Il tema demografico è ormai entrato, giustamente, a pieno titolo nel dibattito politico. Spesso associato, temerariamente, al tema dell’immigrazione, altre volte legato, più correttamente, alla necessità di varare incentivi economici alla natalità. In verità sarebbe già un passo in avanti non penalizzare, come invece avviene ora, le famiglie numerose e magari anche smettere di rendere le convivenze fiscalmente più attraenti del matrimonio.
Ma tant’è. Veniamo da settant’anni in cui la politica aveva come grande preoccupazione quella di voltare completamente pagina rispetto al ventennio precedente. E l’esaltazione della natalità era stato uno dei capisaldi del regime fascista. Fare figli per la patria era un obbligo morale sia nella prospettiva esplicita di rafforzare la forza militare del regime, sia per la volontà nascosta di far tornare le donne al focolare domestico lasciando agli uomini il compito di credere, ma soprattutto obbedire e combattere.
Dopo la guerra parlare di difesa della natalità appariva quindi quanto meno inopportuno e infatti nemmeno i Governi guidati da personalità fortemente legate al mondo cattolico hanno avuto la volontà di porre il tema demografico tra le priorità della politica.
Con effetti peraltro molto particolari. Nonostante la pressione della propaganda, negli anni del regime fascista la natalità è progressivamente diminuita: nel 1926 era di 27,7 nati per mille abitanti si ridusse costantemente fino a raggiungere il valore di 22,4 nel 1936, per riprendersi, ma solo debolmente, raggiungendo il valore di 23,5 nati per mille abitanti nel 1940. Ma pur senza particolari politiche demografiche gli anni del miracolo economico hanno visto l’ultima impennata della natalità: sono stati gli anni del baby boom, con un picco nel 1964, in cui si registrano oltre un milione di nati vivi e 2,7 figli medi per donna.
Ora l’Italia colleziona record negativi: ha il tasso di natalità più basso del mondo come meno di dieci nascite ogni mille abitanti, ha una delle più alte età delle donne al parto, ha il più forte e crescente divario tra nascite e morti.
Le politiche demografiche qualcosa possono indubbiamente fare: aumentare gli asili nido (come peraltro previsto dal Pnrr) così come migliorare gli assegni familiari e premiare le famiglie numerose appaiono stimoli necessari. Ma non sufficienti.
L’economia gioca la sua parte. Anche perché mentre nel passato i figli eran visti come una ricchezza ora prevale la visione che sono considerati un costo aggiuntivo per la famiglia. Il problema di fondo della denatalità, tuttavia, non è in primo luogo economico, ma è soprattutto culturale e antropologico.
La mentalità prevalente, largamente diffusa in televisione come sui social network vede la famiglia, solida e fedele, come una bizzarra eccezione. Prevalgono come assoluta normalità le unioni di fatto, le convivenze occasionali, il sesso fine a se stesso. E non è un caso che il numero dei matrimoni, in particolare quelli religiosi, sia drammaticamente in calo.
Il politicamente corretto ha preso il sopravvento sul valore della persona, i cosiddetti diritti civili sono ormai considerati indiscutibili ed inviolabili, la morale fai-da-te ha preso il sopravvento sui valori tradizionali di solidarietà e fratellanza. È ormai impossibile mettere in discussione leggi come quella sull’aborto, nella cui applicazione è di fatto praticamente scomparsa la logica della prevenzione e del possibile aiuto alle madri in difficoltà.
«La 194 non si tocca» è uno slogan che sbarra la strada a qualunque timida proposta di guardare in maniera diversa e costruttiva al problema dell’interruzione della gravidanza, un eufemismo per non parlare di soppressione di un embrione destinato per natura a diventare una persona.
Eppure, qualche correlazione negativa tra gli aborti e le nascite ci deve pur essere. Ma aprire una riflessione, tentare un dialogo su questi temi è praticamente impossibile. È come gettare un sasso nello stagno.
Non c’è nulla che sembra poter turbare la calma piatta e le certezze ideologiche del mainstream.
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