A partire dal Concetto Strategico della NATO del 2022, approvato nel Vertice di Madrid del 22 luglio, si è chiaramente notato un cambio d’atteggiamento nei confronti della Cina, definita come portatrice di sfide "sistemiche" agli interessi, alla sicurezza e ai valori della NATO, pur restando ferma la necessità di un dialogo costruttivo con Pechino. Nello stesso vertice furono invitati a partecipare per la prima volta i capi di governo di Australia, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda, portando la NATO a considerare spazi strategici ben oltre quello dell’Afghanistan, da cui ci si era ritirati appena un anno prima, sconfitti dopo vent’anni di guerra e con la diffusa intenzione di concentrarsi sui confini fisici dell’Alleanza.
Si tratta di un’evoluzione importante rispetto alla prima menzione della Cina nel Vertice di Londra (2019), in cui si parlava di “opportunità e sfide che è necessario trattare assieme come Alleanza”.
Tuttavia la svolta spettacolare è arrivata dopo decenni di preparazione e partenariati basati su interessi molto diversi da quelli attuali. Tokyo, infatti, aveva condotto dei primi sondaggi verso un rapporto con la NATO addirittura nel 1983, bloccati da Parigi che insisteva sui limiti geografici del Trattato di Washington. Per i giapponesi il problema era il ritiro di armi nucleari sovietiche dall’Europa e il loro possibile ridislocamento in Asia; tuttavia sette anni dopo ci fu la prima visita di un Segretario Generale (Manfred Wörner), seguita da regolari contatti tra funzionari di alto livello. Due conflitti accelerarono il movimento verso una collaborazione: la dissoluzione della Jugoslavia e l’inizio della seconda guerra in Afghanistan (2001); soprattutto in questa il coinvolgimento giapponese nel coordinamento dei donatori fu rilevante. Nel 2007 vi fu la prima visita di un primo ministro giapponese al Quartier generale della NATO. Sette anni dopo, un salto di qualità con la firma di un accordo individuale di partenariato su nove temi: cyber, controllo degli armamenti e non proliferazione, assistenza umanitaria e soccorso nei grandi disastri, sicurezza marittima e controterrorismo. Nel 2018 fu aperta una missione giapponese presso l’Alleanza.
Il 2014 fu un anno importante anche per gli altri tre partner pacifici menzionati in precedenza (con l’eccezione della dimenticata Colombia, partner formale dal 2019 dopo sei anni di preparazione) perché l’aggressività cinese nel Mar Cinese Meridionale, insieme ai minacciosi lanci missilistici della Corea del Nord, avevano spinto quei governi ad ampliare la propria gamma d’interlocutori strategici oltre il rapporto bi- o mini-laterale con gli USA (p.e. Five Eyes dal 1941, o ANZUS, 1951).
L’Australia aveva cominciato i primi contatti nel 2005, ma solo nel 2013 fu concordato un programma individuale di cooperazione, approfondito nel 2023. Per un decennio Canberra fu direttamente presente nel teatro afghano (ISAF) sino al 2014, sostenendo poi la successiva missione NATO (RSM) sino al 2021. Nel frattempo ha cooperato in Mediterraneo (Operazione Sea Guardian), Iraq e Corno d’Africa (Operazione Ocean Shield). I suoi interessi toccano: interoperabilità, tecnologie emergenti, sicurezza energetica, cyber, minacce ibride, resilienza, Donne Pace e Sicurezza.
Per quanto riguarda Seul, le tappe si riassumono in: dialogo (2005), programma di partenariato (2012), approfondimento del partenariato (2023). I suoi interessi riguardano: non-proliferazione, cyber, controterrorismo, interoperabilità, difesa NBCR (nucleare, biologica, chimica e radiologica) e cooperazione tecnico-scientifica. Un percorso analogo ha compiuto la Nuova Zelanda: dialogo e cooperazione (2001), programma di partenariato (2012), Partnership Interoperability Initiative (2014, insieme ai tre precedenti stati). Anche nell’espressione degl’interessi possono trovarsi comunanze: difesa cyber, sicurezza marittima, cooperazione tecno-scientifica, sicurezza climatica, Donne Pace e Sicurezza.
Sulla carta, ci sarebbero tutti gl’ingredienti per una bella storia di propaganda: l’Alleanza, non contenta d’accerchiare la Russia con le sue basi nel mondo, estende i suoi tentacoli guerrafondai nell’Indo-Pacifico ai diretti ordini del suo grande mandante americano. Ma la realtà è assai più prosaica delle semplificazioni paranoiche e anti-militariste.
Intanto i quattro partner, oltre agl’interessi espressi esplicitamente con la NATO, ne hanno uno inespresso, cioè evitare di antagonizzare la Cina. Interesse de facto condiviso dal consenso che emerge nel NAC (North Atlantic Council), il massimo organo decisionale civile e politico della NATO, perché se si è d’accordo nel monitorare e comprendere meglio la situazione “ad Est di Suez”, lo si è anche nel mantenere aperto un canale di dialogo, evitando inutili screzi con Pechino.
Contrariamente a facili paralleli col defunto Patto di Varsavia ad egemonia sovietica incontrastata, nell’Alleanza si decide tutto per consenso, anche le questioni più minute, il che significa che, pure se un piccolo stato dice no, è un no con il quale si deve negoziare. E contrariamente alle pulsioni muscolari anti-cinesi dei media di alcuni paesi alleati, la NATO è molto prudente nelle sue mosse, persino di carattere simbolico. Basti pensare che l’idea di aprire un ufficio di rappresentanza a Tokyo è stata rimandata a data da destinarsi. A parte le prevedibili reazioni preventive di Pechino sulla questione (dure proteste politiche e diplomatiche), un ufficio di collegamento in Giappone non può essere più minaccioso dell’analogo ufficio di collegamento in Serbia o di quello con l’Unione Africana in Addis Abeba. Ha una sua valenza politica, ma i suoi effetti non possono essere che molto limitati.
Quindi, tutte le esercitazioni e i dislocamenti navali nel Pacifico, cui partecipa utilmente la stessa Marina Italiana (anch’essa molto attenta ai dettagli simbolici), sono iniziative mini-laterali ad hoc, spesso intorno alle forze Usa, ma non sono attività della NATO; esattamente come le misure prese dopo gli attacchi selettivi della milizia yemenita Houthi ad alcune navi con destinazioni specifiche o battenti bandiere bandite dalla milizia.
Verso dove può, ed è concepibile che possa andare, la relazione degli alleati con l’Indo-Pacifico? Le soluzioni pragmatiche pensate in modo ancora non ufficiale dai nostri alleati nordamericani sono note, mancando però di un’elaborazione politica e concettuale intorno agl’interessi degli Alleati nel loro complesso, pena l’indebolimento politico della NATO. Tre sono le questioni di rilievo: Oceano Indiano, reti di sicurezza nel Pacifico, prevenzione di crisi e deterrenza.
C’è un elefante nella cristalleria, tanto grosso quanto ancor più taciuto, ed è indiano (o bharati in hindi). Specie per noi italiani, non è un mistero che Nuova Delhi consideri non solo la ZEE (Zona Economica Esclusiva) come acque territoriali (pretesa non riconosciuta da nessuno), ma tutto l’Oceano Indiano come una propria zona di responsabilità strategica. Finché si muove la US Navy, non sono immaginabili obbiezioni di sorta, ma appena le marine europee dovessero intensificare la loro presenza senza un quadro chiaro di rapporti con le autorità indiane, potrebbero sorgere problemi politici considerevoli. L’India non è partner della NATO e non è prevedibile che lo diventi in alcun modo.
L’Oceano Pacifico, dal canto suo, presenta due paradossi: aveva due organizzazioni collettive di difesa incentrate non a caso nel Sud Est Asiatico, ma oggi ne rimane una sola con limitate capacità. La prima si chiamava SEATO (South East Asia TO), sulla falsariga della NATO, e durò dal 1954 al 1977, sciolta due anni dopo la sconfitta Usa in Vietnam. La seconda è l’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations), che dura dal 1967 e che però, con la fine della Guerra Fredda nel 1989 e l’ascesa della Cina con conseguente competizione tra RPC e USA come grandi potenze, vive in un dilemma. Da un lato vuole una rassicurazione statunitense di fronte all’aggressività cinese, dall’altro evita in tutti modi di essere percepita come uno strumento ostile a Pechino.
Il secondo paradosso è che il patto di Manila (base legale per la SEATO) è tutt’ora in vigore e lega Australia, Filippine, Francia, Nuova Zelanda, Pakistan, Regno Unito, Thailandia e Usa con un articolo IV che somiglia molto all’articolo 5 del Patto Atlantico. In caso di attacco, la parti si consultano per concordare la migliore reazione possibile, tenendo conto di: vincoli costituzionali, consenso del paese attaccato e rapporti col Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ironia della politica, Bangkok è il paese con le relazioni più amichevoli con Pechino (anche se equilibrate), mentre altri paesi della regione in contrasto con la Cina sono assenti e Manila approfondisce piuttosto le relazioni bilaterali e mini-laterali con gli Usa.
Come è diventata una tendenza nella politica statunitense con la guerra del Kuwait (1990-1991, seconda guerra del Golfo) e gli attriti nella pianificazione dell’attacco aereo alla Repubblica Federale Jugoslava (1999), Washington preferisce le più agili coalizioni, prima di convincersi a impiegare strumenti legalmente cogenti. In questo teatro c’è stata una proliferazione di organismi mini-laterali: QUAD (Australia, Giappone, India, Usa, rivitalizzato nel 2017), QUAD + (Brasile, Corea del Sud, Israele, Nuova Zelanda, e Vietnam, 2021 durante la pandemia), AUKUS (Australia, Regno Unito, USA, 2021), il patto trilaterale tra Giappone, Filippine e Usa (2024, colloquialmente chiamato JAPHUS), cui si sommano meno noti ma non meno significativi accordi bilaterali o multipli tra Usa e PIC (Pacific Islands Countries), seguiti da analoghe intese sotto egida australiana. Le piccole nazioni insulari del Pacifico sono state il terreno di scontro della campagna del Pacifico nella II Guerra Mondiale e sono considerate essenziali per basi aeronavali e missilistiche. Scordiamoci la “mistica” del D-Day e ricordiamoci che per Washington il Pacifico è stato l’alfa e l’omega del Secondo conflitto mondiale.
Non ci vuole molto a capire che questa serie di accordi, benché sostanzialmente pensati per contenere l’assertività strategica cinese nel controllo delle proprie vie marittime, non possa avere la stessa valenza di più strutturate organizzazioni collettive e non possa nemmeno colmare il vulnus dell’uscita degli Stati Uniti dall’accordo commerciale Trans-Pacific Partnership (ora Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership), avvenuto sotto presidenza Trump. Questo accordo, immaginato da Barack Obama per neutralizzare l’influenza economica cinese, è comunque continuato con l’ingresso del Regno Unito nel 2023 e la richiesta della Cina di entrarvi, senza la presenza di Washington, e senza alcun serio tentativo di Biden per rientrarvi, per l’opposizione repubblicana e democratica. Sovrapporre a questo patchwork i quattro partenariati NATO implicherà qualche problema di coerenza sistemica nel Pacifico e possibili tensioni tra alleati.
In tale contesto si pone una domanda di fondo: qual è la funzione della NATO nell’Indo-Pacifico? Le azioni della Cina sono una base parziale e solamente reattiva, ma sono gli Alleati che insieme devono ancora definire chiaramente i contorni dell’azione collettiva vera e propria. C’è chi pensa che il baricentro dell’adattamento della NATO sia la sua attività in un ambiente definito da competizione e deterrenza nella concorrenza tra grandi potenze; è un’ipotetica risposta politica che però elude il consenso alleato. Tre sono i compiti essenziali (core tasks) stabiliti nel Concetto Strategico del 2022 dell’Alleanza: difesa e deterrenza degli alleati (e solo di questi); prevenzione e gestione delle crisi, sicurezza cooperativa. In concreto, la deterrenza e la difesa della NATO si esercitano entro i limiti geografici europei e non altrove, escludendo anche i domini/territori d’oltremare di Francia e Regno Unito nell’Indo-Pacifico.
La prevenzione delle crisi è stata un’idea introdotta proprio nel Concetto Strategico 2022, integrando quello precedente, limitato alla sola gestione delle crisi. La sicurezza cooperativa è la formula che copre la rete di attività dei partenariati dell’Alleanza con grandi organizzazioni (Onu, OSCE, UE) e con 42 paesi (inclusi partner sospesi come Afghanistan e Russia). Le prime tre priorità sono: aumentare la sicurezza, la pace e la stabilità euro-atlantiche; promuovere la sicurezza e cooperazione regionale e facilitare la cooperazione su temi di comune interesse, inclusi sforzi internazionali per affrontare sfide di sicurezza emergenti.
Nelle discussioni tra centri studi nordamericani ed europei circola l’idea che l’Indo-Pacifico vada gestito essenzialmente con una condivisione di responsabilità (responsibility sharing), che in pratica si tradurrebbe in un rimpiazzo (backfilling) di truppe statunitensi dislocate nel Pacifico con truppe di alleati europei in Europa. Lasciando da parte alcune dichiarazioni di Trump che mettono in chiara luce un desiderio di disgiungere la sicurezza alleata (il famoso D come Decoupling di Madeleine Albright), ogni condivisione ha senso se aumenta la solidità della deterrenza alleata, che resta indivisibile se vuole essere creduta seriamente da potenziali nemici. Durante la guerra del Vietnam (1965-1975), le truppe statunitensi in Europa al diretto confine con il Patto di Varsavia, furono drasticamente ridotte per esigenze in Indocina e senza rimpiazzi europei, fortunatamente senza conseguenze per la deterrenza NATO, nonostante la sproporzione a favore dei sovietici e dei loro satelliti. A sentire commentatori baltici e polacchi, oggi questo scenario aumenterebbe i rischi di un attacco russo; è un’opinione, ma la presenza di truppe nordamericane è indispensabile politicamente e strategicamente anche se gli stati europei raddoppiassero le loro forze terrestri di pronto impiego. Ieri come oggi, la deterrenza ultima dell’arsenale strategico statunitense è la chiave di volta dell’art. 5 del Trattato Atlantico.
In questo rimpiazzo rientrerebbero anche robusti contributi aeronavali europei nelle acque adiacenti il Vecchio Continente e più limitati contributi aeronavali nell’Oceano Indiano (essendo quelli nel Pacifico minimi). Tutto questo pone un dilemma politico e strategico: il rinforzo delle unità Usa nel Pacifico costituisce deterrenza nazionale e degli alleati regionali verso la Cina oppure aumenta le possibilità di un conflitto? La risposta temporanea è che nessuno vuole un conflitto che, con grande probabilità, diventerebbe mondiale, il quarto dopo la cosiddetta Guerra Fredda.
In conclusione, la strategia della NATO e dei suoi partenariati nell’Indo-Pacifico ruota precisamente intorno alle sue funzioni essenziali di prevenzione delle crisi e sicurezza cooperativa. Quindi, le varie attività di sicurezza cooperativa possono servire a diluire la competizione sino-americana nel Pacifico in un quadro di cooperazioni che possono coinvolgere interessi anche comuni anche ad avversari (come è avvenuto con la Russia) o a paesi con limitato riconoscimento internazionale. Attività di schieramenti temporanei ed esercitazioni, sostenute dal quadro NATO, ma attuate in altre modalità possono aiutare nella prevenzione di crisi, contribuendo a disinnescare pericolose spirali tra Pechino e Washington. In altri termini, la dottrina Harmel (deterrenza e dialogo), così efficace durante la Guerra Fredda in Europa, nel Pacifico verrebbe riformulata in “prevenzione e sicurezza cooperativa per il dialogo”.
Nota: le valutazioni dell'autore sono personali e non coinvolgono la NATO o nessuna delle sue agenzie.
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