Da alcuni anni l’Eurasia si trova dinanzi a una nuova difficoltà geo-politica: la pretesa della Turchia di riottenere un “posto al sole”, riprendere cioè l’influenza storico-culturale e, là ove possibile, anche quella politico-economica che consentì all’impero ottomano di espandersi su tre continenti.

Non mancano anche sconfinamenti sulla riconquista “fisica” di alcuni di questi territori che inquietano le cancellerie di mezzo mondo, sicuramente quelle dei Paesi oggetto di tali brame. L’area presa di mira è assai vasta, senza confini ben definiti.

Nel mirino di Ankara

Si va da alcune regioni contigue alle frontiere turche attuali, che riguardano ampie parti di Grecia, Bulgaria, Siria, Iran, Iraq e totalmente Cipro e Armenia, fino all’intero, grande bacino etnico-culturale turanico (il “focolare”, in parte mitico, delle popolazioni turche e ugro-finniche), che a oriente abbraccia tutta l’Asia centrale ex sovietica (dove circa 65 milioni di abitanti di cinque repubbliche ex sovietiche, sparsi su quattro milioni di chilometri quadrati, parlano lingue di ceppo turco e sono per la massima parte islamici sunniti) e il Xinjiang cinese. A occidente e a meridione sono nel mirino di Ankara le province che la “Sublime porta” controllava nel nord-Africa (dalla Tunisia all’Egitto) e nel Medio Oriente (dal Libano a gran parte dell’Arabia Saudita e della costa araba del Golfo Persico). Il che significa reclamare anche il controllo di fatto di tutto il Mediterraneo centro-orientale, cosa molto allarmante per l’Italia.

Dalla teoria alla realtà

Di queste temerarie teorie, circolate a livello di mero dibattito culturale fin quando la Turchia è stata un Paese laico e filo-occidentale, gestito sotto l’influsso del pensiero secolare kemalista, si è ora fatto sostenitore convinto lo stesso presidente Recep Tayyip Erdoğan dopo la sua svolta filo-islamista. Lo scorso anno, durante un comizio, ha proclamato: «Grazie al livello raggiunto in campo politico, economico e tecnologico, possiamo attuare le nostre politiche in un’ampia area geografica che va dal Mediterraneo orientale all’Egeo, dal Mar Nero ai Balcani, al Caucaso e all’Africa». Un’indicazione ancora piuttosto generica, ma che lascia intravedere obiettivi molto concreti. Fin dove arrivano le ambizioni espansionistiche del regime di Erdoğan?

Il presidente turco ha teorizzato apertamente - perfino davanti all’Assemblea generale dell’ONU, nell’autunno scorso - una sorta di “primazia politica” sui territori dell’ex Impero Ottomano, di cui si considera il legittimo erede. Se si analizzano le tesi pubblicate dai giornali filo-governativi, come Yeni Şafak, o si osservano le mappe fatte circolare ufficiosamente da membri del “Partito della Giustizia e dello Sviluppo” (AKP), guidato dal presidente, di tratta dei territori che collegano Europa e Russia all’Asia meridionale e all’Africa: sostanzialmente, tutto il Medio Oriente “utile”, con una parte cospicua delle sue risorse energetiche. All’incirca, proprio le regioni che componevano l’impero ottomano al massimo della sua estensione, alla fine del XVII secolo. Il vero problema è comprendere l’oggetto di quelle che Erdoğan chiama “le nostre politiche” e come egli intenda attuarle in questa vastissima e cruciale area geografica. È infatti difficile distinguere tra la componente economica, quella politico-diplomatica e quella militare di cui è intrecciata la politica espansionistica di Ankara. Partiamo da quest’ultima.

Ambizioni militari crescenti

Da alcuni anni Ankara ha intensificato l’apertura di basi militari all’estero (oggi sono presenti in Albania, Qatar, Sudan, Somalia, Iraq, Niger e Libia); è intervenuta nel conflitto libico, salvando il precario governo “legittimo” di Tripoli, in aperta contrapposizione all’eterogenea alleanza formata da Egitto, Emirati Uniti e Russia, con l’appoggio esterno della Francia; ha istigato l’Azerbaigian alla riconquista manu militari del Nagorno Karabakh, aiutandolo a sconfiggere gli armeni grazie alle sue armi e all’invio di molti mercenari siriani al proprio soldo, trasformando questo ricco produttore di petrolio in un paese-satellite, testa di ponte delle proprie mire nell’Asia centrale. Verso l’Europa, minaccia di sottrarre a Grecia e Cipro - come primo passo delle più ampie rivendicazioni già accennate - parti cospicue delle loro acque territoriali ricche d’idrocarburi, all’insegna di una strategia marittima chiamata Mavi Vatan (Patria blu), che comporta sforzi poderosi miranti a rafforzare la marina militare per ottenere il controllo del Mediterraneo orientale e del Mar Nero.

Il contrasto con Egitto e Israele

In quest’area è in forte e crescente contrasto con Egitto e Israele (ma anche gli Stati Uniti), interessate a mantenere lo status quo nel controllo delle acque territoriali per poter inviare al Vecchio continente (soprattutto a Grecia e Italia), mediante pipeline sottomarine, le loro risorse di gas e petrolio. Inoltre ha lanciato vigorose offensive economico-diplomatiche - attuate spesso mediante la vendita massiccia di armamenti, ma anche ricorrendo al soft power, dai vaccini anti-Covid19 regalati alla massiccia diffusione di stampa, Tv e new media in lingua turca - verso numerosi Paesi, dal Pakistan al Kosovo, dall’Albania all’Ucraina e alla Bosnia (i Balcani sono uno dei settori- chiave di Ankara), sempre puntando sugli antichi legami con la Sublime Porta.

Un arsenale militare hi-tech

L’industria bellica è uno dei più efficienti mezzi della penetrazione politica turca all’estero. Il settore vanta un crescente livello tecnologico, in parte frutto di una forte componente autarchica nella ricerca, con punte di eccellenza nell’elettronica e nei droni e con esportazioni che nel 2020 hanno raggiunto i due miliardi di dollari (ma l’obiettivo ufficiale era di 3), che la pongono già oggi al 13° posto mondiale nella classifica mondiale dell’export di armamenti, e un traguardo ambiziosissimo di 25 miliardi per il 2023. L’esercito, forte di 600 mila uomini, è il più numeroso della NATO dopo quello statunitense e le continue campagne interne (contro la minoranza curda) e all’estero (in Siria, Iraq e Libia) l’hanno reso una macchina bellica temibile ben oltre i suoi confini. Erdoğan ha inoltre avviato un temerario funambolismo diplomatico fra la NATO (di cui fa parte, ma dalla quale la separa ormai quasi tutto, a partire dalle continue minacce a un altro Paese membro, la Grecia) e la Russia (da cui ha acquistato armi d’avanguardia, come l’avanzatissimo sistema missilistico antiaereo S-400, incompatibile con le dotazioni dell’Alleanza, e importa idrocarburi e con cui ha allacciato una sorta di alleanza di fatto, pur rimanendone divisa da secoli di ostilità e da interessi geopolitici tutt’oggi antitetici).

Atomi e spazio

Riuscirà la Turchia a portare avanti questi obiettivi contrastanti giocando su più tavoli? Di alcuni importanti strumenti si è già dotata, come abbiamo visto. Sono però i progetti futuri a suscitare allarme. A cominciare dall’esplicita rivendicazione del diritto a dotarsi, nel prossimo futuro, di armi atomiche (), nonostante Ankara abbia firmato nel 1980 il “Trattato di non proliferazione nucleare” : «Alcuni paesi nella regione hanno missili con testate nucleari. Non una o due ma centinaia, mentre a noi dicono che non possiamo averle - ha dichiarato Erdoğan durante un comizio pubblico del suo partito AKP a Sivas, nel settembre 2019 - Abbiamo Israele nella regione che possiede centinaia di armi nucleari e con queste spaventa i vicini. Eppure, per questo motivo, Israele è intoccabile». Per non farsi mancare nulla, il presidente turco ha annunciato lo scorso febbraio l’avvio di un grandioso programma spaziale decennale che, dal nulla attuale, punta (con il possibile aiuto della Space X di Elon Musk) a inviare astronauti in orbita terrestre, a creare una fitta rete di satelliti e a lanciare sonde lunari automatiche. Mentre per il 2023, centenario della creazione della moderna Turchia, un missile con il secondo stadio di costruzione nazionale (il costruttore del primo è per ora ignoto) dovrebbe essere lanciato verso la luna.

Il nuovo Califfo islamico

Il sogno più ambizioso di Erdoğan è però quello di diventare la potenza di riferimento della “umma” (la comunità dei fedeli) sunnita non solo in Medio Oriente, ma a livello mondiale, puntando al controllo dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC). Nel marzo 2018 ha invitato le potenze musulmane a creare un “esercito dell’Islam” che abbia come primo obiettivo la distruzione di Israele e in seguito la conquista islamica del mondo. Sul fronte religioso Ankara, però, ha finora raccolto solo rifiuti, a partire da Egitto, Emirati Uniti e Arabia Saudita, che da sempre puntano anch’essi alla leadership islamica, ruolo di enorme rilievo politico. Dalla sua parte si è schierato soltanto il Qatar, con cui ha stipulato un’alleanza militare e ideologico-religiosa: entrambi i Paesi sostengono infatti la Fratellanza musulmana, nemico giurato del resto del mondo sunnita.

L’ostilità forse più pericolosa a questi disegni è quella d’Israele che, dopo le numerose minacce citate, ha giudicato una sfida intollerabile la scelta di Erdoğan di farsi paladino dei diritti del popolo palestinese (dopo che i Paesi arabi hanno abbandonato di fatto la sua causa dopo la firma degli “accordi di Abramo” e allacciato rapporti diretti con Israele) e di ospitare a Istanbul il centro operativo dei guerriglieri di Hamas, nonché l’ambizione di “liberare al Aqsa” (Gerusalemme) e i suoi luoghi santi per l’Islam in quanto erede politico-morale del ruolo di protettore svolto per secoli dal sultano della Sublime Porta (link al pezzo Israele prepara un cambio di nemico: dagli ayatollah a Erdoğan; 11/12/20).

Le falle del progetto

Questa sommatoria di enormi ambizioni sarà però presto messa alla prova dal cumulo di eventi sfavorevoli a Erdoğan con cui si è chiuso il 2020. Nonostante la riluttanza americana a spezzare del tutto la storica Alleanza atlantica per non gettare definitivamente Ankara nelle braccia di Mosca, l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden, tenace difensore dei diritti umani e della coesione della NATO, fa presagire l’apertura di una fase di decisa opposizione all’avventurismo turco in politica estera. Agli Stati Uniti potrebbe aggiungersi l’Unione Europea, finora timidissima (tranne la Francia) nel reagire alle già citate minacce a Grecia e a Cipro, due Paesi suoi membri. La recente “Pace di Abramo”, l’accordo politico tra Israele e vari Paesi arabi, spiazza poi chiaramente il disegno turco di porsi alla testa del mondo sunnita.

Erdoğan deve inoltre affrontare gravi problemi interni. La sua popolarità non è poi così salda come potrebbe sembrare dall’esterno, se alle elezioni amministrative della primavera 2019 ha perso il controllo di 7 delle 12 maggiori città, comprese Ankara e Istanbul. La residua opposizione laica di stampo kemalista sembra reggere, specie nelle aree urbane, malgrado continui la dura epurazione nell’esercito e nella pubblica amministrazione degli elementi meno fidati. Un aiuto involontario a questa frangia del Paese potrebbe giungere dalla scelta di Erdoğan di ritirarsi dal primo trattato vincolante al mondo per prevenire e combattere la violenza contro le donne, annunciata la scorsa settimana per compiacere gli islamisti, che rischia di alienargli l’elettorato femminile, specie quello cittadino. Mentre resta alto il dissenso del mondo universitario e della cultura.

L’economia vacilla

Ma il vero tallone d’Achille della Turchia di Erdoğan sembra essere l’economia: dopo la recessione del 2018, la pandemia ha determinato nel 2020 un nuovo crollo del PIL del 5,4%. L’inflazione, specie per i prodotti alimentari, è molto elevata (16,5% il valore medio), la disoccupazione oscilla sul 25% e il passivo della bilancia commerciale ha raggiunto livelli-record. Ma è soprattutto la situazione finanziaria a destare allarme: la nuova lira turca è in caduta libera rispetto al dollaro (–50% lo scorso anno) e Moody’s in autunno ha attribuito una pessima classificazione al debito estero (B2, cinque livelli sotto lo status di junk bond, pari a quella di Egitto e Ruanda) e una previsione negativa, dovuta a una «possibile crisi strutturale nella bilancia dei pagamenti». Un ulteriore segnale del malessere monetario giunge dal siluramento, alcuni giorni or sono, del Governatore della Banca Centrale, Naci Ağbal, sostituito dopo soli quattro mesi di servizio da Sahap Kavciğlu, ex parlamentare del partito di Erdoğan, disposto a sostenere tassi d’interesse più bassi. La mossa lascia prevedere nuove, gravi difficoltà per la lira turca e, quindi, per l’Europa. I paesi Ue (Spagna e Francia in testa, con 62 e 29 miliardi di euro rispettivamente, l’Italia con una quindicina) sono infatti esposti per ben 120 miliardi con Ankara.

Ciò chiarisce, meglio forse di ogni altra considerazione, la prudenza e la pazienza (altrimenti difficilmente spiegabili) con cui Bruxelles tratta il complesso dossier turco. Un crack finanziario potrebbe forse liberarci di Erdoğan e delle sue smanie revansciste, ma costerebbe molto caro (forse troppo) ai nostri Paesi già prostrati dalla pandemia.