C’era un tempo, un “bel tempo” neppure troppo lontano, in cui la situazione geo-politica del Medio Oriente, per definizione instabile e fortemente conflittuale, si poteva condensare in un duplice, grande scontro: quello arabo-israeliano, interno alla regione, e quello per il controllo delle sue enormi risorse energetiche, che le maggiori potenze mondiali si contendevano ricorrendo anche, se del caso, a guerre e colpi di Stato.
Per chi cerca di comprendere le dinamiche odierne del Medio Oriente, quel “bel tempo” si può quasi rimpiangere, lacerata com’è la regione da un groviglio di tensioni, odi secolari, conflitti striscianti o a “bassa intensità” (eppure con un altissimo numero di vittime, come in Siria, Yemen e Libia), ma anche da tregue improvvise e alleanze mutevoli, che hanno reso la situazione molto più esplosiva che in passato.
Il ciclone Trump
Su quest’ammasso di conflittualità diffuse è piombata come un ciclone la presidenza di Donald Trump, che fin dal suo insediamento si è prefissa il duplice obiettivo di comporre una volta per tutte lo scontro israelo-palestinese (nell’ambito di una più generale riconciliazione arabo-israeliana, tagliata però su misura sugli interessi d’Israele) e, nel contempo, di tarpare una volta per tutte l’ambizione dell’Iran di diventare una potenza regionale, radunando sotto la sua protezione gli sciiti dei Paesi della regione dove sono in maggioranza (almeno 120 dei 230 milioni totali), mentre il mondo sunnita resta diviso in tante fazioni in perenne contrasto tra loro. Sul primo punto il successo di Trump appare chiaro: nei mesi scorsi tra Israele e un numero crescente di Paesi arabi è “scoppiata la pace” e un conflitto che si annunciava come secolare si sta ormai dissolvendo in una continua fioritura di progetti di cooperazione economica e culturale bilaterale, con la prospettiva di una vera e propria alleanza politico-militare, quanto meno di fatto.
Sul secondo punto - la lotta senza quartiere contro l’Iran - il piano è avanzato finora a marce forzate verso un confronto-scontro finale dall’esito comunque incerto. In queste ultime settimane di potere Trump intende trasmettere al suo successore Joe Biden una serie di fatti compiuti e di scelte possibilmente senza ritorno, dall’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh, considerato il padre dei piani segreti iraniani di dotarsi di armi atomiche, avvenuta probabilmente per mano del Mossad ma pianificata e approvata dalla Cia, all’incontro semi-ufficiale tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il capo del Mossad Yossi Cohen e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, fino a qualche anno fa classificabile come un’ipotesi fanta-politica, che ratifica Israele come stato-guida dell’universo sunnita pronto a colpire l’eterno nemico iraniano.
In realtà, mettendo a fuoco il problema, si scopre che la soluzione del conflitto tra Israele e il mondo arabo, avviata all’improvviso nell’estate scorsa con i cosiddetti “accordi di Abramo” (il riconoscimento diplomatico dello stato ebraico da parte di Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Marocco, Sudan e presto Oman e Arabia Saudita), un capolavoro diplomatico di cui la presidenza Trump si fa vanto, è frutto soprattutto della determinazione con cui i governi israeliani susseguitisi negli ultimi decenni, di ogni colore politico, hanno sgretolato la resistenza del mondo arabo, convincendolo che il loro vero nemico non era lo “stato sionista”, ma il fronte sciita guidato da Teheran.
Il ricatto
A questo va aggiunto il magistrale ricatto attuato con il piano di annessione di una parte cospicua degli insediamenti ebraici creati nei territori palestinesi occupati, tutti chiaramente illegali secondo gran parte dei Paesi mondiali ma avallati dall’amministrazione Trump. La quale amministrazione, co-autrice del piano, ha finto d’intervenire come mediatrice: se i principali stati arabi avessero accettato di riconoscere Israele e di farne il perno politico-militare di una coalizione regionale anti-iraniana, l’inglobamento di gran parte della Cisgiordania da parte d’Israele sarebbe stato sospeso. Ma non cancellato, per costituire un’arma puntata in permanenza contro il mondo sunnita, affinché questa sorta di “santa alleanza” risulti irrevocabile.
Da parte loro, gli Stati Uniti, che hanno alquanto ridotto la loro presenza fisica nella regione con il ritiro parziale delle loro truppe dall’Iraq e pressoché totale dall’Afghanistan, restano i garanti del nuovo assetto anti-iraniano mediante la diffusa presenza di soldati (circa 30mila) e basi militari (35) e una nuova ondata di vendite di armamenti, che si annuncia ancora maggiore di quelle enormi registrate nell’ultimo quadriennio.
Il “tranquillo” Biden
A turbare questi piani è giunto però l’arrivo alla Casa Bianca del candidato democratico Joe Biden, che rischia di mandare all’aria, se non il progetto complessivo di risistemazione del Medio Oriente impostato dal duo Trump- Netanyahu, alcune sue linee-guida portanti. Fin dalla campagna elettorale, infatti, egli non ha nascosto di avere progetti differenti per la regione. Primo tra tutti quello di far rientrare gli Stati Uniti nell’accordo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) per il controllo delle attività nucleari di Teheran, firmato nel luglio 2015 dalla presidenza di Barak Obama insieme agli altri membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) e alla Germania.
L’accordo era stato denunciato da Trump come il “peggiore possibile” non perché Teheran non lo rispettasse (le periodiche ispezioni dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica, hanno sempre confermato l’osservanza iraniana degli impegni presi, almeno fino al maggio 2018, quando Washington si è ritirata unilateralmente), ma perché non includeva l’ambizioso programma missilistico iraniano e l’esplicito ridimensionamento delle ambizioni di potenza regionale. L’obiettivo israelo-americano era ormai chiaramente il crollo del regime teocratico di Teheran, grazie anche alle più dure sanzioni economico-finanziarie mai comminate dagli Usa a un Paese straniero. Esse, pur avendo ridotto l’Iran in pessime condizioni socio-economiche, finora hanno fallito il loro obiettivo e ora che Biden ha promesso il rientro di Washington nell’accordo JCPOA, è lecito attendersi , in tempi relativamente brevi, la loro attenuazione.
Le conseguenze
Ne deriva da un lato l’avvio di un negoziato (obiettivamente assai difficile) con gli Stati Uniti (e indirettamente con Israele) sulle ambizioni ultime della teocrazia iraniana e sul suo obiettivo-principe, ripetuto ossessivamente come un mantra da 40 anni: la distruzione dell’ “entità sionista”. Dall’altro lato ne consegue un inevitabile raffreddamento dell’alleanza con il mondo sunnita, cui contribuisce la dichiarata volontà di Biden di esigere dagli alleati arabi il rispetto dei diritti umani e di uno standard minimo di regole democratiche, tema completamente ignorato da Trump.
Nei fatti, Teheran ha compreso di non poter sfidare impunemente Israele, che ha mostrato, con l’omicidio di Mohsen Fakhrizadeh (ultimo di un’altra mezza dozzina di tecnici atomici uccisi nell’ultimo decennio), di poter colpire chi, dove e quando vuole sul suo stesso territorio. Nonostante cerchi da sempre di darsi un apparato bellico avanzato (missili, droni, radar di buon livello), il potere militare degli ayatollah è fragile e senza la fine delle sanzioni il Paese anche in questo campo non potrà riprendersi appieno. Per ottenere questo risultato occorre tuttavia accettare di sedersi a un tavolo negoziale senza troppe precondizioni e di giungere a soluzioni di compromesso. Che è quanto Biden punta a ottenere, ma che l’Iran finora ha escluso, pretendendo il puro e semplice ritorno alla situazione del 2015. Se però Teheran acconsentisse a rivedere, almeno in parte, i suoi piani di sostegno militare del regime siriano di Assad (peraltro ormai saldo al potere e non più bisognoso di un massiccio sostegno iraniano) e fosse disposta a trovare un modus vivendi con il “grande nemico” saudita e i suoi alleati sunniti del Golfo Persico - con l’implicito riconoscimento della nuova alleanza arabo-israeliana -, è possibile che nel mirino d’Israele finisca, come bersaglio principale, un altro nemico.
Mamma li Turchi?
Da tempo in Medio Oriente circolano voci (riprese di recente da The Times) che Yossi Cohen, il potentissimo capo del Mossad (in predicato di diventare il nuovo premier di Israele se Netanyahu fosse costretto a dimettersi a causa delle varie inchieste penali che pendono su di lui) sia ormai convinto che il principale pericolo per Israele non è più costituito dall’Iran, ma dalla Turchia. Nel dicembre 2018, da una riunione “segreta” a Riyadh dei vertici dell’intelligence di Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e appunto Israele, sarebbe scaturita proprio questa conclusione. Nella sua smania di ricreare il vecchio impero delle Sublime Porta (allargandolo anzi anche all’Asia centrale ex sovietica, che ha radici etnico-linguistiche turchesche), il leader turco Recep Tayyip Erdoğan si è creato una platea di nemici sempre più ampia, dall’Egitto all’Arabia Saudita e gli Emirati Uniti, dalla Francia alla Grecia, pronti ormai a ricorrere ogni mezzo per fermarlo. A cui si è aggiunta anche Israele, sdegnata per l’appoggio turco sempre più ampio fornito al gruppo terroristico palestinese di Hamas, che controlla Gaza, e per i ripetuti annunci di voler “liberare Gerusalemme”.
Biden, per parte sua, potrebbe decidere di mettere Erdoğan sotto processo nell’ambito dell’Alleanza Atlantica per i suoi “giri di valzer” diplomatico-militari con Mosca (da cui compra armi incompatibili con la sua appartenenza alla Nato). Mentre il Cremlino, prima o poi, dovrà risolversi a recidere un’alleanza di fatto che finora ha procurato soltanto vantaggi ad Ankara e gravi danni geo-politici alla Russia.
Il monito ignorato
Yossi Cohen sembra aver compreso che il tempo gioca a favore dell’espansionismo turco - ormai presente con basi militari e pletore di “consiglieri” dal Qatar al Sudan, dalla Libia alla Siria, dall’Azerbaigian al Niger, dall’Iraq alla Somalia -, che è nemico dichiarato dei suoi nuovi alleati sunniti. Se questa brama imperiale fosse supportata da armi nucleari - il cui possesso Erdoğan ha più volte reclamato negli ultimi anni come “diritto” inalienabile della Turchia e a cui sembra lavorare in segreto - ecco spiegati i timori di Cohen. Che sarebbero gli stessi dell’Europa, finora inespressi (con l’eccezione parziale della Francia) per la sua debolezza politica.
Un monito (per ora del tutto ignorato) è stato lanciato dal premier armeno Nikol Pashinyan, che dalle armi e dai mercenari turco-siriani, forniti in grande misura agli azeri, ha ricevuto in ottobre un’umiliante sconfitta militare nel Nagorno Karabakh: «Se la comunità internazionale non riuscirà a contrastare le mire espansionistiche di Erdoğan, in un prossimo futuro rischia di trovarsi i Turchi per la terza volta alle porte di Vienna».
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