Il 30 ottobre il Brasile vedrà sfidarsi al ballottaggio presidenziale Luiz Inácio Lula da Silva e Jair Bolsonaro. Il primo è stato presidente dal 2003 fino al 2010. Il secondo è il presidente uscente. Il loro duello non è solo un confronto tra il Partito dei Lavoratori (PT) di centro-sinistra guidato da Lula e il Partito Liberale (PL) di destra di Bolsonaro. È uno scontro tra due visioni del Brasile, ideologicamente polarizzato. Ricalca dinamiche simili rispetto a quanto visto nell’altro gigante dell’emisfero occidentale, ovvero l’America divisa tra i democratici di Biden e i repubblicani di Trump.

Lo scorso 2 ottobre circa 120 milioni di brasiliani hanno votato al primo turno. Le previsioni davano Lula vincitore con oltre il 50% dei voti, quindi immediatamente eletto presidente. Ma Bolsonaro, la cui popolarità sembrava definitivamente precipitata, in particolare a fronte di una disastrosa gestione del covid, ha raccolto ben il 43% dei voti. Lula è quindi arrivato al 48%. PT e PL sono gli unici due partiti che hanno superato il 5% dei voti. Nel ballottaggio i voti per le formazioni guidate da Simone Tebet e Ciro Gomes, insieme circa il 7% del totale, potrebbero essere decisivi per Lula.

Su cosa si articola il duello tra Lula e Bolsonaro? Consideriamo due dimensioni, connesse tra di loro. La prima è ideologico-culturale. La seconda è socio-economica. Dalla loro sintesi, è possibile evincere quali visioni del Brasile si stanno sfidando.

La strategia del Trump dei Tropici

A livello ideologico e culturale, Bolsonaro è riuscito a imporsi nel 2019 con l’immagine di candidato conservatore di comprovata moralità. Ha imbastito una campagna improntata alla lotta alla corruzione. Ha usato una retorica spiccatamente anti-socialista. Anzi, Bolsonaro aveva agitato addirittura lo spettro del comunismo quale minaccia reale per il Paese. In questo senso, il Partito Liberale di Bolsonaro ha costruito la sua identità in opposizione al Partito dei Lavoratori di Lula. Questi, infatti, non solo veniva dipinto come un effettivo ‘pericolo rosso’ per le sorti del Paese (in un famoso slogan elettorale, Bolsonaro faceva notare come sulla bandiera verdeoro del Paese non vi fosse posto per il rosso delle insegne del PT). Ma era pure accusato di essere il partito coinvolto in enormi scandali, a cominciare da Petrobras, la principale compagnia petrolifera statale, che aveva pagato mazzette a vari membri del PT. Scandali che, sotto la presidenza di Dilma Rousseff (2011-2016), erede designata di Lula, hanno travolto il sistema di potere del PT: prima, portando alla rimozione della Rousseff dalla presidenza tramite impeachment; e poi addirittura all’arresto e condanna di Lula stesso.

 

Dopo il breve intermezzo dell’incolore e impopolare Michel Temer, Bolsonaro si propone quale leader latore di un messaggio non solo appunto conservatore e anti-PT, ma anche fondamentalmente nostalgico e ancorato al passato. La retorica da guerra fredda (la lotta al comunismo), l’insistenza su temi sociali cari alla destra tradizionalista (famiglia, chiusura verso le tematiche di genere), fino alla rivalutazione del ventennio di regime militare (1965-84): tutto questo fa di Bolsonaro, lui stesso ex-militare, protagonista importante di un populismo di destra che ha in Trump il suo rappresentante più noto. Lo stesso presidente brasiliano viene indicato come il ‘Trump dei tropici.’ Alcuni detrattori lo accusano di essere andato addirittura oltre l’originale modello yankee: per esempio, riscrivendo i manuali scolastici per quanto riguarda appunto il periodo della dittatura, ignorando le sistematiche violazioni di diritti civili e politici.

Chi sta con il leader della destra

Tale messaggio fa presa su vasti settori dell’opinione pubblica brasiliana, che rimane fondamentalmente conservatrice. Elite urbane delle grandi città, specie bianche; grandi gruppi industriali, ma anche piccoli e medi imprenditori; proprietari terrieri dell’enorme comparto agricolo (sostenitori di un abbattimento selvaggio della foresta amazzonica); le emergenti comunità evangeliche, il cui numero di fedeli sarà presto pari a quello dei cattolici nel Paese: questi i gruppi socio-economici che hanno sostenuto Bolsonaro, particolarmente radicati, a livello geografico, nel sud del Brasile.

Un progetto politico che si interrompe bruscamente con la pandemia di coronavirus. Ancora una volta, in maniera non dissimile dal suo omologo di Washington, Bolsonaro in un primo momento nega l’esistenza del virus; poi, ne sottovaluta gravità e conseguenze (in una famigerata clip, si nota il presidente beffarsi di chi è affetto da covid-19); infine, costretto dall’evidenza, si dimostra incapace di gestire una crisi che rende il Paese uno dei più colpiti a livello mondiale, con oltre 660 mila morti. A questo si aggiungono due fattori. In primo luogo, l’economia è in difficoltà. In secondo luogo, scandali di corruzione investono il PL come era accaduto per gli arci-rivali del PT. Anche il figlio di Bolsonaro è coinvolto. Un cocktail letale per il presidente uscente, che infatti precipita nei sondaggi.

Le carte dell'ex sindacalista rosso

È allora che si riaffaccia Lula. Trascorso circa un anno e mezzo in carcere (in una struttura, ironicamente, che lui stesso aveva inaugurato come presidente), viene poi scagionato dalle accuse, e si rituffa subito nell’agone politico. Dotato di grande carisma, ha il vantaggio di potersi disassociare dal periodo più cupo del PT (2011-18) per presentarsi invece come il leader della fase più luminosa della politica brasiliana.  Infatti, sotto la presidenza dell’ex sindacalista e militante, il Brasile conosce grande sviluppo economico. Entra a far parte dei cosiddetti ‘Brics’, i Paesi emergenti del sud del mondo. A livello interno, un programma di redistribuzione del reddito di stampo social-democratico contribuisce a ridurre drasticamente il numero di poveri assoluti nel Paese (dal 40 al 25%). ‘Bolsa Familia’ diventa esempio di successo di programmi statali di riduzione della povertà: per esempio, condizionando concessione di prestiti a famiglie in difficoltà a patto che i figli siano iscritti a scuola. A questo, Lula affianca un certo pragmatismo: trae beneficio dalle politiche liberali del predecessore Fernando Cardoso, inserendo pienamente il Brasile nelle filiere produttive e nei commerci internazionali, incrementando enormemente l’export specie nell’agricoltura, nella zootecnia, nel settore minerario (manzo, soia, biomasse, ferro). È anche fortunato: Petrobras scopre grandi giacimenti petroliferi al largo delle coste brasiliane quando i prezzi del greggio sono alle stelle nei primi anni 2000.

Quando Lula lascia, raggiunti il limite dei due mandati, nel 2011, il suo indice di popolarità è dell’80%. Le classi meno agiate, i poveri delle grandi città, gruppi indigeni e minoranze, ma anche élite urbane progressiste, specie nel ricco nord est, e in generale il voto cattolico, rappresentano lo zoccolo duro del PT e del sostegno per Lula. La cui immagine, per i suoi sostenitori, diventa il simbolo dell’anti-‘Bolsonarismo’: una destra elitaria e illiberale, incarnata dal presidente uscente, e che difficilmente si esaurirà con la sua personale parabola politica.

L'ingrediente populismo

Eppure, l’attuale confronto presidenziale sottolinea alcune caratteristiche comuni ai due schieramenti. In primo luogo, vi è un innegabile grado di populismo - ora di destra, ora di sinistra. Ma ancor più rilevante è l’aspetto nostalgico nel messaggio di entrambi gli schieramenti. Come Bolsonaro, anche Lula invita gli elettori a guardare a tempi andati migliori: gli anni in cui, appunto, egli era presidente. Non vi è un moto verso il futuro in Lula: quando gli viene chiesto cosa intende fare per l’economia, si arrocca dietro dichiarazioni del tipo «quel che ho fatto parla già per me».

A osservatori (ed elettori) più attenti, questo non basta per risolvere la questione centrale riguardo la sua figura: quanto Lula è davvero responsabile del boom economico sotto la sua presidenza? E quanto lo è per lo sfacelo in cui il Paese è precipitato una volta andatosene? Il ballottaggio di fine mese potrà dare risposte solo parziali a tale domanda.

Quello che rimane comunque da augurarsi è che il Bolsonarismo, come il Trumpismo, non scardini le -relativamente giovani - istituzioni politiche brasiliane. Il presidente uscente ha infatti mantenuto un atteggiamento ambiguo in merito all’accettazione o meno del risultato elettorale. Ne ha contestato la validità, indicando come il voto elettronico possa essere manipolato. Ha accusato centri di ricerca di cospirare contro la sua rielezione quando presentano sondaggi che lo danno sfavorito, e ne ha proposto la chiusura. Non ha mai, infine, fatto mistero per l’insofferenza verso principi liberali come separazione dei poteri e libertà di stampa. Sono temi, questi, che Lula non ha mai sollevato.

L'autore ringrazia il professor Marcelo Lima per il contributo alla redazione di questo articolo