A 22 anni dal primo atto ufficiale, firmato a Torino dall’allora premier Giuliano Amato e dal presidente francese Jacques Chirac, la Torino-Lione arriva a un traguardo importante: entro l’estate del 2023 tutti i cantieri dei lavori civili saranno appaltati. Toccherà all’Italia chiudere il cerchio, la Francia ha già fatto la sua parte. Di lì in poi ci sarà solo da lavorare per rispettare l’ultima data fissata per l’entrata in funzione dell’alta velocità tra Torino e Lione: il 2032.

«In effetti gli ultimi mesi saranno dedicati alla fase di test con i treni in corsa in galleria» precisa Mario Virano, direttore generale di Telt, la società incaricata dai due Stati di realizzare l’opera e che la gestirà per almeno un secolo, ma soprattutto, più di ogni altro, l’uomo che ha lavorato per superare in Val Susa le molte incomprensioni e i tanti ostacoli attorno alla Tav. Quel che è sicuro è che l’infrastruttura non è più in discussione. Neanche i grillini durante il governo gialloverde sono riusciti a fermarla. A rallentarla sì, però. Un anno perso, per redigere l’ottava analisi costi-benefici commissionata dall’allora ministro cinquestelle dei Trasporti Toninelli. E altri dodici mesi sono andati in fumo per il Covid. Così il 2030 è diventato 2032. Quello sarà l’anno giusto.

Architetto Virano, che cosa replica a chi dice che la Tav è un’opera che nasce vecchia?

«Le grandi opere che hanno valore strategico tra i 100 e 200 anni non perdono di attualità nei primi decenni di realizzazione. Penso al canale di Suez o di Panama, ma anche la vecchia galleria del Frejus. Sono infrastrutture destinate a durare almeno oltre il secolo. In più, ora che il collegamento ferroviario ad alta velocità si estende in tutta Europa, il nostro asse sarà sempre più essenziale e prioritario».

Prese di posizione come quella del sindaco di Lione Doucet che ha appena firmato un no alla Tav denunciandone il potenziale “disastro ecologico” non la preoccupano?

«La mossa del sindaco di Lione mi sembra quasi un riflesso condizionato alla spinta che è arrivata da una parte della sinistra francese verso il completamento dell’opera con l’appello di Fabien Roussel del Pcf che ha presentato una proposta di risoluzione all’Assemblea nazionale, sottolineando tutti i lati positivi del progetto. Una voce inattesa e dunque sorprendente. Alla quale Doucet, ambientalista vicino a Mélenchon ha risposto con il solito appello al no. Che peraltro non cambierà il corso dell’opera. La Torino-Lione non è in pericolo. Semmai in bilico è proprio il ruolo delle due città che danno il nome alla linea, la loro leadership. Perché prese di posizione come quelle della giunta Appendino prima e Doucet adesso finiscono per favorire l’uscita di scena di Torino e Lione a favore di Milano e Parigi. E da torinese mi spiacerebbe».

Polemiche che potrebbero far cambiare idea all’Unione Europea sui finanziamenti?

«Premesso che Bruxelles ha dimostrato di credere all’opera aumentando negli anni i finanziamenti fino ad arrivare ora a concorrere per il 55 per cento della spesa per la tratta internazionale e al 50 per cento per quelle nazionali dovrà solo fare i conti con le risorse, perché è chiaro che la guerra in Ucraina e il Covid hanno assorbito fondi e nel frattempo i commensali al tavolo sono aumentati: insomma la fetta di torta è più piccola. Ma quel che è stato promesso sarà mantenuto soprattutto se Italia e Francia sapranno proseguire con il piglio dimostrato dai ministri Salvini e Beaune in occasione del consiglio europeo sui trasporti di dicembre. Un buon clima tra i due Paesi può essere una carta decisiva anche se il dossier politico andrà seguito passo dopo passo». 

Qual è l’equivoco più grosso che ruota attorno alla Tav?

«Di sicuro il calcolo dei benefici. Si continua a valutare le ricadute sul territorio dall’entrata in esercizio della ferrovia. Ma non è così. I benefici ci sono già prima, con i cantieri. Oggi come oggi la Tav è il primo motore economico nella valle della Maurienne. E presto con l’avvio di tutti i cantieri si avrà lo stesso effetto anche sul versante italiano. Dove, peraltro, lavori come quelli dello svincolo di Chiomonte e dell’autoporto di San Didero valgono insieme 240-250 milioni di lavori. Una cifra importante se raffrontata al valore medio dei cantieri aperti in valle. Quindi già
adesso e soprattutto nel prossimo decennio di lavori la Tav sarà un grande volano economico se solo le imprese sapranno cogliere l’occasione. Parliamo di un migliaio di lavoratori che con l’indotto raddoppieranno».

Ma la partita più importante sul fronte occupazione si estende al dopo cantiere, no?

«Si diciamo che il 60 per cento della manodopera che occuperemo nei prossimi anni sarà destinata alla costruzione della galleria. Accanto però a mestieri tradizionali nasceranno nuove professionalità. Per esempio, ci sarà da attrezzare il tunnel una volta completato. Per questo dal 2026 avremo un treno cantiere che partendo dalla Francia viaggerà per due anni in direzione Italia per occuparsi di posare i binari e la linea elettrica, installare la segnaletica. Sarà una delle commesse tecnologiche più grandi in Europa. Il contratto garantisce la manutenzione della linea per circa altri dieci anni dopo la sua entrata in funzione. Ecco perché si creeranno figure specifiche che avranno la certezza di un lavoro anche dopo quando serviranno manutentori, manovratori e addetti alla sicurezza ferroviaria, per citarne alcuni».

Mario Virano all'Expo di Dubai per presentare il progetto della Torino-Lione


E il territorio, come può sfruttare questa chance?

«Abbiamo stilato un accordo con la Regione che coinvolge gli istituti tecnici e professionali e le agenzie per il lavoro sul territorio: la scuola avrà un ruolo chiave per formare i quadri di domani. Chiaro che avremo più bisogno di ingegneri e tecnici ferroviari che civili, ma insomma ci sarà una grande opportunità di lavoro in valle. Come peraltro sta avvenendo sul versante francese dove la manodopera locale arriva al 60 per cento degli occupati nel cantiere della Torino-Lione. Non solo: bisognerà anche assegnare un futuro alla linea storica quando la Tav sarà in esercizio. E allora servirà altro personale anche se prima dovremo trattare il futuro con gli Stati e le due società ferroviarie». 

Tra i programmi che avete messo a punto c’è quello sulla sicurezza con mortalità zero nei cantieri. Come nasce questo impegno?

«Detto che è un impegno che non può essere garantito a priori al cento per cento perché la fatalità è sempre dietro l’angolo, noi ci siamo attrezzati per fare tutto ciò che è possibile per ridurre al massimo il rischio di incidenti nei nostri cantieri. Non un compito da poco considerato che abbiamo dovuto sensibilizzare l’intera filiera, comprese le imprese dei lavori in subappalto, dove a volte l’attenzione può calare. Ma per noi è una priorità, anzi la priorità».

Gli svizzeri in vent’anni hanno realizzato il tunnel ferroviario del San Gottardo lungo 50 chilometri, appena sette in meno di quello della Torino-Lione. Tutto merito di una minore burocrazia?

«L’opera realizzata da un unico Paese può procedere più celermente. Non ci sono leggi e regolamenti di due Paesi da armonizzare. I processi procedurali, chiamiamoli cosi, che hanno frenato la Torino-Lione sono gli stessi che stanno rallentando l’opera al Brennero. Ma non può essere diversamente. La Svizzera poi usa spesso lo strumento del referendum per sbrogliare le matasse più ingarbugliate».

Quanto vi potrà essere utile l’esperienza svizzera dal punto di vista tecnico?

«È chiaro che ci avvantaggerà. In tutto il mondo si contano sulle dita di una mano i tunnel oltre i 50 km di lunghezza. Loro hanno fatto da apripista e quell’esperienza ci potrà tornare utile anche se dovremo essere pronti a gestire un’emergenza perché siamo di fronte a una grande sfida dal punto di vista tecnico».

Qual è l’opera che finora vi ha impegnato di più?

«Senza dubbio la costruzione dei quattro pozzi di aerazione contigui al tunnel di base. Sono profondi 500 metri, 200 in più della Tour Eiffel per dare un parametro di misura. Dovranno garantire la ventilazione nella maxigalleria. Per il know how ci siamo affidati a un’impresa fondata in Sudafrica, nel settore delle miniere di diamanti. In ogni pozzo lavora una fresa con ascensione verticale che, in pratica, risale per mezzo chilometro la roccia, dovendo lavorare con tolleranze minime, nell’ordine di pochi centimetri, quindi con estrema precisione. Non proprio un’impresa da poco».

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