Estendiamo il ragionamento sui fondi pensioni giapponesi ai fondi pensione anglosassoni. Se il deficit delle aziende del sol levante si aggira sui 100 miliardi di dollari (quasi il 4% della capitalizzazione della Borsa), l’equivalente per le aziende sia americane che inglesi è intorno ai 300 miliardi di dollari, valore che pesa per il 2% della Borsa americana e per il 10% della Borsa di Londra. Prendiamo l’azienda americana per antonomasia, General Electric (GE), l’unica a far parte da sempre dell’indice Dow Jones. Nell’ultimo bilancio della società le informazioni riguardanti il deficit pensionistico segnalano un passivo di circa 19 miliardi di dollari, meno del ’1% del valore di mercato attuale di GE.
La misura della differenza tra gli impegni verso i futuri pensionati e il valore delle attività poste a garanzia è stata calcolata nell’ipotesi che il rendimento medio di queste ultime sia pari all’8% annuo. Se diamo un’occhiata al livello attuale dei tassi possiamo arrivare ad immaginare i vincoli che questo livello di rendimento implicito impone. Ad esempio, sia negli Stati Uniti che nella zona Euro il rendimento delle emissioni attualmente sul mercato, sia governative che societarie, è circa del 2,25% mentre nel Regno Unito è superiore di mezzo punto percentuale. I valori storici massimi di questo primo scorcio di millennio sono stati mediamente del 6-7%.
La distanza tra i rendimenti attesi (alti) e quelli effettivi (bassi) ha generato un forte ampliamento dei deficit pensionistici. Infatti, se nel 1999 solo il 24% dei fondi pensione americani era sottodimensionato, dodici anni dopo ben il 94% delle società americane segnalava problemi di capienza, con un rendimento medio atteso sceso dal 9% al 7% (GE si colloca su valori più elevati della media). Partendo dai livelli attuali dei tassi e ipotizzando una divisone paritaria dell’investimento tra obbligazioni e non obbligazioni (50/50) significa che in un arco temporale ventennale le aspettative di rendimento implicite nelle ipotesi di GE sono per una crescita media vicina al 14% annuo dell’investimento in attività che non siano obbligazioni (8%= 2,25%/2+13,75%/2).
Se aggiungiamo che tra il 1950 e il 2012 il rendimento medio delle obbligazioni ha superato il 6% e quello delle azioni è stato quasi del 11% (un portafoglio bilanciato 50/50 ha reso quasi il 9%), possiamo solo augurarci che le assunzioni implicite nel rendimento atteso di GE si realizzino. Peraltro, è presumibile che in qualche misura i mercati finanziari percepiscano questi squilibri e che i gestori dei fondi pensione spostino sempre maggiori risorse verso emittenti con rendimenti particolarmente penalizzati come i titoli di Stato italiani e di altri paesi dell’area euro.
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