La guerra in Ucraina è la manifestazione finora più drammatica di un ordine mondiale che sta cambiando. È probabile che non sarà l’ultima. Conflitti di tali proporzioni accadono per via di dinamiche e processi di lungo periodo, i quali danno indicazioni su possibili scenari venturi. Niente di deterministico, si badi bene.

Tuttavia, nel caso della guerra in Ucraina, non solo già dal 2014 la Russia aveva annesso la Crimea e fomentato il separatismo nel Donbass. Ma addirittura dal 2008 Putin aveva manifestato insoddisfazione profonda rispetto all’allargamento ad est della NATO, arrivando  invadere la Georgia, potenziale candidato. Erano segnali chiari di un rifiuto da parte russa dei rapporti di forza – visibili nei nuovi confini nazionali post-1991 – emersi dopo la fine della guerra fredda.

Due regioni sotto la lente

In quali altri teatri possiamo scorgere dinamiche e prodromi di potenziali conflitti capaci di ridefinire gli assetti geopolitici mondiali? Due regioni sono particolarmente sotto osservazione. La prima – in maniera certo non sorprendente – è il Golfo Persico. I principali contendenti sono Iran e Arabia Saudita. La seconda è l’Asia Orientale, dove Giappone e Taiwan si scontrano con la Cina. In entrambi i casi potremmo osservare guerre convenzionali tra stati – come appunto sta avvenendo in est Europa. Non solo dunque rivalità e competizione a livello diplomatico o economico (come già avviene in Asia Orientale); oppure guerre per procura in territori limitrofi (come già avviene in Medioriente: pensiamo al conflitto in Siria); ma scontri militari veri e propri.

Vi sono due livelli di analisi da considerare.

Il primo è il contesto globale e internazionale entro il quale questi conflitti sono ora possibili.

Il secondo attiene invece alle dinamiche propriamente regionali che possono farli esplodere.

Lo scacchiere mondiale

Consideriamo il quadro globale. Una rinnovata belligeranza tra potenze regionali è resa possibile dalle posizioni e politiche isolazioniste su cui stanno ripiegando gli USA. Questo ritiro è fondamentale per capire l’evoluzione del sistema globale che ci attende. Per prima cosa, non indica affatto un ridimensionamento effettivo del potere americano, sia esso militare, economico o politico. Frettolose (e spesso tendenziose) tesi rispetto al collasso dell’impero americano sono infondate. Gli Stati Uniti rimarranno egemoni a lungo. Si ritirano per scelta, non per necessità.

La scoperta di enormi depositi scistosi di idrocarburi ha reso gli USA, negli ultimi 15 anni, sostanzialmente indipendenti dall’import massiccio di energie dall’estero, iniziato nei primi anni 70. Anzi: potrebbero diventare a breve esportatori netti. Ancor più importante è che la collettività americana sta attraversando una fase di profondo disinteresse nei confronti di ciò che accade al di là di Pacifico e Atlantico.

Vale la pena di ricordare come l’ultimo presidente apertamente interventista durante la campagna elettorale fu George H.W. Bush: il quale le elezioni del 1992 le perse. Da allora, ogni singola elezione ha visto trionfare candidati che vogliono ridimensionare fondamentalmente l’impegno estero dell’America: in termini più educati, come Obama, o più rudi, come Trump. Questo desiderio è stato poi amplificato dalle (dis)avventure mediorientali in Afghanistan e Iraq. In sostanza, gli USA si chiedono cosa convenga loro fare a livello strategico in questa fase storica. La risposta è: andarsene.

Gli effetti del ripiegamento statunitense

Per il resto del pianeta, le conseguenze di questo ripiegamento americano sono epocali. Invero, l’intera struttura globale si regge sul ruolo che gli USA hanno deciso di giocare dal 1945 ad oggi. Per contenere il comunismo, una serie di alleanze militari (la NATO, certo, ma anche gli strettissimi rapporti con Australia, Giappone e Corea del Sud, per esempio) furono foraggiate tramite un progetto economico di vastissima scala. Gli USA fornirono capitali ingenti e credito agevolato ai propri alleati (come il famoso Piano Marshall).

Poi, in virtù del controllo esercitato sugli oceani, garantivano sicurezza a chiunque lo volesse di trafficare, commerciare, vendere e comprare (incluse materie prime, specie in campo energetico) in qualunque parte del globo. Infine, aprivano il loro mercato interno (allora come oggi il più grande del mondo) per assorbire le esportazioni dei propri alleati, così favorendone la crescita economica e benessere. Il sistema globale era stato architettato esattamente per quello.

Quella che abbiamo chiamato globalizzazione non è che la storia del progetto americano concepito a Bretton Woods nel 1944.

Questo ordine sta cambiando perché gli Americani non sono appunto più così interessati a mantenerlo. Se ci concentriamo sul Medioriente, notiamo le stesse dinamiche.

Washington garantiva ai propri alleati regionali sicurezza, accesso al mercato e al credito USA, e protezione delle rotte commerciali. I maggiori beneficiari sono stati probabilmente i Sauditi, con a traino gli altri emirati del Golfo. L’immensa ricchezza petrolifera è tale infatti solo se greggio e prodotti raffinati possono essere esportati. La marina americana, con basi nell’area e presenza fissa di importanti contingenti, ha garantito finora che lo Stretto di Hormuz (da dove passa quasi un quarto del petrolio mondiale e un quinto del gas liquefatto) fosse aperto, navigabile e sicuro.

Chiunque avesse avuto intenzione di minacciare tutto questo era subito dichiarato nemico pubblico numero uno. Pensiamo alla guerra in Kuwait contro Saddam, il quale voleva fare dell’Iraq potenza egemone nella regione. Pensiamo soprattutto all’Iran. Fino al 1979 fedele alleato di Washington, dopo la rivoluzione islamica ne diventa arcinemico. Per lo stesso motivo: non riconosceva, anzi voleva ridisegnare gli equilibri geopolitici della regione.

L’Iran non ha cambiato progetto. Postosi in diretta opposizione agli USA, in una delle aree più importanti del mondo nel quadro del progetto americano descritto, questi hanno cercato di clientes locali per contenerlo. Prima l’Iraq di Saddam, che contro gli ayatollah ha combattuto dal 1980 al 1988. E poi soprattutto l’Arabia Saudita.

Sauditi e Iraniani sono in scontro aperto su pressoché tutto. Repubblica rivoluzionaria contro monarchia conservatrice. Millenario impero contro uno stato formatosi solo nel 1932. Persiani sciiti contro arabi sunniti. Supremazia nel mondo musulmano: teocrazia islamica contro i protettori dei luoghi santi della Mecca e Medina. Nemico degli USA contro fedele alleato di Washington.

La «Mezzaluna sciita»

In questo scontro, l’Iran è sull’offensiva. Ha capitalizzato su una serie di movimenti nella regione, usando di volta in volta come catalizzatori lo sciismo, l’islamismo rivoluzionario, o la retorica contro l’imperialismo occidentale. Già nel 2004 gli sforzi iraniani di proiettare la influenza al di là dei monti Zagros e oltre le sponde iraniane del Golfo furono etichettati da Abdullah II di Giordania come «la Mezzaluna sciita». Le milizie Hezbollah in Libano sono l’esempio più evidente. Ma poi anche il legame con il regime di Al-Assad in Siria, il supporto agli Houthi in Yemen, o quello ad Hamas e Jihad Islamica in Palestina.

E infine, il paradossale regalo dell’invasione USA in Iraq: rimosso Saddam, arabo sunnita feroce rivale di Teheran, Baghdad è dominata da partiti e movimenti politici sciiti, molti dei quali (come i Sadristi o le Brigate Badr) vantano legami diretti e profondi con l’Iran. Non basta. Importanti comunità sciite sono presenti negli stati arabi del Golfo. Non solo sono maggioranza appunto in Iraq e nel piccolo emirato del Bahrein; ma anche nelle regioni saudite dove si concentra l’industria estrattiva e di raffinazione petrolifera. Questo ultimo fattore è comprensibilmente motivo di estrema preoccupazione per Riad.

Le contromosse di Washington

Alle mosse iraniane gli USA hanno replicato in due modi. Primo, hanno costruito un’alleanza tra stati arabi del Golfo e Israele (formalizzata in alcuni casi con gli Accordi di Abramo) in chiave anti-Iraniana. Poi, hanno finora mantenuto esattamente quella presenza nell’area – in termini di forze armate, specie con la marina – tali da dissuadere l’Iran da qualsiasi avventura bellica. Ma appunto in un contesto dove gli USA stanno ritirandosi dal Golfo, questa seconda considerazione non varrà più: per esempio, da 170.000 truppe in Iraq nel 2007, oggi sono rimasti meno di 2.500 istruttori, senza compiti di combattimento. L’ombrello securitario offerto da Washington agli alleati arabi nella regione sta venendo meno. Lo sanno tanto a Teheran quanto a Riad (e Kuwait City e Abu Dhabi). Incertezza rispetto ai calcoli altrui e mancanza di informazioni rispetto alle forze dei rispettivi eserciti (che mai si sono scontrati in una guerra convenzionale) sono una miscela esplosiva che un evento catalizzatore può far scoppiare.

Il fattore Quad

Nell’altro teatro sotto osservazione, è di pochi giorni fa il viaggio di Biden in Estremo Oriente. In un summit del Quad, il nuovo veicolo di contenimento della Cina formato da USA, Giappone, India e Australia, il presidente americano ha dichiarato apertamente che gli Stati Uniti difenderanno Taiwan da attacchi cinesi. A prima vista, un abbandono di quella ambiguità strategica di Washington rispetto alla questione taiwanese: riconoscimento di un’unica Cina (quella comunista), ma allo stesso protezione de facto dell’isola dalle mire di Pechino. E ancora, un annuncio che sembra indicare una direzione diversa della inclinazione di politica estera americana fin qui descritta.

È ormai da anni che gli USA considerano la Cina il loro rivale principale (unico?) per l’egemonia globale. Lì che concentrano i loro sforzi. Tuttavia, Washington vuole – in maniera non dissimile da quanto sta avvenendo in Europa a causa dell’invasione russa dell’Ucraina – responsabilizzare maggiormente i suoi alleati in loco rispetto alla loro sicurezza. Un Giappone incline ad aumentare le spese militari, e ad una lettura del famoso articolo 9 della costituzione in maniera più interventista, ben rappresenta questa tendenza.

Questi fattori potrebbero invero dissuadere la Cina, anche nel medio-lungo periodo, dal lanciarsi in avventure militari oltre il braccio di mare (140km) che la separano da Taiwan. Ma ciò non significa che conflitti armati non possano scoppiare comunque. Il ritiro americano comporterebbe certo la mancata protezione delle rotte commerciali su cui le economie esportatrici di Cina, Taiwan, Corea del Sud e, in maniera minore, Giappone, si fondano.

Ma soprattutto, non ci sarebbe appoggio per i convogli di rifornimento energetico che tengono in vita tali economie. Tutta l’Asia Orientale è tanto ricca di capitali, tecnologie e forza lavoro (qualificata e non) quanto è povera di materie prime, specie idrocarburi. La quasi totalità di tali approvvigionamenti arriva appunto dal Golfo Persico: in caso di guerra tra Iran e Arabia Saudita, il viaggio di 7mila chilometri di petroliere da Hormuz, quindi attorno all’India, poi lo Stretto di Malacca, fino a risalire il Mar Cinese Meridionale, il Mar Giallo e poi il Mar del Giappone sarebbe da compiersi senza più la protezione delle flotte USA. Solo la marina dal Giappone potrebbe sostituirsi (a livello di capacità e tonnellaggio) a quella degli USA: ma certo non per proteggere anche i commerci e gli approvvigionamenti cinesi. I quali, nel compiere quel viaggio, si troverebbero sempre alla mercé di paesi ostili (dall’India, al Vietnam, alle Filippine, per non parlare di Taiwan e appunto Giappone).

Se mai vi fosse una possibilità per Giappone e Taiwan di confinare per sempre la Cina sulla terraferma e bloccarne le mire egemoniche nella regione, questa sarebbe l’occasione. Come sopra, tanto Tokyo e Taipei sono coscienti di questo quanto Pechino.

Con approvvigionamenti energetici più insicuri, quindi più scarsi e costosi, e con un’economia che sorregge le ambizioni politiche cinesi fintantoché, paradossalmente, il sistema americano di Bretton Woods è in funzione, cambiamenti di questa portata potrebbero spingere il partito comunista cinese a vedere in una guerra l’unica via d’uscita – ora o mai più.