Il tragico attacco di Hamas il 7 ottobre scorso ha evidenziato il ruolo centrale dell’Iran nel conflitto Israelo-Palestinese e quindi nel Medioriente in generale. Teheran vanta ormai consolidati rapporti con formazioni palestinesi come appunto Hamas e Jihad Islamica; con gli Hezbollah libanesi; con il regime di Assad in Siria; con varie milizie e partiti in Iraq, con gli Houthi in Yemen. Senza dimenticare intese, più o meno solide, con Russia (cui fornisce aiuti militari nella guerra in Ucraina) e Cina (di cui è grande fornitore di petrolio).

Due accordi sullo sfondo

Tutto questo accade sullo sfondo di due accordi diplomatici di grande peso. Il primo sono gli Accordi di Abramo, promossi dagli Usa, pensati per un contenimento dell’influenza iraniana nella regione. Questi accordi hanno portato una serie di stati arabi – tra cui Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco – ad una normalizzazione dei rapporti con Israele. Il grande assente, per ora, è il paese leader del mondo arabo, l’Arabia della famiglia Saud. Convinzione generale era che fosse solo una questione di tempo: un accordo formale tra Riad e Tel Aviv avrebbe rappresentato la formazione di un compatto fronte Arabo-Israeliano in opposizione a Teheran, nemico giurato di entrambi. Con un progressivo disimpegno dalla regione degli Usa, Israele e monarchie del Golfo si dovevano infatti avvicinare per affrontare la minaccia comune. Intesa che ovviamente andava a scapito dei Palestinesi, in pieno spirito di realpolitik. L’attacco di Hamas ha reso impossibile, nel breve e forse medio periodo, questo progetto: Riad non poteva che esprimersi a favore della causa palestinese quando massicci bombardamenti di Gaza erano ormai imminenti.

Cui prodest?

Uno sviluppo chiaramente favorevole per l’Iran di Ebrahim Raisi (nella foto grande). Il cui prodest? non implica che Teheran fosse a conoscenza dei dettagli del piano di Hamas; tanto meno che abbia avuto un coinvolgimento diretto in esso, al di là del comunque attivo, e decisivo, supporto a livello logistico, finanziario e financo di addestramento dei miliziani. Uno sviluppo che si inserisce poi nel contesto del secondo accordo diplomatico di peso: nel marzo di quest’anno, Iran e Arabia Saudita hanno riallacciato i rapporti diplomatici dopo oltre cinque anni tramite mediazione cinese.

L'incontro a Doha tra il ministro degli esteri iraniano e il capo di Hamas Haniyeh

È legittimo leggere nei due accordi logiche diverse. Gli Accordi di Abramo come fronte anti-Iraniano collidono con il riavvicinamento tra Riad e Teheran. Come interpretare questa situazione? Consideriamo innanzitutto che sia l’Iran, sia l’Arabia Saudita hanno mire egemoniche nella regione. In quest’ottica, l’accordo promosso dai Cinesi non può che essere una pausa – gradita a entrambi – in un conflitto destinato a ripresentarsi: conflitto che i Sauditi sperano di affrontate forti del fronte comune rappresentato dagli Accordi di Abramo.

Gli effetti dell'attacco di Hamas

L’attacco di Hamas ha scompaginato questi piani. Ha permesso all’Iran di porsi ancora una volta come il protettore di ultima istanza dei Palestinesi. E ha imposto appunto ai Sauditi un allontanamento da Tel Aviv. Dal punto di vista di entrambi, il contenimento dell’Iran è obiettivo imprescindibile. In questo senso, il programma nucleare iraniano rappresenta lo spauracchio principale. Sebbene l’amministrazione Biden non sia riuscita a riportare in vita gli accordi del JCPOA rinnegati da Trump, può comunque vantare un congelamento del programma sulla base di un’implicita intesa tra Americani e Iraniani. Questo rispecchia un atteggiamento iraniano che non possiamo chiamare di moderazione: ma certo di avversione ad un allargamento del conflitto Israelo-Palestinese a livello regionale. I decisori di Teheran hanno mantenuto in questi giorni la consueta retorica anti-Israeliana, senza però minacciare un intervento militare diretto. Se questo avvenisse, una guerra con Israele o addirittura gli Usa sarebbe insostenibile (e probabilmente catastrofica) per il regime.

Le carte di Teheran

E in fondo Teheran non vuole un’escalation perché ha carte migliori da giocare: tramite Hezbollah e il regime di Assad (che ospita consiglieri militari, uomini dei servizi di sicurezza, e probabilmente anche truppe delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane) confina a tutti gli effetti con Israele, senza che Israele confini con l’Iran. Può mantenere dunque pressione costante sullo stato ebraico tramite lancio di missili (come sta avvenendo nel sud del Libano) e aiuto logistico ai miliziani palestinesi.

E può continuare a fare questo fintantoché il problema palestinese rimane tale. Una soluzione del conflitto in Palestina comprometterebbe significativamente la possibilità per l’Iran di porsi alla testa dell’ “Asse delle Resistenza” contro l’imperialismo americano e sionista (per usare le espressioni del regime) – con conseguenze molto negative per i suoi piani egemonici nella regione. Inutile rimarcare come tale soluzione, in questi giorni, sembri quanto mai di là da venire.