Qui si prova a mostrare sine ira et studio le ragioni di chi è a favore dell’Unione Europea e dell’euro. Le ragioni di chi è contrario saranno mostrate in una prossima puntata, di nuovo provando a farlo sine ira et studio. I limiti delle ragioni di chi è a favore vanno compresi e non inibiscono il proseguimento della battaglia per l’unità del Vecchio Continente.
1 - Alle origini dell’Unione
Affrontiamo la scelta fatta in Europa dopo la Seconda Guerra, quando fu presa la decisione di avere un sistema politico affetto da “grigiore” (Jan Werner Muller, Contesting Democracy, Yale, 2011).
La Seconda Guerra era terminata in un bagno di sangue e di drammatici trasferimenti di popolazione da un Paese all'altro. Tre politici cattolici, Konrad Adenauer, Robert Schumann e Alcide De Gasperi, tutti e tre avanti negli anni e di lingua tedesca, arrivano alla conclusione che all'origine della tragedia ci fosse il sistema politico a fondamento carismatico.
I sistemi politici possono essere, secondo la classificazione di Max Weber, di tre tipi: quello in cui la legittimità è nella tradizione, come nelle Monarchie, quello in cui la legittimità è nella logica fredda delle Leggi applicate dalla Burocrazia, come nei sistemi liberali, e, infine, quello la cui legittimità è nella simbiosi fra Popolo e Carisma. In questo ultimo caso, che sta riprendendo piede con il Populismo, si ha una spinta di “senso”, perché si ha una identificazione fra il Popolo, ridotto a entità magmatica, e il Leader, che, ispirato, lo conduce verso i suoi più alti destini.
Dopo la Seconda Guerra l'idea prevalsa era quella di un sistema sopra-nazionale, di un governo della Legge, e dunque del governo della Burocrazia, che, per definizione, emana “grigiore”. Insomma, l'idea della “de-nazionalizzazione” delle masse con i sistemi politici avvolti in ragnatele giuridiche – come l'Alta Corte che è il decisore di legittimità di ultima istanza - era il cuore della nuova Europa.
Con questa scelta non si tornava al sistema liberale ante Prima Guerra, quello dello Stato Minimo (Amministrazione, Difesa, Giustizia), ma al sistema di Stato Sociale (Stato Minimo + Sanità, Istruzione, Pensioni). Questo è avvenuto per ragioni culturali, come la combinazione del solidarismo cattolico con il peso della socialdemocrazia, e per ragioni politiche, perché alcune forme di stato sociale erano emerse con i Totalitarismi e non potevano più essere rigettate.
2 - I Totalitarismi fra due Guerre
L'impatto della Modernità, intesa come dinamismo dei valori culturali e dell'economia, aveva generato già nel XIX° ma soprattutto nel XX° secolo una forte reazione che possiamo definire come “corporativismo” (E. Phelps, Mass Fluorishing, Princeton, 2003).
Che cosa volevano i “corporativisti” nei due secoli precedenti il nostro, ma soprattutto fra le Due Guerre? Uno stato che sappia guidare gli investimenti, la pace nelle relazioni industriali e un grado elevato di responsabilità sociale. Dei tre obiettivi, i “corporativisti” di oggi vogliono il primo e il terzo, essendo venuto meno il secondo: il conflitto sociale di fabbrica, anche perché le concentrazioni operaie nelle grandi fabbriche fordiste sono sempre meno presenti nei paesi di democrazia liberale.
Fra le due Guerre il corporativismo si proponeva come la “terza via” fra il Capitalismo e il Socialismo, perciò non era “né di destra né di sinistra”. Per quelli di sinistra era l'uscita dal capitalismo, da intendere come l'uscita dall'insicurezza, per quelli di destra era l'uscita dal socialismo, da intendere come la presenza dell'iniziativa economica individuale.
3 - Un’Unione che si evolve con le crisi
L'Europa nasce come unione economica che man mano (nel corso dei decenni) si muove verso l'Unione politica. Come? Secondo Jean Monnet, uno dei padri dell’Unione europea, l’Europa sarà forgiata nelle crisi e sarà il risultato delle risposte alle crisi. Si può sostenere che l'Unione Europea sia sempre cresciuta per crisi successive. Tutto sembrava finito, ma poi tutto ripartiva.
Dopo la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) – evento epocale subito dopo la Seconda Guerra - si provò con la Comunità Europea di Difesa (CED). Questa nel 1954 fu bocciata dai francesi, gelosi della propria proiezione militare e imperiale, ma pochi anni dopo si passò alla Comunità Economica Europea (CEE), sorta con i Trattati di Roma del 1958. Nel 1965 la Francia, per non essere imbrigliata da Bruxelles, praticò la “politica della sedia vuota”, non presentandosi alle riunioni. Si trovò una soluzione l'anno dopo con l'istituzione del diritto di veto dei singoli Paesi. Negli anni successivi l'amministrazione, soprattutto in campo economico, prese il sopravvento. Da qui il consolidarsi del mercato europeo comune (MEC). In seguito, la caduta del Muro di Berlino diede luogo alla riunificazione della Germania che, a sua volta, diede luogo a due eventi di primaria importanza: la nascita dell'Euro insieme alla primazia della Banca Centrale Europea (BCE).
4 - L’Unione non è un’area economica ottimale
Un'area economica è “ottimale” se, avendo la stessa moneta 1) ha un mercato dei prodotti comune; 2) ha un mercato dei capitali comune; 3) ha un mercato del lavoro comune; 4) ha un bilancio fiscale comune. L'euro area soddisfa i requisiti 1) e 2). Non soddisfa, in tutto o in parte, i requisiti 3) e 4).
Prendiamo gli Stati Uniti relativamente al punto 3). Se non c'è lavoro nell'area occidentale, la gente va in quella orientale. Relativamente al punto 4), se l'area occidentale è mal messa, ecco che il bilancio federale, che incassa imposte da entrambe le aree, ma, nell'esempio, ne incassa di più dalla parte orientale, trasferisce i fondi verso l'area occidentale. I bilanci statali statunitensi non possono andare in deficit nel campo delle spese correnti, se non per spese definite come quelle per infrastrutture, e quindi possono emettere solo dei “project bonds”, perché solo quello federale ha questa facoltà. Gli stati non possono così andare in deficit, perché altrimenti sarebbero tentati dal farlo, contando che, alla fine, il loro debito statale sarà salvato da quello federale.
La prima differenza dell'euro area con gli Stati Uniti è che, se il Portogallo va male e l'Olanda va bene, è difficile che i lusitani si trasferiscano in massa – per problemi di lingua e di abitudini - nei Paesi Bassi. La seconda differenza è che i bilanci statali dei Paesi dell'euro-area possono andare in deficit, sebbene entro i vincoli (più o meno disattesi) di Maastricht. Non esiste, infatti, nell'euro-area un governo centrale che copra, raccogliendo le imposte da tutti e in caso di crisi di più da alcuni, i deficit degli stati membri.
La Germania (con i Paesi detti “virtuosi”) non garantisce il debito degli altri Paesi. E dunque, quando i Paesi si indebitano troppo, senza dar mostra di poter ripagare il debito cumulato, ecco che l'euro-area conta che i mercati finanziari li “puniscano”, ossia che chiedano un “premio per il rischio”. L'euro-area funziona se i mercati finanziari puniscono le “cicale”, premiando chi è “formica”, ma questo non è avvenuto sempre. Per anni, e prima della grande crisi, la Grecia ha, infatti, pagato sul proprio debito pubblico un rendimento di poco superiore a quello tedesco.
Perciò nella costruzione dell'euro-area si ha un mercato comune dei prodotti, dei capitali, si ha un modesto mercato del lavoro omogeneo, e non si ha (forse un giorno, quando tutti gli Stati dell'euro area avranno il bilancio in pareggio con esenzioni definite per l'emissione di obbligazioni come avviene negli Stati Uniti) un sistema di trasferimenti federale “automatico”. Possiamo perciò immaginare l'euro-area di oggi come un'area economica parzialmente ottimale.
5 - Le divergenze nella politica economica
Non solo l'euro area non è un'area economica ottimale, ma mostra una divergenza di vedute dei due maggiori paesi. Proviamo (M. Brunnermeier, H. James, J: Landau, The Euro and the Battle of Ideas, Princeton, 2016) ad elencare in sei punti che esprimono il punto di vista divergente della Francia e della Germania. Laddove si possono riconoscere molte delle tesi che sono sostenute anche in Italia. In Italia convivono punti di vista francesi e tedeschi.
1 - Francia: le regole sono soggette al processo politico e possono essere rinegoziate. Germania: le regole “sono regole”, se si sa che sono negoziabili nessuno le rispetterà fin dall’inizio.
2 - Francia: dal punto precedente emerge che le crisi vanno gestite con flessibilità. Germania: se si immagina che la flessibilità possa palesarsi, ecco che le regole non saranno rispettate.
3 - Francia: limitare la libertà di movimento dei governi, per esempio indebitarsi, è antidemocratico. Germania: forse è antidemocratico non indebitarsi rispetto alle generazioni in vita, ma è antidemocratico anche indebitarsi quando il costo sarà scaricato sulle generazioni future che oggi non votano e quindi non sono rappresentate.
4 - Francia: la politica monetaria non può avere come solo obiettivo la stabilità dei prezzi, perché deve tener conto della crescita. Germania: non è compito della politica monetaria stimolare la crescita, il compito è quello di garantire un quadro di certezze, come l’assenza di inflazione.
5 - Francia: se un paese è in deficit con l’estero e l’altro è in surplus, il secondo deve espandere la domanda per importare le merci del primo per ottenere un pareggio. Germania: il deficit dipende da una carenza di competitività. Il sistema diventa più efficiente se non si aiutano i meno competitivi a sopravvivere.
6 - Francia: gli “equilibri multipli” sono possibili, ma non tutti sono accettabili. Un rendimento ingiustificatamente elevato di un’obbligazione del Tesoro, se lasciato sedimentare “perché il mercato lo vuole”, può inibire la crescita di un paese, che si troverà, alla fine, costretto a pagare molto il proprio debito a danno, per esempio, degli investimenti pubblici. Germania: a guardare troppo il presente, in questo caso un elevato e ingiustificato rendimento richiesto per sottoscrivere il debito pubblico, si perde di vista il futuro. Il futuro deve emergere come “coscienza” dei mercati, come una responsabilità, non come il frutto degli interventi delle autorità.
La contrapposizione nel campo della politica economica fra i due paesi ha origine nel secondo dopoguerra, come elaborazione della tragedia che si era appena conclusa. Prima della Seconda guerra e per tutto il secolo precedente, la Francia era stata un paese “mercatista”, nonostante la tradizione centralista. Sempre prima di quel conflitto e per tutto il secolo precedente, la Germania era stato un paese “dirigista”, con l’aggiunta della forzatura ultra-dirigista del periodo nazista. Oggi è il contrario. Perché?
La sconfitta nella guerra ha spinto i francesi nella direzione dell’intervento pubblico, quindi verso il dirigismo. Quest’ultimo era visto come il demiurgo di uno Stato forte, a sua volta concepito come uno strumento per non perdere più le guerre con la Germania, dopo le tre sconfitte in meno di un secolo: 1870, 1914, 1940. Al contrario, l’eliminazione del nazismo ha spinto i tedeschi a limitare l’intervento pubblico. L’esperienza li ha spinti verso il “mercatismo” per impedire la formazione di uno Stato forte, che era diventato totalitario. Nel caso tedesco, il “mercatismo” assume la forma dell'Ordoliberalismus – dove è lo Stato che decide le regole della competizione e interviene solo a favore dei bisognosi.
In Italia, a seconda dei cicli politici, si è seguito il modello tedesco: “sono le riforme che portano la crescita”, oppure quello francese: “si spinge subito la crescita e poi si fanno le riforme”. La scelta fra i due modelli non è solo economica, anche perché non esiste una dimostrazione univoca di quale sia il migliore. Il modello tedesco è debole nell’immediato: se non si ha ripresa, nonostante le riforme, è percepito come non funzionante e si perdono le elezioni. Quello francese è debole nel tempo più lungo: se si ha ripresa, le riforme non si fanno, perché queste ultime hanno un costo politico elevato. Non si perdono le elezioni, ma le generazioni future avranno di meno.
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