Esattamente vent’anni fa, l’11 agosto 2003, la Nato prendeva il controllo della missione Onu Isaf (Forza di sicurezza di assistenza internazionale) in Afghanistan. Erano passati quasi due anni dall’invasione americana del Paese all’indomani dell’11 Settembre. La Isaf doveva offrire una copertura legale nel complesso processo di ricostituzione dell’autorità statale afghana. Sotto mandato Onu, essa si sarebbe impegnata ad addestrare le forze di sicurezza afghane (Ansf), rendendole capaci di controllare il territorio del paese una volta eliminate le residue sacche di resistenza del primo regime talebano (1996-2001).
Una fictio, a ben vedere: utilizzare la copertura dell’Onu per conferire legittimità internazionale al progetto americano. Proprio quell’appropriazione di una missione Onu da parte della Nato indica due elementi fondamentali. Il primo concerne appunto il progetto di ricostituzione statale (‘state building’) in Afghanistan. Il secondo lo scenario globale in cui tale appropriazione occorse - e di riflesso, quanto le cose siano cambiate negli ultimi vent’anni.
Sono due temi chiaramente connessi. Gli Usa avevano accusato il regime talebano di dare rifugio ad Al-Qaeda e al suo leader Osama Bin Laden, responsabili degli attacchi a New York e Washington. La rimozione di tale regime avrebbe in primo luogo indebolito logisticamente Al-Qaeda tanto da eliminarla; e contemporaneamente, l’instaurazione di uno stato democratico avrebbe impedito che l’Afghanistan diventasse di nuovo un santuario per il terrorismo transnazionale. Possiamo notare quindi due preoccupazioni che guidano la politica estera americana in questo periodo: la minaccia securitaria principale è il terrorismo transnazionale (quindi non altri stati); la soluzione è l’imposizione di regimi democratici ai Paesi che lo sostengono (una prospettiva che guidò anche la guerra in Iraq, iniziata già nel marzo 2003).
Lo stesso anno della guerra in Iraq
In questo senso, l’acquisizione del controllo dell’Isaf da parte della Nato è il primo sintomo del fallimento di questo progetto. L’Isaf doveva appunto addestrare le nuove forze di sicurezza afghane. Non pensava di entrare in contatto con le forze talebane: le si pensava annientate dopo l’invasione americana. L’Isaf era solo a Kabul - un suo dispiegamento su tutto il territorio del paese non aveva, in quella prospettiva, alcun senso. Ma ecco che dopo due anni, le Ansf non hanno imposto la sovranità del governo centrale oltre i confini della capitale. Un regime democratico non sta sorgendo ‘organicamente’ nel paese. I talebani sono in effetti un movimento di resistenza diffuso in buona parte del paese. Vi è la necessità di una nuova fase ‘muscolare’ dove la Isaf affianca sul campo le Ansf. La Nato, con tutti gli strumenti (competenza, logistica, coordinazione, efficienza) per fare questo, viene dunque posta al comando della Isaf.
La prima volta fuori dall'Europa
È la prima volta che la Nato viene impiegata al di fuori del teatro europeo e nord atlantico. Tutti e trenta i paesi membri vi partecipano: il territorio afghano viene diviso in provincie di competenza. L’Itala prende in consegna la zona di Herat, nel nord ovest, relativamente più calma (ma ciò non impedirà alle nostre forze di perdere 53 uomini nel corso della missione). L’apice delle forze Isaf-Nato si raggiunge nel 2010-2012, con oltre 130mila soldati.
Tanti? Pochi? Non è solo una questione di numeri se lo strapotere militare della Nato non riesce a conferire statualità all’Afghanistan. Le forze talebane non saranno mai vinte. Nel 2014 la missione Isaf finisce, lasciando posto a ‘Resolute Support’ che ancora una volta tenta di addestrare la Ansf. Le truppe Nato si smobilitano, lasciando però contingenti appunto dedicati all’addestramento delle truppe afghane. Questi se ne andranno definitivamente nell’agosto 2021, con la drammatica evacuazione delle forze occidentali da Kabul e il ritorno dei talebani al potere.
Un progetto figlio dell'imperialismo
Rimane da esplorare il contesto in cui la Nato prese il comando di una missione Onu. Si badi bene: una missione di sicurezza, quindi votata dai 5 membri permanenti del Consiglio. In altre parole, nel 2001, al lancio dell’Isaf, Russia e Cina diedero il beneplacito per impegnare l’Onu in un progetto figlio del potere imperiale Usa. Non basta. Due anni dopo accettarono che la manifestazione militare più palese di tale potere, ovvero la Nato, rilevasse il controllo della missione Onu. Per di più andando ad operare in un territorio che confina con la stessa Cina, e che storicamente è stato oggetto delle ambizioni espansionistiche di Mosca. L’inizio del secolo presentava infatti una Cina appena entrata (nel 1999) nell’Organizzazione Mondiale del Commercio: desiderosa quindi di accedere ai mercati occidentali per nutrire la sua prorompente crescita economica, che ancora non era diventata chiara ambizione a livello geopolitico. E la Russia agiva ancora in quello che possiamo chiamare lo spirito di Pratica di Mare, dove nel 2001 Putin aveva firmato un accordo per stabilire un consiglio Nato-Russia.
I Paesi "canaglie"
L’acquiescenza russo-cinese - e in fondo del mondo intero, fatta eccezione per alcuni Paesi dichiarati, appunto, quali ‘canaglie’ - al progetto americano ci ricordano di una fase, molto vicina, in cui il potere americano, le sue istituzioni e financo valori venivano accettati come inevitabili. Quasi fossero destinati a segnare il resto del secolo. Il fallimento in Afghanistan di tale progetto, dei limiti del potere americano di disegnare la realtà secondo i propri desiderata manu militari, non erano che i prodromi della stagione in cui stiamo ora vivendo. Il confronto tra stati è tornato centrale dopo il breve intermezzo della guerra al terrore. Nuovi orizzonti politico-istituzionali (regimi autoritari, spesso con riflessi di populisti) competono con la democrazia liberale. Istituzioni internazionali senza potere economico-militare, come l’Onu, appaiono vieppiù come i resti di un’epoca che è finita.
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