Per il Brasile, la più grande nazione dell’America Latina, la violenza esplosa l’8 gennaio rappresenta la minaccia più significativa alla democrazia dal colpo di stato militare del 1964. A pochi giorni dall’assalto al centro istituzionale del Paese, a Brasilia (i palazzi dei tre poteri, Parlamento, Corte Suprema e Planalto, l’ufficio del presidente), i contorni non sono ancora del tutto chiari.
Qual è stato l’obiettivo dell’operazione? Chi sono i finanziatori? Bolsonaro è il mandante politico? Seppure a distanza, dal “buen retiro” di Miami, dove si trova dal 30 dicembre scorso? Tanti gli interrogativi che abbiamo condiviso con Loris Zanatta, docente di Storia e Istituzioni delle Americhe al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali all’Università di Bologna, storico e autore di numerose pubblicazioni. «È ancora difficile dare un giudizio definitivo su quanto accaduto. Penso, e spero, che tra due anni lo archivieremo come una “carnevalata”» esordisce Zanatta. «Un golpe non lo fanno 3 mila militanti con le bandiere attorno al collo che entrano nelle stanze del potere e distruggono opere d’arte e arredi. I golpe li fa chi ha il potere per abbattere le autorità legali. L’episodio non va comunque sottovalutato: siamo di fronte al nucleo più messianico, radicale, fanatico del movimento di Bolsonaro».
Un episodio che potrebbe non rimanere isolato…
«Non mi sento di escluderlo, il rischio è reale. Potrebbero nascere piccole minoranze incattivite, isolate politicamente, che ricorrono a atti terroristici. Non dimentichiamo che Bolsonaro è stato oggetto di un attentato nella campagna presidenziale di quattro anni fa, che gli valse l’aura di martire che esibisce così volentieri».
Ritorniamo all’8 gennaio: cosa voleva dimostrare il movimento dell’ex presidente?
«Che le autorità elette sono illegittime, che la patria è in pericolo e gli unici a salvarla, come già fecero in passato - questa ovviamente è la loro lettura storica - sono le forze armate. È un modo per bussare alla porta dell’esercito. Nella storia latinoamericana è già avvenuto molte volte. Ma oggi è una strategia politica sensata? Quello che ha funzionato nel 1964, quando i militari brasiliani presero il potere, può funzionare anche nel 2023? Credo di no».
Perché si sente di escludere la deriva militare?
«Perché è vero, ci sono militari che simpatizzano per Bolsonaro…Ma pensare che le forze armate nel 2023 intervengano in un Paese come il Brasile con una democrazia piuttosto radicata, non lo vedo possibile. L’opinione pubblica è contraria a un colpo di stato militare. E le dirò di più: gli stessi bolsonaristi, o gli elettori di Bolsonaro, sono in grandissima maggioranza contrari a un golpe. In queste ore hanno reagito tutte le corporazioni imprenditoriali, la stampa, le università, i sindacati. Pensare che le forze armate, con tutto il paese contro, prendano il potere è assolutamente delirante. E Lula dovrà distinguere tra l’elettore medio che non è golpista, antidemocratico, e le piccole minoranze radicali. Siamo di fronte a un clamoroso autogol che sancisce l’inizio del declino di Bolsonaro e del suo movimento. È un autogol anche perché favorisce l’avversario: Lula oggi ne esce come un vincitore».
È vero, rafforza Lula perché gli permette di schiacciare l’opposizione radicale ma potrebbe farlo anche rallentare nel percorso delle riforme, dovendo assicurare pace sociale…
«Sono due possibilità che non si escludono. Mi spiego meglio. E non è facile in Europa dove anni di “propaganda” un po’ tendenziosa hanno costruito attorno a Lula un mito romantico, astratto. Tanto da non farci comprendere perché metà dei brasiliani non solo non lo ha votato ma lo detesta profondamente. Lula ha vinto le elezioni con numeri molto risicati, non ha la maggioranza in Parlamento, ha formato un governo di coalizione straordinariamente eterogeneo. È naturale che, nel momento in cui esplode un assalto come quello al quale abbiamo assistito, immediatamente il Paese si raccolga attorno alle istituzioni legittime. A partire dalla presidenza della Repubblica. Per questo Lula oggi è più forte. Fino al 7 gennaio era il presidente legittimo ma inviso a tanti, ora è il simbolo della democrazia minacciata. Questo non significa che non debba andarci piano e che non debba fare buon uso di questa opportunità».
In che modo fare buon uso dell’assalto a Brasilia?
«Anche il Partito dei Lavoratori di Lula ha al suo interno frange oltranziste. Lui stesso ha giocato molto, e continua a giocare, al leader carismatico, messianico, che invoca la salvezza della patria e del popolo. Ecco, se in futuro dovesse spingere su quest’anima, accettando la radicalizzazione, dimostrerebbe di non saper approfittare della straordinaria opportunità che gli è stata servita. Ma è un uomo molto pragmatico, penso che saprà evitare questo pericolo».
Qual è il suo giudizio sull’attuale presidente?
«Ho ammirato in parte il Lula del 2002. Oggi ho dubbi e timori. Anche in questa occasione non si è fatto mancare un paio di uscite che aprono a scenari inquietanti. Ha definito Bolsonaro il “presidente del genocidio”. La parola genocidio è pesante, ha implicazioni storiche gigantesche. Non si possono usare queste parole a caso. Non si può dire a metà dei brasiliani, che lo avevano votato, che sostengono un genocida. Ma c’è di più. Tra i calcinacci degli uffici devastati dai bolsonaristi, Lula ha preso in mano un crocifisso, identificandosi con Cristo. Ecco, penso che quando la politica, lo fa Bolsonaro ma pure Lula, invece di discutere di riforme, conflitti di interesse, inizia a essere più vicina a Dio, si trasforma in una guerra di religione. Lula deve stare molto attento a toccare questa corda che lo tenta tantissimo: quella del leader messianico che vuole salvare la patria».
Lula deve fare molta attenzione anche all’esercito. A Brasilia ha dato quantomeno segnali di ambiguità. Può diventare la sua spina nel fianco?
«Sicuramente Lula dovrà fare attenzione alle nomine nelle forze armate: dovrà favorire i fedeli. Da quello che sappiamo, i settori più ostili sono i ranghi intermedi. I vertici sarebbero invece leali alla democrazia. Le forze armate sono federali, dipendono dal potere centrale. Poi ogni Stato ha le sue forze di sicurezza. Ma io non ce li vedo i governatori dei grandi stati brasiliani a salire sulla barca dell’eversione, del golpismo, della violenza».
Il presidente Biden ha invitato Lula a Washington, a febbraio. Ma ci sono analisti che chiamano in causa responsabilità americane su quanto è accaduto a Brasilia…
«Quello che accade in Brasile non dipende dagli Stati Uniti. Siamo troppo abituati a leggere gli eventi latino americani con uno spirito complottista. Quando mi chiedono se l’assalto a Brasilia ricordi gli eventi contro il Campidoglio di due anni fa, la mia risposta ovviamente è sì. C’è una affinità ideale dichiarata, e coltivata, tra Trump e Bolsonaro. Al tempo stesso, tra il serio e il faceto, aggiungo che in realtà non è il Brasile a copiare gli Stati Uniti. Semmai, con Trump, gli Stati Uniti stanno dimostrando un processo di latino americanizzazione della politica, condotta più su principi religiosi che razionali».
La presenza di Bolsonaro a Miami sarebbe dunque un caso?
«Il soggiorno di Bolsonaro in Florida non credo coinvolga in nessun modo gli Stati Uniti. Meno che meno il governo di Biden che non ha alcuna simpatia per l’ex presidente. Cercare di capire cosa passa per la testa di Bolsonaro è praticamente impossibile: è una figura eterodossa da ogni punto di vista. Possiamo ipotizzare che si trovi a Miami perché sapeva cosa stava per accadere e non voleva essere coinvolto direttamente. Oppure possiamo pensare che sta perdendo il controllo del suo movimento. In fondo Bolsonaro ora non ha poteri concreti ma il suo movimento controlla tutti i maggiori Stati del Brasile: il potere del bolsonarismo è passato nelle loro mani. Ma come ho già detto, non credo che i governatori seguiranno i golpisti. Per questo penso che le violenze a Brasilia segnino il canto del cigno di Bolsonaro».
Parliamo di economia: qual è il suo giudizio sui primi provvedimenti di Lula che smantellano l’eredità di Bolsonaro, dall’Amazzonia alla marcia indietro sulle privatizzazioni?
«Si tratta di misure ampiamente prevedibili. Sono molto favorevole al cambiamento di rotta sui diritti civili, delle minoranze, sulle norme che ha reintrodotto per l’Amazzonia. Anche se attorno a questo tema c’è molta propaganda. Ho tanti dubbi invece sulla politica economica. Il Brasile ha bisogno di liberalizzare l’economia. Ha una struttura molto corporativa, poco aperta alla competizione, poco innovativa, con tassi di produttività bassissimi. Lula ha governato per otto anni in un contesto economico straordinariamente favorevole, che credo non si ripeterà per i prossimi duecento anni. Aveva il vento in poppa, poteva fare riforme strutturali molto importanti e non ha fatto nulla. Non a caso, quando il vento internazionale è cambiato, il Brasile tra il 2013 e il 2016 è entrato in una devastante recessione. Quindi, che politica economica vuole fare Lula? Se vuole tornare a una politica di tipo stato centrica, non la condivido assolutamente. Non per ragioni ideologiche. Ma perché controproducente per un Paese come il Brasile. È però ancora presto per dare giudizi definitivi».
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