L'esito delle elezioni ha contribuito a dissipare i dubbi riguardo alla data dell'uscita del Regno Unito dall'UE. ma restano diverse incertezze
L’esito dell'ultima tornata elettorale
La netta affermazione del Partito Conservatore guidato dal Primo Ministro Boris Johnson nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento britannico del 12 dicembre ha spianato la strada all'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea: dopo una lunga serie di colpi di scena e a distanza di tre anni e mezzo dal referendum consultivo del giugno 2016, sembra davvero che la Brexit stia per diventare realtà. Nei giorni successivi alle elezioni, infatti, Boris Johnson ha garantito che la data di uscita dall'Unione Europea resterà quella prefissata del 31 gennaio 2020: il 20 dicembre il testo dell'accordo per la Brexit raggiunto a ottobre con i negoziatori europei è approdato a Westminster per la seconda lettura, ottenendo 358 voti favorevoli e solo 234 contrari.
Non sono servite a molto le proteste del Partito Laburista per l'eliminazione delle garanzie in termini di tutela dei diritti dei lavoratori e dei diritti dei rifugiati che erano state aggiunte all'accordo dal Governo in autunno, nel tentativo di favorirne l'approvazione in tempo utile per la scadenza di fine ottobre. Il Withdrawal Agreement è tornato in terza lettura, dopo la pausa per le festività natalizie, alla Camera dei Comuni, dove è stato approvato con 330 sì e 231 no. Il Parlamento Europeo ratificherà l'accordo il 29 gennaio, due giorni prima della scadenza prevista del 31 gennaio 2020.
Le urne hanno consegnato un ampio mandato al primo ministro Johnson (Figura 1): il Partito conservatore ha ottenuto una larga maggioranza (Figura 2) alla Camera dei Comuni conquistando 365 seggi, il miglior risultato per il Partito conservatore dalle elezioni del 1987. Sonora è stata invece la sconfitta per il Partito laburista che ha ottenuto 203 seggi, 59 seggi in meno rispetto alle elezioni del 2017 (Figura 3). Per il Partito guidato dal contestatissimo Jeremy Corbyn si è trattato del peggior risultato dal 1935. Deludente anche il risultato dei Liberal Democratici che, pur vedendo crescere significativamente i loro consensi, hanno conquistato solo 11 seggi, uno in meno rispetto all'ultima tornata elettorale e hanno dovuto subire lo smacco della mancata elezione della leader del partito Jo Swinson. Non sono riusciti a sfondare nemmeno i Verdi, i quali con il 2,7% dei consensi hanno ottenuto soltanto un seggio, mentre non ne ha conquistato nessuno il Brexit Party con il 2% delle preferenze. Va sottolineato però che la formazione guidata da Nigel Farage ha scelto di non presentarsi in molti distretti elettorali per facilitare l'elezione dei candidati del Partito conservatore. È andata molto bene invece ai nazionalisti scozzesi dello Scottish National Party (SNP) che hanno raggiunto un risultato eccellente conquistando 48 dei 59 seggi in palio in Scozia.
L'affermazione del Partito conservatore è stata resa più ampia dal sistema elettorale in vigore nel Regno Unito (Figura 4): il sistema maggioritario uninominale ha infatti consentito ai Tories di conquistare moltissimi seggi, ma in termini di voti le differenze sono state meno marcate, con il 43.6% delle preferenze per i Conservatori, il 32.1% per i Laburisti e l'11.6% per i Liberal Democratici, circostanza che ha inevitabilmente fatto riemergere le polemiche riguardanti il deficit di rappresentanza del sistema elettorale britannico.
Le ripercussioni del voto a livello nazionale ed internazionale
Se le elezioni hanno rappresentato un trionfo per Boris Johnson, hanno anche sancito una pesante sconfitta per il leader del Partito laburista, che si preannuncia carica di conseguenze per lo stesso Corbyn, storico esponente dell'ala più radicale del Partito laburista da sempre mal sopportato dagli esponenti dell'area riformista e ora finito sul banco degli imputati. La lista delle accuse è lunga: i commentatori sono stati unanimi nel criticare l'atteggiamento ambiguo tenuto nei confronti della Brexit sin dalla campagna per il referendum del 2016: l'impressione è che Corbyn sia stato costretto a combattere per una causa nella quale non ha mai creduto veramente. La posizione poco chiara di Corbyn è stata certamente meno efficace dell'inequivocabile Get Brexit Done, slogan utilizzato dai Tories in campagna elettorale. Non sono mancate le critiche poi per il programma stilato dal leader laburista, giudicato sin troppo ambizioso e poco realistico persino da buona parte del proprio elettorato. Non hanno certo aiutato le polemiche riguardo il presunto antisemitismo di Corbyn: una relazione stilata da membri del suo stesso partito lo ha infatti accusato di aver insabbiato alcuni casi interni. Corbyn è spesso stato anche tacciato di avere posizioni troppo sbilanciate in favore dei palestinesi e troppo critiche nei confronti del governo di Israele. Alcune associazioni ebraiche britanniche, prima delle elezioni, erano arrivate a dichiarare di temere l'eventualità di una sua vittoria. Infine, gli è stato rinfacciato di aver rifiutato la possibilità di patti di desistenza con i Liberal Democratici in alcuni collegi, patti che avrebbero potuto portare all'elezione di un numero inferiore di candidati del Partito conservatore.
Corbyn inizialmente ha cercato di difendere il suo operato ma è stato poi costretto a lasciare intendere che abbandonerà la guida del Partito nei primi mesi del 2020. La lotta per la successione si prospetta aspra: gli uomini di Corbyn controllano ancora il direttivo del partito, ragione che spinge gli esponenti dell'ala centrista a esercitare la massima pressione sul leader laburista per costringerlo ad abbandonare subito il campo ed evitare che la sua corrente possa riorganizzarsi. Particolarmente bruciante è stata la sconfitta in alcune storiche roccaforti laburiste nel Nordest dell'Inghilterra, dove gli effetti della crisi economica si fanno ancora sentire e dove il tasso di disoccupazione è significativamente più alto che nel resto del Paese: proprio in quelle zone, l'elettorato ha manifestato sfiducia nei confronti del Partito laburista mostrando di attribuire la responsabilità delle proprie difficoltà economiche soprattutto all'immigrazione e all'Unione Europea.
Nel discorso della vittoria, Johnson ha assunto toni più concilianti: l'ex sindaco di Londra ha parlato della necessità di una pacificazione nazionale dopo tre anni e mezzo di divisioni. Tuttavia, non sarà cosi semplice: la leader dei nazionalisti scozzesi, Nicola Sturgeon ha già annunciato di voler chiedere un nuovo referendum per l'indipendenza che però Boris Johnson non ha nessuna intenzione di concedere. Dunque, la battaglia politica e legale sulla questione dell'indipendenza scozzese rischia di assumere toni molto aspri nei prossimi anni, così come non sono assolutamente da sottovalutare le problematiche legate all'Irlanda del Nord e alle istanze portate avanti dai Repubblicani irlandesi: le conseguenze della Brexit potrebbero mettere seriamente a repentaglio l'integrità del Regno Unito, dal momento che i due Paesi avevano chiaramente espresso la loro posizione contraria all'uscita dall'Unione Europea nel referendum del 2016 (Figura 5).
Intanto il presidente americano Trump, congratulandosi con Johnson per la vittoria, si è affrettato a prospettargli un accordo commerciale a suo dire migliore di quello che il Regno Unito ha mai avuto con l'Unione Europea. La sfida principale per Johnson sarà proprio quella di negoziare un accordo commerciale con l'Unione Europea: i leader europei hanno ribadito che se il Regno Unito vorrà continuare ad avere libero accesso al mercato europeo dovrà rispettare le stesse norme in materia di tutela dell'ambiente, regolamentazioni sanitarie, tutela dei lavoratori e aiuti di stato. Tutto questo per evitare che le imprese britanniche possano trovarsi in posizione di vantaggio, godendo di agevolazioni in contrasto con quelle europee, come ad esempio quelle che vietano le sovvenzioni statali. Johnson, dal canto suo, è deciso a non estendere il periodo di transizione di undici mesi durante il quale il Regno Unito resterà vincolato al rispetto delle normative europee, nonostante il tempo a disposizione per negoziare un accordo commerciale così complesso sia davvero ridotto.
Tra i leader europei particolarmente chiara è stata la posizione del presidente francese Emmanuel Macron, il quale ha ribadito la necessità di parità di condizioni tra le imprese europee e quelle britanniche. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha lasciato intendere che difficilmente si riuscirà a raggiungere un accordo su tutti i punti entro il 31 dicembre 2020 e ha indicato fra i temi prioritari su cui concentrare l'attenzione il commercio, la pesca, la sicurezza e lo scambio di informazioni: la formula con cui la Presidente della Commissione ha riassunto la posizione degli europei è zero dazi, zero quote e zero dumping.
Lo stato dell'economia britannica e le incertezze legate alla Brexit
In questo quadro restano incerte le prospettive dell'economia britannica. La Sterlina inizialmente si era apprezzata nei confronti dell'Euro dopo l'esito delle elezioni: i mercati avevano mostrato soddisfazione per la fine dell'incertezza sulla data della Brexit, ma le dichiarazioni del Primo Ministro britannico hanno alimentato il timore che non si riesca a raggiungere un accordo con l'Unione Europea entro il 31 dicembre 2020 innescando un nuovo deprezzamento della Sterlina nei confronti dell'Euro (Figura 6).
Nel periodo a cavallo tra il 1993 e il 2007 l'economia britannica aveva attraversato una fase molto favorevole, interrotta bruscamente dalla crisi economica del 2008-2009: nel 2009, l'anno più difficile della crisi, il PIL britannico aveva subito un calo del 4.2%. La ripresa economica, inizialmente lenta, aveva cominciato ad accelerare nel 2014 e nel 2015 ma l'incertezza relativa alla Brexit ha contribuito a rallentare il tasso di crescita dell'economia sceso all'1.9% nel 2016 e nel 2017 e all'1.4% nel 2018 (Figura 7 e Figura 8). Per quest'anno le stime di crescita dell'OCSE parlano di un poco esaltante 1.2%.
Negli ultimi anni all'effetto delle incertezze sulla Brexit si è sommato l'effetto del rallentamento dell'economia globale, legato alle difficoltà delle economie di alcuni Paesi emergenti e dei Paesi della zona Euro, e alle preoccupazioni per le guerre commerciali innescate dal presidente americano Donald Trump. Il rallentamento dell'economia globale intanto sta avendo naturalmente un impatto negativo sulle esportazioni, mentre l'inflazione rimane sotto controllo, attestandosi attorno all'1.8% (Figura 9), grazie anche al calo del prezzo delle risorse energetiche. L'incertezza relativa alla Brexit negli ultimi anni ha causato una diminuzione degli investimenti delle imprese che si è tradotto in un calo del tasso di crescita della produttività, dato che è destinato a impattare negativamente sulla capacità delle imprese britanniche di competere a livello internazionale. Da evidenziare come anche la disoccupazione sia sotto controllo (Figura 10): dal 4% del 2018 si è scesi ulteriormente al 3.8% nel 2019, anche se restano aree depresse concentrate soprattutto nel Nordest dell'Inghilterra, dove il tasso di disoccupazione supera il 5.4% e il livello medio delle retribuzioni resta inferiore alla media nazionale.
I Tories sono al governo ininterrottamente ormai dal 2010 e le loro politiche di austerità hanno consentito di tenere il rapporto Debito/PIL sotto controllo, risultato ottenuto a costo di dolorosi tagli nei servizi pubblici. Il rapporto Debito/PIL si attesta attualmente all' 85.2%, mentre il deficit pubblico è al 2.2% del PIL. Johnson in campagna elettorale ha sorprendentemente promesso di aumentare i finanziamenti al NHS, il servizio sanitario nazionale, da sempre difeso a spada tratta del Partito laburista, il quale dal canto suo ha reagito accusando il Premier di voler ingannare l'elettorato e di voler in realtà svendere il servizio sanitario nazionale a Trump attraverso una serie di privatizzazioni.
Le previsioni della Banca d'Inghilterra parlano di una ripresa della domanda interna nel 2020, che dovrebbe essere favorita dalla politica fiscale espansiva promessa dal primo ministro in campagna elettorale. L'OCSE prevede però un ulteriore rallentamento della crescita dell'economia britannica nel 2020 con un tasso di crescita dell'1% a causa della debolezza dell'economia globale e delle incertezze sulle relazioni future del Regno Unito con l'Unione Europea.
Allo stato attuale infatti la possibilità di un ritorno a controlli doganali sembra piuttosto alta. Si tratta di un fattore che potrebbe esercitare la sua influenza già dal 2021: eventuali differenze nelle normative e negli standard produttivi tra Regno Unito e Unione Europea potrebbero diventare più rilevanti nel medio e lungo termine. Il mondo imprenditoriale si augura che si riesca a raggiungere un accordo di libero scambio con l'Unione Europea per scongiurare il rischio dell'introduzione di tariffe e quote sulle esportazioni britanniche nei mercati europei: stando alle dichiarazioni ufficiali, la posizione dei negoziatori europei si prospetta piuttosto rigida ma i britannici si chiedono se gli europei saranno effettivamente in grado di mantenere una posizione tanto intransigente in un momento di rallentamento della crescita economica nella zona euro.
L'esito delle elezioni ha contribuito a dissipare i dubbi riguardo alla data della Brexit ma resta l'incertezza riguardo ai termini dell'accordo commerciale che potrà essere raggiunto tra Regno Unito e Unione Europea. Molto dipenderà dalle decisioni di Boris Johnson: gli analisti si chiedono se una volta ottenuto il potere, il Premier assumerà un atteggiamento più pragmatico o se continuerà nella sua crociata a tutto campo contro l'Unione Europea. Le intenzioni dell'istrionico Premier britannico rimangono difficili da decifrare mentre l'incertezza riguardo alle prospettive future dell'economia britannica è destinata a durare almeno fino alla fine del 2020. Senza dimenticare inoltre le posizioni di Scozia ed Irlanda del Nord che potrebbero inasprirsi, causando altri problemi non solo al Governo Tories ma alla tenuta stessa del Regno Unito, ulterormente scosso in questi giorni dall’allontanamento dalla famiglia reale dei duchi di Sussex, Harry e Meghan.
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