L’ormai decennale crisi libica segue un copione simile a quello di altri paesi del mondo arabo: alla disgregazione statale fa immediatamente seguito l’intervento di potenze straniere. Le quali, perseguendo i propri interessi politici e geostrategici, altro non fanno che prolungare, o complicare ulteriormente, la stessa crisi che si proponevano di sfruttare a loro vantaggio. È un canovaccio che abbiamo visto ai tempi della guerra in Libano (1975-1990), e poi, più recentemente, in Siria e Yemen dopo le proteste di massa delle primavere arabe.

Tuttavia in Libia questo intervento estero, a ben vedere, non è avvenuto solo in seguito alla crisi statuale; ma anzi, è stato decisivo nel precipitarla, provocando il collasso del regime di Muammar Gheddafi nella primavera del 2011. Un regime dittatoriale e brutale come quelli che popolavano (e popolano) la regione; che è stato però il solo ad essere oggetto di un attacco coordinato da parte di potenze NATO. Alla guida politica dell’allora presidente francese Sarkozy e del primo ministro britannico Cameron si aggiunse la potenza di fuoco americana per volere di Barack Obama. Le forze militari del Colonnello nativo di Sirte, città al centro della lunga costa libica, furono annientate da attacchi aerei mentre si dirigevano a reprimere la ribellione che stava maturando a Bengasi (seconda città del paese, centro della Cirenaica, che mal sopportava il dominio della Tripolitania sullo stato libico).

La tattica sbagliata

Fu quella un’operazione che Obama definì successivamente il suo più grande errore in politica estera. Possiamo in effetti chiederci come mai la Casa Bianca, e i suoi alleati-clienti europei, non avessero considerato quello che comporta un cambio di regime dopo le esperienze in Iraq e Afghanistan. Nel caso della Libia, il problema della discesa in uno stato di semi-anarchia e guerra civile permanente per i successivi dieci anni fu facilitato dall’eredità politico-istituzionale del regime di Gheddafi. Il quale, istrionico fino al parossismo, aveva dato vita nei suoi 42 anni di regno allo "stato delle masse".

Coniò addirittura un termine arabo ad hoc di difficile traduzione: jamahiriyah (che si scosta appunto dal termine di solito usato per definire una repubblica – teoricamente – a sovranità popolare, ovvero jumhuriyah). Nella jamahiriyah libica comitati locali presero il posto di partiti politici, sindacati, gruppi di pressione, assemblee politiche rappresentative. Una prova di democrazia diretta ispirata dal "Libro Verde" del Colonnello, secondo la propaganda del regime. Una riaffermazione delle dinamiche e delle lealtà tribali a base localistica, secondo altri; e la contestuale eviscerazione di una struttura politica statuale che andasse al di là, da una parte, proprio del tribalismo indigeno, e dall’altra della figura carismatica di padre-padrone di Gheddafi stesso.

 

In questo contesto, rimosso il regime, era inevitabile che il paese sprofondasse nel caos. Nessuno degli attori che ne decretarono la fine aveva un piano per il dopo-Gheddafi. Infatti, sia Gran Bretagna che USA si defilarono ben presto (questi ultimi subirono anche l’uccisione del proprio ambasciatore per mano di un gruppo legato ad Al-Qaeda nel 2012 a Bengasi). L’opposizione al regime, certo presente e numerosa in Libia, andò velocemente a rivelare le molteplici fratture al suo interno. La proliferazione di gruppi armati di diverso orientamento ideologico e diversa estrazione regionale, supportate da varie potenze regionali ha ricalcato, come si ricordava, un copione già visto.

La fine del Colonnello

Dopo la caduta di Gheddafi e un breve governo provvisorio di transizione, fu eletto un Congresso Generale Nazionale (CGN) che prese il potere nell’agosto del 2012. Incaricato di redigere una costituzione e procedere poi ad elezioni, non riuscì a portare a termine il compito nei 18 mesi previsti. Alla scadenza del mandato, fu eletta una Camera dei Rappresentanti quale organo legislativo del paese; ma il CGN rifiutò di sciogliersi, creando una frattura a livello istituzionale che si sarebbe protratta fino al marzo di quest’anno. Dopo un fallito tentativo di estromettere il CGN con la forza, la Camera si spostò dalla capitale Tripoli verso la Cirenaica, prendendo sede presso Tobruk, vicino al confine con l’Egitto, ed eleggendo un proprio governo.

Corsi e ricorsi storici

Si riprodusse così, a livello plasticamente geografico, quella divisione in seno alla Libia unificata dagli italiani dopo l’invasione coloniale del 1911. Composta fondamentalmente da tre regioni distinte sotto gli Ottomani – Tripolitania ad ovest, Cirenaica a est, e Fezzan a sud, in pieno deserto del Sahara – la Libia fu creata con gli attuali confini sotto l’amministrazione coloniale.

Ma identità locali e regionali, appunto, sopravvissero. Dal 2014, tali divisioni risultarono vieppiù funzionali alle mire di vari potentati stranieri, che presero a supportare ora l’una, ora l’altra fazione. Ad ovest, nella Tripolitania controllata dal CGN, ecco intervenire Turchia, Qatar e, molto più prudentemente, l’Italia. Ad est, nella Cirenaica della Camera dei Rappresentanti, dominata dalle forze del feldmaresciallo Khalifa Haftar, offrono il loro appoggio Russia, Egitto, Emirati Arabi e, in modo defilato ma significativo, la Francia.

Il Governo sotto l'egida dell'ONU

Mentre sul campo la situazione degenera, la Camera a Tobruk e il Congresso Tripoli nel dicembre 2015 danno il loro assenso alla creazione, sotto egida ONU, del Governo di Accordo Nazionale, con sede a Tripoli, e presieduto da Fayaz al-Serraj, il quale si insedierà come primo ministro nel marzo del 2016. Ma questo non modifica sostanzialmente la divisione de facto del paese. L’Esercito Nazionale Libico di Haftar, appoggiato dal governo di Tobruk del suo solidale Al-Thani, è in posizione militarmente dominante.

Il feldmaresciallo si pone come uomo forte contro le tendenze islamiste che sembrano prevalere a Tripoli, dove i Fratelli Musulmani sono presenti; e poi muove perentoriamente contro gli avamposti che lo Stato Islamico aveva creato in Libia all’apice della sua espansione nel mondo arabo. Tra il 2014 e il 2016 città come Bengasi, Derna e Sirte si trovano sotto il controllo o l’offensiva islamista. Haftar, con l’aiuto decisivo di russi, egiziani ed emiratini, riprende questi centri, e marcia poi con decisione verso Tripoli – dunque contro il governo di Al-Serraj riconosciuto dall’ONU.

Il fattore Erdogan

Verso la fine del 2019 solo l’intervento militare turco riesce a respingere, in maniera definitiva, l’attacco di Haftar. Questo evento ha un peso decisivo. In primo luogo, se ve ne fosse ancora bisogno, sottolinea sia la determinazione – con l’impiego di soldati turchi in territorio libico – sia la spregiudicatezza – giungono in Libia alcune migliaia di combattenti jihadisti dalla Siria, che Ankara occupa tutt’ora in alcune zone del nord - del governo di Erdogan. In secondo luogo, cristallizza le posizioni sul campo: a nord-ovest i Turchi con il Governo di Accordo Nazionale; ad est Russi, con Egiziani e Emiratini, a supporto della Camera e dell’esercito di Haftar.

Il successo del Forum

Nel frattempo, l’ONU aveva formato il Forum Libico per il Dialogo Politico, dove a 74 rappresentanti del notabilato libico in campo politico, civile ed economico si era dato compito di licenziare un piano politico ("road map") per la risoluzione della crisi. Il Forum ha sin qui rappresentato il più sorprendente successo nella travagliata vicenda della Libia post-Gheddafi. Riunitosi per la prima volta il 26 ottobre 2020, è riuscito a convincere le parti in causa a creare un nuovo governo ad interim, riconosciuto da entrambi: il nuovo premier, Abdul Hamid Al-Dabaib, eletto in seno al Forum, si è insediato a Tripoli lo scorso 10 marzo, sostituendo l’ormai screditato Al-Serraj.

Lo affianca un Consiglio di Presidenza con a capo Mohammad al-Menfi, mentre il parlamento di Tobruk rimane appunto, per ora, in Cirenaica. Possiamo individuare due motivi fondamentali per questo successo, così repentino. Innanzitutto, entrambi gli schieramenti hanno capito che l’opzione militare non era ormai percorribile, con uno stallo evidente specie dopo l’intervento diretto turco. Successivamente, da più parti si è fatto notare come i libici in generale, pur nelle diversità locali cui si è fatto cenno, abbiano maturato una sensibilità e appartenenza nazionale non trascurabile: specie nel non desiderare una partizione anche de jure del paese, la quale in qualche modo comporterebbe la feudalizzazione permanente nel paese nelle mani di potentati stranieri.

Compito dunque del nuovo governo è quello di programmare e gestire le prossime elezioni politiche: nuovo parlamento, e nuovo presidente.

Si dovrebbe votare il 24 dicembre. Ma il condizionale è d’obbligo.

Sebbene infatti le varie fazioni e i loro sponsor stranieri abbiano dato il loro assenso alla road map, sono rimaste inevase per ora due questioni fondamentali. In primo luogo, c’è un documento costituzionale non ratificato prodotto nel 2017. Si deve prima ratificare la costituzione e poi eleggere parlamento e presidente, o viceversa? Problema reso ancor più complesso dal fatto che tale bozza prevede l’elezione diretta del presidente, ma che varie forze – specie quelle di ispirazione islamista con base a Tripoli – preferirebbero un impianto parlamentare e non presidenziale per la futura repubblica.

E in secondo luogo, quali poteri ha il presidente? Nodo del contendere è, non sorprendentemente, il controllo delle forze armate. Il documento costituzionale ancora da approvare non è chiaro a riguardo; la road map indica appunto il presidente quale comandante in capo; e il parlamento di Tobruk evita di dare un responso per non vedersi privato della sua risorsa più importante, il controllo dell’Esercito Nazionale Libico di Haftar. 

Al momento, lo stesso Haftar, il presidente della Camera di Tobruk, Agila Saleh e il primo ministro ad interim Dabaiba sono i candidati più accreditati per la poltrona di primo ministro alle prossime elezioni. Ad essi si aggiunge uno dei figli di Gheddafi, Saif al-Islam, la cui candidatura è stata però al momento bloccata. Ma dato quanto detto sinora, è alquanto difficile prevedere una tornata elettorale tra meno di un mese. A quel punto, Dabaiba potrebbe prolungare il suo mandato per altri mesi, con il rischio di minare il fragile consenso raggiunto dalla proposta del Forum di inizio anno.

L'Italia inadeguata

In ultimo, alcune considerazioni riguardo l’Italia. La sua estromissione dalla vicenda libica si può far risalire alla fatidica decisione di USA, Francia e Gran Bretagna di rimuovere Gheddafi. Il quale, proprio in quelle settimane, chiamò l’allora primo ministro Silvio Berlusconi per chiedere aiuto. Era stato infatti siglato dai due governi nel 2008 un trattato con il quale si chiudeva la questione coloniale; si appaltava alla Libia il controllo dei flussi migratori; e si ribadiva la preminenza delle imprese e delle industrie italiane in Libia, tramite varie commissioni, anche per quello che concerneva lo sfruttamento di idrocarburi (per un giro di affari nient’affatto trascurabile, di circa 55 miliardi).

Al di là del giudizio politico e fors’anche morale che si potrebbe offrire sul trattato, rimane il fatto che la Libia rimane paese imprescindibile per l’Italia sotto molteplici aspetti. Non solo per il profondo legame storico per via dell’esperienza coloniale; ma anche per l’aspetto energetico, economico e di impresa e di controllo dei flussi migratori: tutti temi strategici di primo piano. E in ultimo, ma certo decisivo, è la perdita della Libia a favore di potenze straniere come Turchia e Russia. Le quali, a prescindere dagli sviluppi interni politico-istituzionali qui descritti, sono paesi ambiziosi, potenzialmente financo aggressivi, le cui basi militari saranno a qualche centinaio di chilometri dalle coste italiane negli anni a venire.

La gestione della questione libica è stato forse il più grande errore di Obama. Ma lo è stato certamente anche per l’Italia.