È senz’altro noto all’osservatore italiano, anche grazie alla cinematografia, che lo sport occupa un ruolo di primo piano nel sistema di education statunitense, al cui interno l’agguerrita competizione sportiva funge da anticipazione di molte delle dinamiche cui gli studenti e le studentesse andranno incontro in età adulta.
Altrettanto noto è che la via dello sport professionistico (individuale e a squadre) passa proprio attraverso il sistema di istruzione, tanto è vero che le principali manifestazioni sportive giovanili vedono coinvolte le scuole e le università.
D’altro canto, gli stessi atenei statunitensi concorrono tra loro per attirare i migliori talenti provenienti dall’High School, ai quali, in forza di consolidate – ma oggi discusse – regole, non possono però offrire più che una borsa di studio a copertura dei costi, spesso elevatissimi, della retta universitaria e dell’alloggio.

Per di più, i prestigiosi college della celebre Ivy League (Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth, Harvard, Princeton, Pennsylvania, Yale) non contemplano la concessione di borse di studio per meriti esclusivamente sportivi, ammettendo al proprio interno, almeno teoricamente, solo studenti/atleti che risultino eccellenti a livello (in prima battuta) scolastico.
Eppure, le stesse Ivy Leaguers rientrano nel circuito della NCAA (National Collegiate Athletic Association), le cui manifestazioni sportive vengono trasmesse dalla ESPN (il principale network di sport statunitense), il che consente agli atenei partecipanti di ottenere una ingente mole di ricavi, ai quali contribuisce pure la vendita dei prodotti (divise, merchandising e persino videogiochi) recanti i nomi o le immagini dei giocatori.
Secondo la visione tradizionale, la partecipazione degli studenti/atleti di college alle competizioni non si legherebbe a ragioni di carattere economico, bensì ricreativo, morale, ideale: ciò escluderebbe che costoro possano avere accesso alle tutele lavoristiche ed in particolare al salario minimo federale[1].

Le entrate della NCAA generate dagli atleti dei college (2019) - Fonte: NCAA, Statista

Sino a tempi piuttosto recenti, gli studenti/atleti hanno sostanzialmente tollerato il proprio status amatoriale, confidando nei lauti – ma pur sempre aleatori – guadagni loro assicurati al momento del successivo passaggio al professionismo.
Tuttavia, l’incremento significativo degli introiti derivanti, per gli atenei, dalla partecipazione alle competizioni sportive collegiali, unita all’acquisita consapevolezza delle drammatiche conseguenze della mancanza di tutele in ambiti fondamentali come la protezione della salute, ha alimentato una crescente insoddisfazione, sfociata in una serie di recenti iniziative giudiziarie.
In un primo momento, un gruppo di giocatori di basket collegiale ha avviato una class action volta ad ottenere il riconoscimento del proprio diritto ad (almeno) una quota dei ricavi che i college avevano ottenuto mediante la cessione dell’immagine e dei nomi dei giocatori stessi (a loro insaputa) ad una società produttrice di videogiochi sportivi[2]: con due articolate pronunce del 2014 e del 2015, le Corti californiane hanno ritenuto che l’Ateneo non potesse validamente invocare, nell’opporsi alle legittime pretese dei titolari del diritto al c.d. “NIL” (Name, Image and Likeness), il carattere non economico dell’attività dagli stessi svolta, né tanto meno la regola, frutto di una sostanziale auto-determinazione, secondo cui gli importi da riconoscere agli studenti/atleti non dovesse superare il valore della retta universitaria.

A breve distanza di tempo, i giocatori della squadra di football di Northwestern University hanno avviato il procedimento per la costituzione di una rappresentanza sindacale. La Direzione Regionale dell’organismo competente in materia (la National Labor Relations Board – NLRB) ha accertato la natura subordinata del rapporto tra l’ateneo e i soli studenti-atleti percettori della borsa di studio e riconosciuto il loro diritto di indire le elezioni sindacali.
La decisione è stata in seguito riformata in secondo grado per ragioni di carattere formale, ma ciò non ha frenato il movimento per i diritti degli studenti/atleti, che hanno potuto pure giovarsi del pressoché contestuale mutamento di orientamento circa il diritto degli studenti che svolgono attività di assistenza alla ricerca o di tutoraggio nei propri college ad una rappresentanza sindacale. Per lungo tempo, infatti, anche costoro erano stati esclusi dalle tutele collettive, sulla base dell’assunto per cui gli stessi sarebbero stati “principalmente studenti, aventi un rapporto di natura educativa e non economica con l’ateneo”[3]. Senonché, all’esito di un landmark case riguardante gli studenti di Columbia, sempre la NLRB è da ultimo giunta alla conclusione che l’esercizio del potere di controllo e direzione sull’attività degli assistenti/studenti ne giustificherebbe l’accesso alle garanzie sindacali[4].

Di lì a breve, l’attenzione si è spostata nuovamente sugli studenti/atleti e sulla regolamentazione collegiale che vietava loro di percepire compensi di natura non strettamente retributiva (“non-cash education related benefits”) che varcassero il costo della retta universitaria. Tale limitazione è stata ritenuta contraria al diritto antitrust dalla Corte Suprema, che, pronunciandosi all’unanimità nel caso Alston (uno degli atleti universitari di football che hanno fatto causa alla NCAA nel 2021) , ha censurato duramente il business model della NCAA, rilevando che esso sarebbe stato “manifestamente illecito” (“flatly illegal”) in ogni altro settore di attività (“price-fixing labor is price-fixing labor”)[5].
Sulla scia di Alston,  è sorta una controversia che potrebbe sortire effetti sistemici per l’intero education system statunitense, messa in atto, piuttosto sorprendentemente, da un college della Ivy League – Dartmouth - noto ben più per gli studi pionieristici sull’AI che per i successi sportivi.
Lo scorso 5 febbraio 2024, infatti, la Direzione Regionale della NLRB ha accolto la richiesta dei giocatori della squadra di basket di Dartmouth di avviare la procedura per la costituzione della rappresentanza sindacale[6], sul presupposto per cui gli atleti debbano essere considerati lavoratori dipendenti dell’ateneo, in considerazione del pervasivo potere di controllo sugli stessi esercitato dall’organizzazione (sottoposizione ad un rigido regime di allenamento, di alimentazione e di riposo, oltre al costante monitoraggio delle relative attività). Addirittura, nel corso del giudizio era emerso che diversi studenti/atleti, a dispetto delle regole di ammissione basate, nella migliore tradizione della Ivy League, sul merito scolastico, ritenevano prioritaria l’attività sportiva sullo studio (“academics take a back seat to football”, ha dichiarato un testimone) e di ciò non poteva che essere consapevole lo stesso college, che aveva tratto un sensibile vantaggio economico dalla propria squadra di basket, in termini di ricavi (derivanti dai diritti televisivi) e di donazioni (da parte degli Alumni).

All’indomani della decisione menzionata e, soprattutto, dell’avvenuta costituzione della rappresentanza sindacale dei giocatori di basket di Dartmouth, la NCAA ha provato a fare leva sul Congresso per ottenere un provvedimento che precludesse ad altri studenti/atleti di avanzare analoghe pretese, ma tale iniziativa non ha sinora trovato alcun riscontro significativo, anche in considerazione della prossimità delle elezioni presidenziali di novembre.


Il dado pare comunque definitivamente tratto e nessuna soluzione pare escludibile a priori.
Nell’attuale dibattitto, sta prendendo sempre più corpo l’idea di estendere a livello collegiale le regole proprie di un sistema professionistico. Ciò, però, oltre ad allontanare vieppiù gli atleti di college dalla prospettiva dello studio (anche “part-time”), avrebbe delle conseguenze negative anche sull’equilibrio della stessa competizione sportiva: la soluzione rischierebbe infatti di ampliare la forbice tra gli atenei che potrebbero permettersi di ingaggiare (tecnicamente, assumere) i migliori giocatori, riconoscendo loro una retribuzione elevata, e i college minori, che potrebbero al più ricorrere, come oggi, alle borse di studio. Ne risulterebbe, soprattutto, inciso in profondità l’ascensore sociale che, con tutti i problemi e le difficoltà del caso, ha consentito a molti studenti e studentesse provenienti dai ceti meno abbienti di avere accesso, grazie allo sport, ad un’istruzione di livello più elevato, utile soprattutto ai molti (anzi, moltissimi), tra gli studenti/atleti, che non sono poi destinati a vivere di sport.

Sarebbe, perciò, preferibile una soluzione più equilibrata, basata, oltre che sul riconoscimento di un corrispettivo per lo sfruttamento dell’immagine e del nome dei giocatori da parte degli atenei (come, del resto, suggerito dalla Corte Suprema nel caso Alston), su un sistema di premi, anche economici, legati all’andamento delle competizioni sportive: così si otterrebbe un riequilibrio nei rapporti tra i college e gli studenti/atleti, senza mettere definitivamente in crisi il sistema delle borse di studio ed il valore inclusivo alle stesse sotteso.
Per quanto sul caso Dartmouth non sia stata ancora messa una parola definitiva (e non è affatto da escludere che lo stesso finisca per approdare alla Corte Suprema), dallo stesso emerge nitidamente che il tradizionale status amatoriale degli studenti/atleti dei college americani è entrato definitivamente in crisi: di certo, chiunque avrà il compito di giocare questa delicata partita sul piano della regolazione, dovrà avere ben presente che essa trascende il campo sportivo e si colloca alle radici, non solo dell’education system, ma anche della stessa società statunitense.

 

[1] Berger v. NCAA, 843 F.3d 285 (7th Cir. 2016).
[2] O’Bannon v. NCAA, 7 F. Supp. 955 (N.D. Cal. 2014); O’Bannon v. NCAA, 802 F.3d 1049 (9th Cir. 2015).
[3] Brown University, 342 NLRB 483 (2004).
[4] Columbia University, 364 NLRB 1080 (2016).
[5] National Collegiate Athletic Association v. Alston, 594 U.S. (2021).
[6] Trustees of Dartmouth College, 01-RC-325633 (NLRB Feb. 5, 2024).