In Italia la contrattazione collettiva dei salari copre la quasi totalità dei lavoratori dipendenti sul territorio nazionale. Il salario viene fissato per ogni settore e livello professionale, lasciando alle singole imprese solo alcuni margini di manovra per prevedere eventuali migliori condizioni lavorative, alzando per esempio la retribuzione al di sopra della soglia definita a livello nazionale. Al 2021, i 346 accordi nazionali coprivano circa il 97,7% dell’occupazione dipendente e circa il 99,3% delle imprese (Boeri, Ichino, Moretti e Posch, 2021).

L’istituto della contrattazione collettiva ha come scopo principale quello di appiattire le divergenze salariali tra diverse aree geografiche, a livello nominale. In termini reali – rapportando cioè il salario al costo della vita – i risultati che si ottengono possono però andare nella direzione opposta, inasprendo le diseguaglianze tra lavoratori residenti in diverse aree del Paese.

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In un contributo precedente ci eravamo occupati delle divergenze nei salari reali tra diverse macro-regioni del paese. In particolare, a fronte di forti discrepanze geografiche nel costo della vita, la contrattazione collettiva del salari comporta come le aree più produttive del Paese, collocate nelle regioni settentrionali, risultino essere anche quelle con salari reali più bassi.

L'effetto del costo della vita

Un confronto tra Nord e Sud del Paese non esaurisce però la panoramica degli effetti perversi generati alla contrattazione collettiva. Un recente studio di Belloc, Naticchioni e Vittori (2019) ha infatti preso in analisi le differenze nei salari reali dei lavoratori dipendenti occupati in diversi Sistemi Locali del Lavoro (Sll). A fronte di salari nominali che rimangono comparabili, la Figura 1 evidenzia infatti importanti differenze nel costo della vita che emergono anche tra territori adiacenti, all’interno di una stessa regione.

 

Indice dei prezzi al consumo (2005-2015)
Indice dei prezzi al consumo (2005-2015)

Un’analisi statistica del fenomeno mostra come la densità di popolazione dei Sll non abbia alcun effetto sui salari nominali. In altre parole, i salari nominali sono uniformi sul territorio, indipendentemente dalla densità di popolazione dell’area considerata. Prendendo invece in analisi i salari reali, emerge come nelle aree urbane del Paese, quelle più densamente popolate, questi risultino essere più bassi. In media, al raddoppio della densità di popolazione di un territorio, i salari reali diminuiscono del 2.6%. A causa di un costo della vita più alto e di salari nominali fissi, le aree urbane e produttive del Paese sono così anche quelle dove il potere d’acquisto risulta essere più basso.

I salari senza accordi collettivi

Ma cosa succederebbe in assenza della contrattazione collettiva? Per comprenderlo possiamo considerare le dinamiche salariali dei lavoratori parasubordinati. Infatti, benché sotto molti aspetti questi svolgano mansioni equiparabili a quelle previste per i lavoratori alle dipendenze, i loro salari non sono soggetti alla contrattazione collettiva ma sono il frutto di una contrattazione decentralizzata, a livello di impresa. In questo caso, nei territori maggiormente popolati – i.e. nelle aree urbane – i lavoratori parasubordinati ottengono salari nominali relativamente più alti. Al raddoppio della densità di un territorio, i salari nominali crescono in media del 5.4%.

Questo forte aumento dei salari nominali si traduce in un effetto positivo anche sui salari reali (2.6%). In altre parole, nelle aree con un costo della vita più alto, la contrattazione decentralizzata porta a salari nominali in linea con la maggiore produttività del territorio, neutralizzando le differenze nei prezzi al consumo. L’evidenza empirica mostra ormai chiaramente come occorra superare l’eguaglianza di facciata perseguita tramite la contrattazione collettiva per incentivare invece una maggiore equità sostanziale tra lavoratori residenti e/o occupati in diverse aree geografiche del Paese.