Gli scontri che si sono riaccesi in questo periodo tra Israeliani e Palestinesi sono il manifestarsi ciclico di dinamiche consolidate. Dinamiche che hanno cause chiare, a vari livelli.

Le cause immediate, come in questo caso, possono essere le più diverse: un provvedimento di sfratto per varie famiglie palestinesi a Gerusalemme Est, a maggioranza araba; la chiusura di un luogo di ritrovo per Palestinesi di fronte alla Porta di Damasco durante il mese sacro del Ramadan, per evitare assembramenti; le proteste dei Palestinesi e la risposta delle forze di polizia israeliane.

Da lì in avanti, la spirale di violenza si è allargata. I Palestinesi che resistono agli sgomberi, e gli Israeliani che tentano di disperderli. Quando alcuni dimostranti palestinesi si rifugiano nella Moschea di Al-Aqsa, tra i principali luoghi sacri dell’Islam, ecco che le forze israeliane vi fanno irruzione, con lacrimogeni e bombe assordanti. Quando le prime vittime si cominciano a contare, ecco che Hamas, la fazione palestinese che controlla la Striscia di Gaza dal 2007, decide di attaccare lanciando razzi verso il territorio israeliano: contro le città del sud vicine alla Striscia; ma poi anche verso il centro economico e culturale del paese, Tel Aviv, e verso Gerusalemme, il suo cuore politico e religioso, città contesa che è l’epicentro di un confronto che dura da oltre un secolo.

Le cause meno immediate

Le cause meno immediate sono da ricercarsi nella convulsa situazione politica che accomuna, paradossalmente e in maniera diversa, i due schieramenti. Tra i fattori per capire la frustrazione palestinese sono le attese, e poi continuamente rinviate, elezioni per il rinnovo del parlamento di Ramallah. Le ultime si sono tenute nel 2006 e videro l’affermarsi di Hamas. Ne seguì una breve quanto sanguinosa guerra civile tra questi e l’Autorità Palestinese guidata dallo storico partito Fatah. Autorità Palestinese la quale, con buona parte della comunità internazionale, non riconobbe il risultato di quella elezione, facendo sì che la Cisgiordania rimanesse sotto il suo controllo e che Gaza diventasse un’enclave dominata dal partito islamista, costola locale della Fratellanza Musulmana.

Le elezioni che avrebbero dunque dovuto tenersi il 22 maggio sono state rinviate a data da destinarsi. L’ormai ottuagenario presidente Mahmoud Abbas si è lamentato dell’ostruzionismo del governo israeliano rispetto alla partecipazione dei Palestinesi di Gerusalemme Est al processo elettorale. Costoro, in effetti, non sono né cittadini arabi di Israele, ne’ Palestinesi dei Territori Occupati. Un ulteriore e decisivo fattore è stato il timore, fondato, della classe dirigente di Fatah di perdere di nuovo le elezioni.

Elezioni indigeste

Israele, invece, negli ultimi due anni ha fatto indigestione di elezioni: quattro, con una quinta che si profila all’orizzonte. Nel sistema parlamentare a sistema proporzionale, nessun leader politico è riuscito a formare coalizioni di governo stabili. Le varie tornate elettorali hanno sempre avuto, seggio più, seggio meno, lo stesso risultato: maggioranza relativa al Likud di Netanyahu, al potere dal 2009 e primo ministro in carica più a lungo nella storia del paese; una galassia di partiti di centro-destra o di destra a spartirsi il resto dell’elettorato; e un’esigua presenza di quel che rimane dei Laburisti (il partito che fondò il paese nel 1948), della sinistra e delle liste arabe a completare il quadro nella Knesset, la camera unica con sede a Gerusalemme.

Ma è appunto la figura di Benjamin Netanyahu ad essere centrale. Accusato di corruzione, malversazione e abuso d’ufficio, manterrebbe l’immunità (ed eviterebbe una pressoché sicura condanna al carcere) solo rimanendo in carica. I suoi avversari per la poltrona di primo ministro, come Yair Lapid e Naftali Bennet, sono stati suoi alleati in passato. Non ci sono vere differenze ideologiche, ma profonde divergenze personali. Il conflitto di questi giorni ha in realtà permesso ancora una volta a Netanyahu, premier uscente e quindi ancora in carica fino alla formazione di un nuovo governo, di giocare le sue carte migliori e porsi come il difensore della sicurezza di Israele.

Le non novità

La rapida, decisa e durissima risposta di Israele ai razzi di Hamas è tutto fuorché una novità. Già nel 2012 e nel 2014, quando assistemmo a scontri con dinamiche simili a quelle di questi giorni, Netanyahu aveva proposto lo stesso copione. Le ragioni addotte misuravano la sicurezza di Israele e dei propri cittadini con il livello di repressione, in primo luogo, verso il gruppo militante di Gaza, e poi verso manifestazioni di resistenza palestinesi di altra natura. Nessuno stato può tollerare che un gruppo armato lo attacchi impunemente: come ha rimarcato in questi giorni il segretario di stato americano Blinken, Israele ha dunque il diritto di difendersi.

Queste osservazioni ci portano dunque ad un terzo ordine, più remoto, delle cause degli scontri cui stiamo assistendo. Al diritto alla sicurezza di Israele fa da contraltare la richiesta, pressante ed esplicita, di diritti politici dei Palestinesi dei Territori e di Gerusalemme Est. Questa richiesta si è articolata secondo il principio di due stati nazionali, uno arabo palestinese, l’altro ebraico, che vivessero in pace e in sicurezza l’uno di fianco all’altro.

Partizione

È una soluzione, quella della partizione del territorio, non nuova: la prima volta fu proposta all’epoca del mandato britannico dalla Commissione Peel nel 1937, fu riproposta dalle Nazioni Unite nel 1947, e poi accettata in principio da OLP, Israele e dalla comunità internazionale con gli Accordi di Oslo del 1993. Non si è ancora attuata perché non è più fattibile: i mai risolti problemi dei rifugiati palestinesi, degli insediamenti israeliani, delle linee di confine, di Gerusalemme (solo per citarne alcuni) rendono impraticabile la nascita di uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza al fianco del già esistente stato di Israele. La conseguenza è dunque che le aspirazioni palestinesi di cittadinanza, riconoscimento politico e autodeterminazione non hanno più un orizzonte, un progetto verso cui rivolgersi.

In questo contesto, Israele ha proceduto ad imbastire relazioni diplomatiche (gli “Accordi di Abramo”) con vari stati del mondo arabo che le erano ostili: Emirati, Bahrein, Sudan, Marocco. I rapporti sono stretti anche con i sauditi. I Palestinesi percepiscono questi sviluppi come un abbandono del supporto dei fratelli arabi, un’ulteriore marginalizzazione della loro posizione e delle loro istanze.  

Kamila wa shamila

È questo ciò che fa da contraltare alla richiesta israeliana di sicurezza – la richiesta palestinese di diritti politici.

Nel gergo arabo riguardante il conflitto, si dice che una soluzione debba essere kamila wa shamila – completa e condivisa.

A meno di non affrontare le questioni profonde con un rinnovato progetto che trascenda il principio dei due Stati, tale auspicio è destinato a rimanere tale.