arabia Saudita) si rapportavano comunque alle potenze coloniali in modo non dissimile dalle colonie formali. Basti ricordare come la Cina consideri ancora il diciannovesimo secolo come quello delle ‘umiliazioni’; e come in Iran si sia coniato il termine ‘gharbzadegi’ che fonde ‘occidentalizzazione’ con ‘intossicazione’.
Nella coscienza pubblica europea si tende a sottovalutare quanto il colonialismo abbia plasmato il mondo in cui viviamo e come ci relazioniamo ad esso. Le potenze ex-coloniali possono considerarlo una fase della loro storia. Per le ex-colonie, è il momento fondante della propria. Gli stati che compongono la gran parte del planisfero sono ex-colonie divenute indipendenti. Sono diventati stati sovrani proprio in virtù della resistenza e del rifiuto del progetto coloniale che li ha creati. È stato questa una genesi quantomai problematica: non si trattava infatti di tornare all’epoca pre-coloniale; ma di fare proprie di una serie di istituzioni e concetti (sovranità, stato-nazione, sviluppo, legislazione e giurisprudenza positiva, secolarismo, individualismo, democrazia) che fino al giorno prima erano strumenti di oppressione e controllo allogeno. Erano i concetti usati dai colonizzatori per giustificare il loro dominio. Colonizzare era non solo possibile, ma anche giusto. Popoli e culture inferiori, ancora escluse dal progresso scientifico, sociale, economico e morale europeo, non potevano che beneficiare dalla colonizzazione.
Nessun testo più vividamente de ‘I Dannati della Terra’ di Frantz Fanon, psichiatra, saggista e filosofo della Martinica, articola il rifiuto della tesi coloniale. Un rifiuto violento sia in senso pratico, sia intellettuale e morale.
L’emersione del Terzo Mondo
Il colonialismo finisce per vari motivi. Le potenze coloniali europee, dopo la Seconda Guerra Mondiale, non hanno più le capacità (economiche, finanziarie, militari, burocratiche) di amministrare territori tanto vasti. Specie quando movimenti di liberazione nazionale, dall’India all’Algeria, diventano movimenti di massa. È un’incapacità fondamentalmente politica di mantenere gli imperi coloniali: l’Europa ha chiuso la sua parabola di centro del mondo, che ha mantenuto per quasi duecento anni, nel 1945. Il suo progetto (fondato su liberismo, democrazia, capitalismo) continua però a vivere in un’altra potenza occidentale, che ha fondamentalmente le stesse istituzioni, valori, pratiche: gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, un altro progetto, sempre di matrice europea, si impone alla ribalta mondiale quando l’Unione Sovietica pure vince la guerra. Un progetto fondato questa volta su socialismo, partito unico di massa, ed economia pianificata statale.
L’inizio della guerra fredda è appunto lo scontro tra due sistemi che si vogliono mondiali, ecumenici: al primo mondo americano, capitalista e liberale, si contrappone il secondo mondo, sovietico e socialista. Divisione plasticamente rappresentata dalla cortina di ferro che taglia l’Europa, ormai oggetto di altre potenze, in due tronconi.
Se questi sistemi si vogliono universali, ecco che devono rivolgersi a quei paesi che, formalmente, non fanno parte né dell’uno, né dell’altro campo: un mondo appunto ‘terzo’, altro rispetto al mondo occidentale e a quello del socialismo sovietico.
Alfred Sauvy, economista francese, conia appunto all’inizio degli anni Cinquanta la celebre espressione in riferimento esplicito al ‘terzo stato’, ovvero quella parte di società francese che fece la rivoluzione contro nobiltà e clero. Un termine, dunque, che contiene in sé potenziale rivoluzionario: ideali di liberazione dall’oppressione, giustizia sociale e proposta di un progetto politico alternativo.
Tutto questo confluisce nella celebre conferenza di Bandung, in Indonesia, dove nel 1955 si crea il Movimento dei Paesi non Allineati (NAM nell’acronimo inglese). Sotto la spinta dell’indonesiano Sukarno, dell’indiano Nehru, dell’egiziano Nasser e dello jugoslavo Tito (unico rappresentante dell’Europa), un gruppo di 24 paesi (oltre ai citati, Algeria, Cuba, Congo, Etiopia) intende forgiare un progetto proprio per rispondere alle sfide di sviluppo, di stabilità politica e di effettiva indipendenza specifiche del mondo post-coloniale. A tutt’oggi, il NAM conta 120 paesi tra membri effettivi e osservatori (tra cui vi sono Cina, Brasile e pure Russia: ci torneremo nel prossimo approfondimento).
È la nascita del ‘Terzo Mondo’: un termine che racchiude aspirazioni all’unità basate su una comune eredità (quella coloniale) e comuni problemi (quelli di un’arretratezza economica che era evidente nei confronti sia del primo, ma anche del secondo mondo). Questa base comune permetteva di inquadrare i paesi del NAM come appartenenti ad uno stesso spazio geopolitico: una subalternità rispetto soprattutto al primo mondo, condizione che si voleva risolvere proprio in senso rivoluzionario, se non nei modi, se non altro nei fini. L’adozione peraltro del termine ‘subalterno’, molto popolare nei contesti postcoloniali, specie nell’Asia meridionale tra Pakistan, India e Bangladesh, fa esplicito riferimento al lavoro di Antonio Gramsci. Il filosofo sardo, una volta rese disponibili in inglese le sue riflessioni carcerarie, diventa infatti un punto di riferimento per molti attivisti, accademici, intellettuali terzomondisti (lo stesso Said lo riconoscerà come un’ispirazione chiave nell’elaborare il concetto di orientalismo).
Suez e geopolitica
L’apice del terzomondismo non allineato si avrà subito dopo Bandung. La crisi di Suez del 1956 comporta quanto segue. Primo, l’esclusione di Gran Bretagna e Francia dagli affari mediorientali, e pure la loro definitiva relegazione a potenze di secondo rango. Secondo e di contro, la definitiva e conclamata ascesa di USA e URSS ad arbitri dei destini mondiali. Terzo, l’effimera ascesa di Nasser quale leader del fronte terzomondista. Proprio su quest’ultimo punto vale la pena soffermarsi. Nel momento in cui Washington e Mosca, di comune accordo, impongono a Israele, Francia e Gran Bretagna di ritirarsi dal Sinai che avevano appena occupato, l’Egitto si trova nella curiosa posizione di poter vantare una vittoria contro le vecchie (Francia e Gran Bretagna) e nuove (Israele) potenze coloniali (lo stato ebraico è percepito come tale). Una clamorosa vittoria politica che nasconde in maniera effimera – e dunque per poco tempo – l’effettiva potenza egiziana dal punto di vista economico e militare. Una potenza che tale non era.
Mutatis mutandis, per tutta la guerra fredda questo è vero per ogni paese ex-coloniale del Terzo Mondo. Alle aspirazioni di indipendenza, emancipazione, sviluppo, nuovo corso fanno da contraltare condizioni oggettivamente misere per quanto riguarda prosperità economica, funzionamento dell’apparato statale, coesione nazionale interna.
Le difficoltà di ogni singolo paese peraltro non possono venire superate da tentativi come il NAM, o l’istituzione della Conferenza per il Commercio e lo Sviluppo all’ONU (UNCTAD) proprio da parte dei ‘paesi in via di sviluppo, o la creazione del Gruppo dei 77.
Questi tentativi falliscono perché, allora come oggi, l’eterogeneità dei paesi e dei popoli del Terzo Mondo prevale su quanto abbiano effettivamente in comune. Val la pena ricordare un fatto banale: la grande maggioranza dell’umanità fa parte di questo spazio geopolitico. Dunque uno spazio immenso e variegato. Alla relativa omogeneità istituzionale, culturale e valoriale dell’occidente si contrappone la diversità profondissima in seno al Terzo Mondo. Solo un trucco orientalista (ancora una volta Said) di considerarlo un omogeno ‘blocco’ in virtù del suo essere non occidentale/colonizzato poteva far pensare di renderlo un soggetto politico coerente. Trucco nel quale sono caduti prima le potenze coloniali, e poi paradossalmente proprio le ex-colonie.
Quel che accade invece è l’avvicinarsi di questo o quel paese verso una delle due superpotenze. Questo comporta il progressivo sfilacciamento del progetto terzomondista nato a Bandung. Quanto accade nel mondo arabo esemplifica questo processo: Malcolm Kerr, studioso americano di stanza a Beirut, scrive nel 1966 di una ‘guerra fredda araba’. Alle monarchie (Arabia Saudita, Giordania, Marocco) che si schierano con gli USA, si contrappongono le repubbliche (Egitto, Iraq, Siria, Algeria) che sembrano ispirarsi a principi socialisti.
Più tragicamente, il Terzo Mondo diventa anzi teatro di sanguinosi conflitti che rendono la guerra fredda tale solo alle nostre latitudini. La tensione tra il primo e il secondo mondo genera pace all’interno di essi, ma violenza nel Terzo Mondo. Corea, Vietnam-Cambogia-Laos, Afghanistan, Congo, India-Pakistan, Iraq-Iran, Angola, Salvador, Mozambico, solo per citare i più noti: guerre civili, guerre interstatali, interventi delle superpotenze – il risultato non cambia. La brutale logica della geopolitica tra il 1945 e il 1991 non permette l’emersione del Terzo Mondo oltre lo status di uno spazio di aspirazioni per un mondo diverso. Una terza via non è data. Il Terzo Mondo, a differenza del Terzo Stato, non fa la rivoluzione.
Con la fine della guerra fredda, sembra proprio che, in fondo, solo una via sia possibile – per il Terzo Mondo come per l’umanità intera. È quanto andremo ad esplorare nel prossimo approfondimento.
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