Si è appena concluso il mese sacro del Ramadan del calendario islamico. Mese lunare, che viene annunciato all’apparizione della nuova luna e si conclude appunto dopo circa 28 giorni. Ogni anno, di conseguenza, l’inizio del Ramadan si anticipa di circa 10 giorni rispetto al calendario mensile a noi familiare. Mondo Economico mi ha lasciato la libertà di descrivere cosa questo mese, invero particolare, comporti per la vita di credenti (e non) nei paesi a maggioranza musulmana.
Quello appena concluso è stato appunto il mio nono Ramadan da non musulmano: tre in Marocco, quattro in Pakistan, due in Giordania. Numero che di per sé non mi conferisce alcun titolo per parlarne in modo antropologicamente fondato; ma forse abbastanza per descriverne le caratteristiche reali, al di là di facili stereotipi che troppo spesso lo dipingono come un esercizio un po’ fanatico e quindi difficilmente comprensibile.
Vorrei parlarne secondo tre linee guida. In primo luogo, il principio fondante del Ramadan: ovvero, perché si fa quello che si fa in quei 28 giorni. Poi, l’atmosfera che si respira, le pratiche quotidiane, i riti. Infine, come ogni paese dove ho vissuto regolamenta questo periodo. I lettori perdoneranno aneddoti personali che a volte inserirò: non certo a scopo analitico, ma puramente illustrativo.
Innanzitutto, osservare il Ramadan è uno dei cinque pilastri dell’Islam. Non è un’opzione per il credente. Come noto, la regola più onerosa da osservare durante il Ramadan è il divieto di bere e mangiare dall’alba al tramonto. Ma non si può nemmeno fare sesso, ascoltare musica, fumare. Al tramonto, il momento della rottura del digiuno, detto iftar, annunciato dal muezzin, rende di nuovo tutto lecito. Fino al sahr, il momento prima dell’alba, ultima opportunità per mangiare e bere. Che senso ha tutto questo? Il principio fondamentale del Ramadan è quello della compassione: ovvero, queste privazioni (tutte cose che rendono la vita bella, felice, gioiosa) ricordano al credente quanti, invece, non hanno di che bere, mangiare, o allietarsi. È un esercizio di immedesimazione nelle sofferenze altrui. Il che implica che è (o dovrebbe essere) un mese di raccoglimento e meditazione. In questo senso, ricorda chiaramente la Quaresima.
La pratica del Ramadan è un esercizio sì individuale, ma soprattutto comunitario. È la comunità intera che entra nel mese sacro, ed è quindi un mese di intensa vita pubblica. Tutti si sentono di soffrire insieme delle stesse privazioni. Questo spesso comporta un rafforzamento dei legami sociali, un modo per ritrovarsi ogni anno e rafforzare il senso di appartenenza, identità e fiducia nel prossimo.
Vi sono eccezioni alle regole di quanto sopra. Per esempio, bambini e anziani non sono tenuti a rispettarle. Donne incinte, viaggiatori e malati (cronici e non) sono pure esentati. Ma vi è la possibilità di digiunare prima o dopo il Ramadan nei giorni in cui si è impossibilitati a farlo. Per esempio, tempo fa feci un trekking nel Karakorum pakistano. Le mie due guide, musulmani osservanti, non potevano certo salire e scendere da passi, picchi e ghiacciai con me senza mangiare e soprattutto bere. Semplicemente, registravano i giorni in cui non osservavano il Ramadan per prendersi cura del proprio cliente, giorni che avrebbero poi “recuperato” una volta finito il nostro trekking. E dato che mangiavano e bevevano, il fumatore dei due non esitava ad accendersi anche qualche sigaretta…
Osservare il Ramadan è cosa seria. Ma l’atmosfera che si percepisce non è affatto cupa o triste. Certo, è un periodo provante. Ma dato che la comunità tutta lo attraversa; e dato che c’è un iftar ogni giorno cui guardare con trepidazione, l’atmosfera tende ad essere di festa: un’anticipazione di quando si potrà interrompere il digiuno con amici e familiari, o con il resto della comunità tutta. Le strade di Amman, per esempio, durante il Ramadan ricordano le nostre durante il Natale: luminarie, luci, decorazioni, che si accendono con particolare entusiasmo proprio di notte quando la vita sociale può scorrere liberamente. Ristoranti che sono rimasti chiusi tutto il giorno invadono letteralmente strade e marciapiedi, i tavoli vengono presi d’assalto, e gli avventori preparano il cibo da consumarsi di fronte a loro mentre aspettano, con estrema disciplina, il richiamo del muezzin che dichiara aperto l’iftar. Avendo partecipato a decine di iftar, non ho mai visto qualcuno che bevesse o mangiasse prima del dovuto. Tradizionalmente, come indicato da Maometto stesso, il digiuno si deve rompere con un dattero e acqua. Sempre ad Amman, a tassisti imbottigliati nel traffico (che diventa appunto particolarmente inteso quando si avvicina l’iftar), provati pure dall’astinenza da nicotina, ragazzi a semafori e incroci offrivano prontamente appunto acqua e datteri (e anche ai loro clienti, che avessero digiunato o meno…).
Episodi di generosità sono frequenti: proprio in riconoscenza delle privazioni altrui, si tende a dare somme maggiori ai mendicanti; o specifici doni (in Pakistan detti idi) a domestici, servitori, ma anche membri della famiglia (ancora una volta, un po’ come da noi a Natale). Ricordo la mia domestica a Karachi chiedermi, molto esplicitamente, idi per lei e la sua famiglia: anche da non musulmano, se in qualche modo si è parte della comunità (e con la possibilità di farlo), non ci si può negare. L’augurio che ci si scambia quando il Ramadan sta per iniziare, e poi per tutto il mese, è infatti Ramadan Kareem, ovvero ‘per un generoso Ramadan.’
Tutti rispettano i dettami del mese sacro? La pressione sociale, in quel senso, è alquanto forte. Specie nelle classi meno agiate, è difficile pensare che qualcuno, dichiaratamente, scelga di non osservarli. Essendo pilastro dell’Islam, sarebbe come dichiararsi al di fuori di esso. Certo è che molte delle persone che ho conosciuto tra Marocco, Giordania e Pakistan a volte non si consideravano musulmani praticanti (oppure, semplicemente atei); altre volte, si dicevano incapaci di rispettare il Ramadan anche se avrebbero voluto; altre volte ancora, negoziavano un Ramadan parziale: non mangio, ma bevo. Mi capitò di andare a Gerusalemme proprio durante il Ramadan del 2016. Un distinto gentiluomo palestinese, che viaggiava di fianco a me sull’autobus, mi disse che faceva del suo meglio per osservare il Ramadan. Ma essendo vicino ai sessant’anni, e cadendo il Ramadan di estate, quando sentiva particolarmente sete nei caldissimi giorni di giugno si concedeva un po’ d’acqua: ‘Allah capirà’, mi disse, sottovoce, tra il serio e il faceto.
Altre volte, la ribellione, spesso tra giovani e adolescenti, è più pronunciata. Ovvero: nessuna presa di posizione dichiarata, ma si sa che, presso le università in Pakistan e Marocco dove ho lavorato, gli studenti spesso si nascondono nei bagni per bere, mangiare o fumare durante il giorno. Altrimenti, pratiche un po’ più furbesche risolvono i problemi: vivere fondamentalmente di notte, dormendo durante il giorno, così da non avvertire, se non minimamente, il peso delle rinunce. Un atteggiamento chiaramente in contrasto con lo spirito del Ramadan; come lo è quello di mangiare in eccesso durante la notte: studi hanno rilevato come in molti paesi musulmani il Ramadan coincida, paradossalmente, con un incremento del peso della popolazione (ancora una volta, un po’ come il Natale…).
In ultimo, cosa comporta a livello ufficiale il Ramadan? I tre paesi in cui ho vissuto inseriscono l’Islam come componente fondante della nazione. Non sono certo teocrazie; ma in alcuni ambiti, le separazioni a noi familiari tra religioso, privato, sociale e pubblico non sussistono. L’osservazione del Ramadan è uno di tali ambiti. In teoria, ogni cittadino musulmano deve rispettarlo. Cosa questo comporti a livello pratico, anche per chi cittadino o musulmano non è, dipende da paese a paese. Di norma, uffici pubblici e non funzionano ad orario ridotto, riconoscendo la difficoltà di lavorare per 8 ore durante il Ramadan: per esempio, nella mia università marocchina membri dello staff lavorano dalle 9 alle 15, anziché’ dalle 8.30 alle 17.30. Lezioni di 80 minuti sono ridotte a 70; non ci sono lezioni intorno all’ iftar. Altri luoghi pubblici, come case di cura, ospedali, case di riposo, asili e scuole elementari, hanno a che fare con persone che, come detto, sono esentate dall’osservare il Ramadan.
In altri settori, paesi la cui economia dipende molto dal turismo permettono ad alcuni ristoranti di rimanere aperti. In Giordania e Marocco locali frequentati da stranieri rimangono aperti durante il giorno. Anche con piccoli cambiamenti: in Giordania, ciò avviene tirando tende per nascondere il consumo di bevande e cibo. In Marocco, solo una piccola parte del menù è di solito disponibile. In ogni caso, non è considerato opportuno o rispettoso bere o mangiare alla luce del sole: per esempio, bere da una bottiglietta o consumare un cono gelato mentre si passeggia. In Pakistan, paese dove i turisti sono molto meno numerosi, la chiusura è invece totale. Solo spazi che godono di extraterritorialità sono in grado di servire avventori durante il giorno: per esempio, la British Library di Karachi, tecnicamente territorio britannico, era uno dei pochissimi luoghi nella megalopoli aperti durante il mese sacro. Chiusura pressoché totale invece di ogni negozio che vende alcolici: che spesso fanno affari d’oro appena prima del Ramadan, quando molti fanno scorte per il mese.
La fine del Ramadan è forse la festa più gioiosa del calendario islamico: Eid al-Fitr, dura fino a tre giorni dall’avvistamento della nuova luna. Al suo avvicinarsi, l’augurio diventa Eid Mubarak (‘auguri di Eid’) e non piu’ Ramadan Kareem. Sono giorni di festa nazionale, quando chiudono uffici pubblici, la gente va in vacanza, si festeggia. Il mese infatti termina con Eid al-Fitr: inizia il mese successivo, Shawwal, e con esso e le disposizioni del Ramadan vengono meno.
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