Domenica 24 ottobre i cittadini dell’Uzbekistan andranno alle urne per eleggere il presidente di questa repubblica, indipendente dal 1991. L’Uzbekistan è una regione sulla Via della Seta, nel cuore dell’Asia centrale, che conta 76 milioni di abitanti. Situata a est del Mar Caspio, l'area comprende anche il Kazakhstan, il Tagikistan, il Kyrgyzstan e il Turkmenistan.

Dopo il ritiro statunitense dall’Afghanistan, le elezioni presidenziali in Uzbekistan assumono rilevanza anche per l’Europa perché garantiranno continuità e quindi stabilità. Il vuoto lasciato dalla dipartita dei militari statunitensi rischia infatti di scatenare ondate di fondamentalismo di matrice islamica e di terrorismo. Tenuto conto dei suoi 137 chilometri di frontiera con l’Afghanistan, un sistema politico stabile in Uzbekistan è assai importante a livello internazionale.

Su un totale di 34 milioni di cittadini, in Uzbekistan sono oltre 21 milioni gli aventi diritti al voto. Di questi, 7 milioni sono di età compresa tra i 18 e i 30 anni. La maggior parte di loro aveva votato nelle legislative dello scorso dicembre. In queste elezioni è data per scontata la vittoria, con un ampio margine, dell’attuale presidente Shavkat Mirziyoyev (64 anni), in carica dal settembre 2016 in seguito alla morte del suo predecessore Islam Karimov.

La competizione

Gli altri candidati sono il leader dei Verdi Narzullo Oblomuradov (46 anni), il leader del Partito Nazionalista Alisher Qodirov (46 anni) che a giugno aveva proposto di privare gli omosessuali della cittadinanza, il leader dei Socialdemocratici Bahram Abduhalimov (62 anni) con esperienza in istituti di ricerca scientifica, e la vicepresidente del Partito Democratico del Popolo Maqsuda Varisova (60) specialista di medicina nelle aree rurali.

Di fatto, tutti i partiti politici riconosciuti appoggiano le riforme del presidente in carica, un uomo del sistema con esperienza nei mercati economici e nell’agricoltura. Cinque anni fa Shavkat Mirziyoyev aveva introdotto l’ambizioso concetto di Nuovo Uzbekistan per promuovere la ripartenza del paese e inserirlo in un ciclo di Nuovo Rinascimento, in qualche misura paragonabile allo splendore orientale del XIX-XII secolo e al Rinascimento dei Timuridi del XIV-XVI secolo.

Le riforme sociali

In ambito sociale sono almeno tre le iniziative che hanno avuto un impatto positivo sulla popolazione, creando consenso. La prima riguarda la fine del lavoro forzato e del lavoro minorile nella raccolta del cotone che fino a tre anni fa coinvolgeva 6-7 milioni di studenti, insegnanti, medici e infermiere. La seconda è la riforma del sistema propiska che impediva la libera circolazione dei cittadini sul territorio nazionale e ostacolava la proprietà privata in regioni diverse da quella in cui si aveva la residenza. La terza è la lotta all’apolidia che ha permesso a 50mila persone nel 2020 e a 20mila nel 2021 di acquisire la cittadinanza uzbeka.

Le relazioni internazionali

In politica estera Shavkat Mirziyoyev è riuscito a far emergere il paese migliorando le relazioni con gli altri paesi dell’Asia Centrale come pure con la Cina, gli Stati Uniti e l’Unione Europea, mentre con la Russia resta in essere un’alleanza strategica. In economia, la sua squadra ha combattuto la stagnazione e ha, poco per volta, iniziato a liberalizzare i mercati e a smantellare i sistemi di dazi per favorire le piccole imprese. In ambito finanziario, ha reso convertibile il soum, la valuta locale, e ha permesso alle imprese di acquistare valuta straniera per pagare le importazioni e concesso alle aziende estere di rimpatriare i profitti. Le riforme hanno consentito l’incremento degli investimenti in Uzbekistan da parte di società e banche straniere, anche europee e italiane, garantendo così buoni risultati anche in termini di crescita del PIL nel periodo pre-pandemia.

Trent’anni dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica, l’Uzbekistan non ha i problemi di fanatismo del vicino Afghanistan. È un paese ricco di risorse e di cultura, ospitale, e merita di certo un viaggio (covid permettendo). È multietnico e multireligioso: gli uzbeki sono il 74,3 percento della popolazione, i russi il 14,2, i tagichi il 4,4 (soprattutto a Bukhara e Samarcanda). Ci sono poi i tatari (deportati dalla Crimea da Stalin) e gli ebrei considerati più un’etnia che una minoranza religiosa. La metà vive in centri urbani, il 60 percento ha meno di 30 anni e quindi non ha conosciuto l’Unione Sovietica. Parlano uzbeko (una lingua del ceppo turco), russo e tagico (un idioma vicino al persiano). Saranno questi cittadini, diversi tra di loro ma uniti sotto la stessa bandiera, a recarsi alle urne nella giornata di domenica 24 ottobre. Se, come previsto, confermeranno il presidente in carica, opteranno per una democrazia non conflittuale.

La lunga strada verso la democrazia

Non sarà una democrazia Western style, ma dopo il disastro della coalizione guidata da Washington in Afghanistan sarebbe opportuno non esprimere giudizi affrettati. Di buono c’è che nell’ultimo anno in Uzbekistan non sono stati uccisi giornalisti e, secondo il World Press Freedom Index 2021, gli ultimi reporter in carcere sono stati rilasciati, seppur non ancora riabilitati. I siti web che per anni erano stati censurati sono stati sbloccati, ci sono trasmissioni in diretta e alcuni giornalisti hanno mandato in onda reportage su questioni sensibili come la corruzione e i lavori forzati. 

La strada è lunga e ci vorrà tempo. Di certo l’interesse dell’Unione Europea e la collaborazione tra Tashkent e Bruxelles sulla questione dell’Afghanistan permetteranno preziose contaminazioni.