Probabilmente in questo periodo essere al vertice di una compagnia aerea è quasi un incubo (The Economist, 11 Febbraio 2021). Nel 2020 nel mondo i passeggeri paganti-km, ossia il numero di chilometri percorsi da tutti i passeggeri paganti, sono stati meno di un terzo rispetto al 2019, con circa il 30% della flotta mondiale ancora ferma a terra alla fine dell’anno; mentre l’inizio del 2021, con la recrudescenza del virus, non promette nulla di buono.

I volumi di traffico sono al livello di vent’anni fa, con la prospettiva di recuperare i numeri pre-pandemici non prima del 2024, sempre che le campagne di vaccinazione funzionino, e tutto questo mentre le compagnie aeree erano orientate una crescita rapida, che dall’inizio degli anni 90 ci aveva abituato a un raddoppio ogni 15 anni.

I vettori “full service”, ossia le compagnie tradizionali, che avevano i maggiori ricavi dal lungo raggio (il più penalizzato dalla pandemia), richiederanno un notevole sostegno, e molti ritorneranno forse nell’orbita del controllo pubblico, condividendo in questo senso la sorte della nostra compagnia di bandiera, con il rischio di non intercettare la ripresa, se gli obiettivi della gestione saranno nuovamente di tipo politico e non di mercato.

Il piccolo vettore debilitato

In questa turbolenza Alitalia entra come un piccolo vettore debilitato, cronicamente in perdita, che già prima della pandemia valeva, in termini di passeggeri-km, meno del 15% del gruppo Lufthansa, nonostante l’Italia in termini di numero di passeggeri valesse più del 20% di tutto il traffico intra-europeo (non molto meno della Germania, che ne valeva circa il 26%).

Molti ritengono che sia un buon momento per chiudere la storia. Ma non vogliamo darlo per scontato, in fin dei conti ci siamo affezionati, e vogliamo chiederci perché la nostra compagnia di bandiera non abbia saputo approfittare della straordinaria crescita del trasporto aereo negli ultimi 30 anni, perché nessuno fino a ora l’abbia voluta comprare, e quali siano le prospettive. Ragioniamo ovviamente sui dati prima della pandemia, sia perché il futuro non lo conosciamo, sia perché, come si è detto, se dovessimo basarci sul presente, chiuderemmo forse la maggior parte delle linee aeree.

Il mito da sfatare

Cominciamo a sfatare un mito, quello del costo del personale. Qualcuno si stupirà, ma per Alitalia non è il problema principale, anzi non è per niente un problema. La discesa rilevante si è avuta con l’avvio della gestione privata nel 2009 (Arrigo, Battaglia, Di Foggia, 2018). Oggi il personale incide il 17% sui costi operativi, contro il 21% di British Airways, il 23% di Lufthansa, il 30% di Air France.

Il costo medio annuo per dipendente è di circa 60mila euro, solo Ryanair fa leggermente meglio (circa 55mila euro), per il gruppo Lufthansa siamo a 65mila euro, per Easyjet a 82mila euro. In effetti per le low cost il personale di volo, che ha retribuzioni più alte, ha un peso maggiore sul totale dei dipendenti, questo avviene perché tali vettori esternalizzano molti servizi. Facciamo un esperimento? Consideriamo un volo di 1000 km, vediamo che per ogni sedile offerto, il costo del personale di Alitalia è 12 euro, sommando quello dei servizi si arriva a circa 39 euro. Se per Easyjet sommiamo le due voci raggiungiamo i 40 euro; insomma, se fosse per il personale, Alitalia sarebbe competitiva con le compagnie a basso costo.

Le altre voci di costo

Quali sono dunque i problemi veri? Un primo, e forse meno rilevante problema, riguarda le altre voci di costo: l’inadeguata politica di hedging sul carburante ha impedito alla compagnia di approfittare della discesa dei prezzi; sono inoltre ancora eccessivi i costi commerciali, e per i servizi aeroportuali; ma sul fronte dei costi il problema peggiore è la scelta della flotta e dei relativi contratti di leasing.

La composizione della flotta è troppo eterogenea, con due tipi di aerei di lungo raggio, tre per il medio raggio e due per il breve raggio: questo impedisce le economie di scala nella gestione degli aerei e nella formazione e intercambiabilità degli equipaggi, aumenta i costi di manutenzione e rende difficile anche la sostituzione agevole dei mezzi in caso di imprevisti. Inoltre Alitalia ha scelto aerei in leasing, scelta meno penalizzante sul lungo raggio, ma, per il medio e breve raggio, dove la compagnia deve fronteggiare la concorrenza delle low cost, significa che per Alitalia i costi a sedile di gestione della flotta aumentano di oltre il 40 per cento rispetto ad avere aerei in proprietà; peraltro i contratti di leasing di Alitalia sulla flotta a medio-breve raggio sono anche molto onerosi, ad esempio rispetto a Vuelling, che ha fatto la stessa scelta di volare con aerei in leasing,  costano il 65 per cento in più per ogni sedile.

Complessivamente recuperare valori standard su questi fronti potrebbe portare a risparmiare tra il 10% e il 15% dei costi operativi e fare la differenza (pandemia a parte) tra una perdita consistente e un pareggio o anche un decente profitto.

I ricavi bassi

Ma il vero problema strategico di Alitalia non sono i costi, sono i ricavi: il costo complessivo del sedile per mille km è per il nostro vettore 72 euro (si veda il grafico sotto); certo, è il doppio di Ryanair, ma non è molto diverso dei 66 euro di Easyjet, per non parlare delle compagnie tradizionali, che sono al di sopra degli 80 Euro. Anche il gruppo Lufthansa, in ottima forma prima della pandemia, ha un costo per posto offerto di 84 euro; il fatto è che Lufthansa (sempre pandemia a parte) ricava 89 euro per ogni sedile, con un risultato operativo di 5 euro, Alitalia ne ricava 69, con una perdita di 3 euro.

La simulazione
La simulazione
Fonte: elaborazione di Mondo Economico su Arrigo (2018), Easyjet Annual Report 2015, Lufthansa Annual Report 2015, Ryanair Annual Report (2019)

La ragione dei bassi ricavi è duplice: in primo luogo Alitalia in media riempie poco i suoi aerei, ossia circa il 76%, Lufthansa raggiunge l’80%, Easyjet e Ryanair sono intorno al 90%. Di conseguenza, il costo di ogni passeggero pagante effettivo è per l’Alitalia di 95 euro ogni 1000 km, poco meno di quello di Lufthansa, ma molto superiore a quello delle low cost. 

Si tratta di una vera disfatta per il mercato di breve-medio raggio e soprattutto per quello domestico, dove la concorrenza di tali vettori è spietata e non consente alla nostra compagnia di aumentare il prezzo dei biglietti.

Bene per i consumatori, ma non accade ovunque così: il gruppo Lufthansa in Germania è quasi monopolista, il “basso costo” non raggiunge il 25 per cento del mercato, e metà di questo 25 per cento è comunque in mano a controllate della compagnia tedesca (Arrigo, 2018); mentre la quota di Alitalia sul mercato nazionale è intorno al 15 per cento e la metà dei flussi è in mano alle low cost, che, come se non bastasse, ancora oggi sono in vario modo sussidiate dalle società di gestione aeroportuale (cioè, spesso, dal contribuente) nei vari aeroporti regionali.

L'abbandono del lungo raggio

La seconda ragione dei bassi ricavi è stata l’abbandono dell’espansione sul lungo raggio: in buona sostanza possiamo dire, con un abbondante uso del “senno di poi”, che Alitalia avrebbe dovuto, negli ultimi vent’anni, concentrarsi di meno sulle tratte brevi e medie (o delegarle a sussidiarie gestite con logiche a basso costo), posizionare un unico hub intercontinentale a Malpensa, che è baricentrico dal punto di vista europeo, e espandersi sul lungo raggio, dove il modello low cost non è competitivo, facendo concorrenza agli altri vettori tradizionali. Si trattava di copiare ciò che facevano gli altri “full service” e competere con loro; se ci fossimo riusciti, i soli ricavi dei voli intercontinentali avrebbero potuto arrivare a 11-13 miliardi all’anno, sostanzialmente decuplicando, con una flotta tricolore fino a 250 aeroplani di lungo raggio; poi ci sarebbero stati gli altri impatti, come quello sul turismo, visto che un turista che arriva direttamente da noi non divide la spesa tra l’Italia e il paese di scalo intermedio.

Nulla di tutto questo è avvenuto: sui 103 aeroplani della compagnia, solo 25 sono di lungo raggio, negli anni ‘70 erano 29, con un mercato che era un decimo di quello attuale (Toso, 2018). Negli ultimi vent’anni Alitalia ha dato il suo peggio: nel 2000, dopo il fallimento della fusione con KLM ha ridotto l’espansione sul lungo raggio proprio mentre diventava operativo l’hub di Malpensa, che, per una compagnia orientata alle tratte nazionali, è stato una palla al piede invece che un trampolino di sviluppo. Poi, nel 2008, dopo il fallimento della fusione con Air France, i promotori di CAI si sono ancor più concentrati sul mercato domestico, senza accorgersi che stava cominciando la rapida ascesa dell’alta velocità ferroviaria.

Diceva Seneca che non esiste vento a favore per il marinaio che non conosce il suo porto, e proprio la totale mancanza di una visione strategica ha portato Alitalia a commettere i due errori fatali: ha lasciato languire il lungo raggio e non è diventata competitiva sul breve, sicché oggi non è né carne né pesce, ecco perché nessuno ha voglia di comprarsela così com’è.

L'asset sulla carta

Certo, è ancora la nostra compagnia di bandiera, cioè l’unico vettore designato negli accordi bilaterali con i paesi extra europei, quindi un ipotetico acquirente otterrebbe il diritto esclusivo di volare dall’Italia verso altri continenti (eccezione sono le rotte per gli Stati Uniti, il Canada, Marocco e Israele, liberalizzate dagli accordi “open sky”). In realtà si tratta di un asset più sulla carta che reale: alle compagnie low cost non interessano i voli di lungo raggio, e piuttosto che comprare Alitalia, probabilmente preferiscono aspettare che esca di scena per acquisirne il mercato nazionale. I grandi vettori full service europei, dal canto loro, potrebbero essere interessati, ma forse più per impedire ad altri di entrare su potenziali rotte intercontinentali, piuttosto che per sfruttarle. Le uniche che realmente sfrutterebbero i vantaggi di una compagnia di bandiera sono le compagnie extra europee, ma per loro è vietato acquisire partecipazioni di controllo.

In sintesi chi è interessato a comprare Alitalia non può farlo. E chi può farlo non è interessato, o è più interessato a trasformarla in un vettore regionale, privando così il nostro Paese  di rotte intercontinentali dirette: un danno enorme.

Siamo in tempo di pandemia ed è un brutto momento per decisioni di lungo periodo. Tutti i governi stanno ora sostenendo pesantemente le compagnie di bandiera in crisi, noi dobbiamo smettere solo perché ci siamo stufati di farlo? Intorno a noi si attrezzano per il futuro, per quando la gente tornerà a viaggiare, e non è pensabile che ciò non succeda; il primo comparto a riprendersi sarà quello domestico e regionale, il lungo raggio seguirà, e forse sarà parzialmente diverso, con meno clientela business, ma anche con un incremento del prezzo medio del biglietto.

Tre linee d'azione

Forse ci vorrà un ventennio per tornare ai tassi di crescita esplosivi a cui ci eravamo abituati. Di sicuro il futuro è in crescita, e chi ci sarà potrà approfittarne, noi proponiamo tre linee d’azione:

  1. Alitalia oggi è nuovamente in mano pubblica: occorre assolutamente evitare che la sua strategia sia sottomessa a logiche di tipo politico, bisogna mantenere un orientamento al mercato.
  2. Bisogna ridurre le inefficienze di costo ancora rimanenti: già questo basterebbe probabilmente per passare dalla perdita al pareggio, o anche all’utile, accumulando capacità di investire.
  3. Il lungo raggio tornerà profittevole, forse anche più di prima, e tornerà ad essere il mercato su cui espandersi per i vettori tradizionali: non ha senso non sfruttare le potenzialità offerte dall’Italia per i voli intercontinentali diretti.

Infine abbiamo condotto un esercizio in questo periodo di clausura: abbiamo cercato in rete il curriculum dei presidenti e amministratori delle compagnie aeree di maggior successo e ci siamo accorti che, molto spesso, hanno costruito la loro carriera quasi interamente nell’aviazione.

Fa riflettere: piuttosto che vendere Alitalia, forse è meglio “comprare” amministratori con una lunga e consolidata esperienza di successo nel settore, interni o esterni, da dovunque vengano e a chiunque dovessimo strapparli nessun prezzo sarà troppo alto.

Letture consigliate:

  • Special report, “Could covid-19 shake up air travel for the better?”, The Economist, 11 Febbraio 2021.
  • Arrigo, Ugo, “Vendere, chiudere o ristrutturare? I possibili esiti della gestione commissariale di Alitalia”, CESISP, Maggio 2018.
  • Arrigo, Ugo, Andrea Battaglia, Giacomo Di Foggia, “La nuova crisi di Alitalia e le prospettive di soluzione”, CESISP, 2018
  • Toso, Riccardo, “An analysis of air market trends in Europe. The Alitalia paradox: any solution?”, CESISP, ottobre 2018